La Palestina oltre la partizione e lo stato-nazione

di Leila Farsakh,

Al-Shabaka, 4 maggio 2022. 

Un palestinese regge un cartello con le varie mappe della Palestina, durante una manifestazione per commemorare il Nakba day, vicino al muro israeliano di separazione a Betlemme in Cisgiordania, 15 maggio 2016.

Nel suo nuovo volume, Ripensare la statualità in Palestina: Autodeterminazione e Decolonizzazione oltre la Partizione, Leila Farsakh, analista politica di Al-Shabaka e professoressa associata di economia politica presso l’Università del Massachusetts, Boston, riunisce un gruppo eterogeneo di intellettuali per occuparsi criticamente del significato di uno stato palestinese. Andando oltre la partizione [da Israele], che è fondamentalmente alla base della soluzione dei due stati, Farsakh e gli altri autori mostrano che le componenti della statualità palestinese, che includono cittadinanza, sovranità e nazionalità, devono essere pensate nel contesto della decolonizzazione.

Come sostiene Farsakh nell’introduzione del libro: “Decolonizzare la Palestina richiederebbe di articolare le componenti di un nuovo quadro politico che riconosca la violenza e le ingiustizie del passato e del presente, dando la priorità ai diritti di cittadinanza rispetto alla sovranità territoriale”. Ma come si può immaginare l’autodeterminazione palestinese al di fuori della nozione di sovranità territoriale e di stato-nazione? Questa, sottolinea Farsakh, è una domanda continua con cui i palestinesi di tutto il mondo continueranno a confrontarsi.

Con la morte della soluzione dei due stati e il fallimento dell’Autorità Palestinese (AP) nel portare liberazione e giustizia, come possono i palestinesi in Cisgiordania, Gaza, nei territori del 1948 e nella diaspora reimmaginare la loro autodeterminazione al di fuori della struttura dello stato-nazione? Quali alternative esistono e quali sono le sfide che potrebbero presentare?

Al-Shabaka ha incontrato Farsakh per discutere i risultati del suo libro innovativo, e per approfondire cosa significa ripensare la statualità palestinese.

Il tuo libro esamina la traiettoria dell’attaccamento palestinese al modello statale come mezzo di liberazione. Perché questo attaccamento persiste, e perché il modello statale non è alla fine in grado di portare all’autodeterminazione palestinese?

L’attaccamento palestinese alla statualità deriva dal fatto che la statualità afferma il diritto all’autodeterminazione, e quindi il diritto dei palestinesi a decidere il loro destino politico e ad affermare la loro esistenza come nazione. Israele nega questo diritto dal 1948. La statualità è diventata un obiettivo centrale del movimento nazionale palestinese dopo la guerra del 1967 e la risoluzione 242 delle Nazioni Unite del novembre 1967. Questa risoluzione, che divenne la base per gli accordi di pace tra Israele e i suoi vicini, stabiliva che Israele si ritirasse dai “territori occupati nel recente conflitto” in cambio del “riconoscimento della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di ogni Stato della zona”. Ma la risoluzione non menzionava i palestinesi o nessuno dei nostri diritti che sono protetti dalle risoluzioni 181 e 194 delle Nazioni Unite.

Poi, nel 1971, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) definì i suoi obiettivi come la creazione di uno stato palestinese che comprendesse cristiani, ebrei e musulmani all’interno della Palestina storica. Così facendo, presupponeva che l’unico modo per i palestinesi di tornare a casa e liberare la loro terra dal colonialismo sionista era la creazione di uno stato nazionale palestinese. In questo senso, l’OLP non era diversa dalla maggior parte dei movimenti di liberazione del ventesimo secolo, che associavano la liberazione dal colonialismo alla creazione di stati nazionali indipendenti.

La rivendicazione palestinese della statualità è stata sostenuta dalla Lega Araba fin dal 1974. E sia l’Iniziativa di pace araba del 2002 che la Road Map to Peace del 2003 hanno affermato che la creazione di uno stato palestinese indipendente nei territori occupati nel 1967 non solo è legittima, ma è l’unico mezzo per porre fine al cosiddetto conflitto israelo-palestinese.

Ma il fallimento del progetto di uno stato palestinese per realizzare la liberazione deriva da due fatti principali. Il primo è l’acquiescenza dell’OLP al paradigma della spartizione, sostenuto dalla comunità internazionale fin dal 1947, come unico mezzo per risolvere il conflitto. Nel 1988, l’OLP ha rinunciato al suo obiettivo di creare uno stato democratico in tutta la Palestina a favore di uno stato palestinese in Cisgiordania e Gaza come dichiarazione simbolica di indipendenza. Il secondo fattore risiede nell’accettazione palestinese dei negoziati con Israele sulla base degli accordi di Oslo del 1993, invece di affrontare il sionismo ed esigere, come minimo, il pieno ritiro israeliano dai territori occupati.

Questo “processo di pace” ha riformulato e non posto fine alla struttura coloniale di dominio di Israele. Ha permesso a Israele di mettere Gaza sotto assedio per oltre 15 anni e di triplicare quasi la popolazione dei coloni in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, da 250.000 ebrei israeliani nel 1992 a quasi 700.000 nel 2020. Ha anche frammentato l’entità politica palestinese con la creazione dell’AP che de facto ha sostituito l’OLP, compromettendo così la liberazione palestinese e il diritto al ritorno. Lo stato palestinese era quindi destinato a non essere né vitale né sovrano, anche se è riconosciuto da 138 stati.

I diversi capitoli del libro offrono alternative al progetto di uno stato. Quali sono le sfide che i palestinesi devono superare per realizzare una valida alternativa alla partizione?

Il mio libro sostiene che i palestinesi hanno bisogno di allontanarsi dal paradigma della divisione, o dalla soluzione dei due stati, qualsiasi tentativo intraprendano per realizzare i loro diritti. Alcuni palestinesi credono che la ricerca della statualità dovrebbe essere abbandonata del tutto, poiché lo stato rimane, in sostanza, un’entità politica violenta e repressiva.

Essi sostengono invece che la politica del sumud (resilienza sul terreno) e la mobilitazione di base affermano la realtà indigena dei palestinesi. Altri, me compresa, sostengono che l’alternativa sta nel ridefinire lo stato piuttosto che immaginare che possa essere superato e trasceso. Si deve limitare ad essere democratico, inclusivo e responsabile nei confronti dei suoi cittadini.

La sfida che i palestinesi devono affrontare sta nel definire la forma dello stato democratico che vogliono creare e nel concepire una strategia politica per generare un sostegno locale, regionale e internazionale. La sfida a questo proposito non è solo legale o costituzionale –definire se lo stato democratico nella Palestina storica sarà uno stato federale, confederale, binazionale o unitario– ma è soprattutto politica. Cioè, i palestinesi devono articolare come concepire una nuova strategia politica che unifichi la nostra comunità, compresi i rifugiati e coloro che vivono nei territori del 1948. Dobbiamo anche articolare i passi economici, politici e legali che devono essere fatti per smantellare la struttura coloniale di apartheid che Israele ha creato, per costruire un nuovo ordine politico.

Questo significa che i palestinesi devono affrontare la questione del sionismo, invece di rimuoverla come ha fatto il processo di Oslo, e spiegare come israeliani e palestinesi possano essere cittadini uguali all’interno di uno stato democratico. A questo proposito c’è molto da imparare dal Sudafrica, anche se non ha risolto il persistente problema della disuguaglianza economica. Costruire un futuro liberato per la Palestina implica lo smantellamento dei privilegi coloniali e delle strutture di dominazione, così come la definizione dei diritti degli ebrei o degli israeliani che vogliono rimanere in Palestina come cittadini uguali, senza spogliarli della loro identità o compromettere il diritto al ritorno dei palestinesi, che è protetto dal diritto internazionale.

Nel tuo capitolo, sottolinei l’importanza di riarticolare la relazione tra la nazione e lo stato. Perché credi che questo sia importante, e cosa significherebbe per la statualità nella Palestina storica?

Dal 1918, quando Woodrow Wilson internazionalizzò il concetto di autodeterminazione e pose le basi di un ordine mondiale composto da stati-nazione attraverso i suoi Quattordici Punti, la nazione e lo stato sono stati intrinsecamente legati, quando in realtà non devono necessariamente esserlo.

Lo stato-nazione si è rivelato problematico, poiché è destinato ad escludere coloro che non appartengono alla nazione. È inevitabilmente discriminatorio, soprattutto quando non è democratico e quando definisce la cittadinanza sulla base dell’etnia piuttosto che dei diritti di residenza territoriale. Come sostiene Mahmood Mamdani, lo stato-nazione è parte integrante del colonialismo. Esso produce inevitabilmente nativi e coloni, cittadini e stranieri, che sono ineguali nei diritti e nei poteri.

Lo stato è fondamentalmente un ordine giuridico e politico delineato territorialmente. La nazione, invece, è un termine più espansivo usato per definire un corpo di persone con caratteristiche condivise, sia storiche, etniche, culturali o altro. Il termine nazione comprende anche il diritto all’autodeterminazione di un dato popolo. Questo diritto non ha bisogno di essere limitato territorialmente, poiché la sovranità è del popolo.

L’unico modo per decolonizzare la Palestina è quindi quello di allontanarsi dallo stato-nazione come modello di statualità o come obiettivo di liberazione. Come l’esperienza degli ultimi 30 anni ha dimostrato, la creazione di uno stato palestinese mozzato nel quadro della partizione ha escluso i rifugiati palestinesi e i cittadini palestinesi di Israele dalla definizione della nazione palestinese.

Allo stesso tempo, un tale stato non è democratico e non può proteggere i diritti di cittadinanza dei palestinesi a Gaza o in Cisgiordania. Solo costituendo collettivamente uno stato democratico che assicuri l’uguaglianza dei diritti di tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalla loro etnia, possiamo garantire la protezione dei diritti delle persone e la loro libertà.

Tu sottolinei anche il ruolo centrale che i cittadini palestinesi d’Israele potrebbero giocare in un futuro progetto di liberazione. Perché credi che sia giunto il momento, per i cittadini palestinesi d’Israele in particolare, di guidare il movimento di liberazione?

La congiuntura in cui la causa palestinese si trova oggi suggerisce che i cittadini palestinesi di Israele sono ben posizionati per svolgere un ruolo centrale nel guidare la lotta di liberazione, proprio come fecero i rifugiati all’indomani della guerra del 1967, e come fecero i palestinesi in Cisgiordania e Gaza con la Prima Intifada nel 1987 e durante il processo di Oslo. I cittadini palestinesi di Israele possono ricoprire questo ruolo in gran parte perché la soluzione dei due stati è fallita e l’alternativa per il futuro è la creazione di uno stato democratico nella Palestina storica, a prescindere dal fatto che sia o meno uno stato binazionale. Sono quelli che capiscono meglio la realtà delle strutture politiche israeliane. Possono quindi colmare il divario tra palestinesi e israeliani nel portare avanti la soluzione di uno stato unico.

Detto questo, non so se i cittadini palestinesi d’Israele prenderanno o vorranno prendere l’iniziativa nel progetto di liberazione. È anche importante ricordare che tutti i palestinesi hanno un ruolo da svolgere nella loro lotta per la giustizia e l’uguaglianza, come l’Intifada dell’Unità in corso ha chiaramente dimostrato.

Il tuo libro mostra in definitiva che i palestinesi di tutta la Palestina storica e di tutta la diaspora devono accordarsi su un nuovo progetto nazionale collettivo. Come dovrebbe essere questo progetto e cosa comporterebbe per l’attuale leadership palestinese?

I palestinesi in tutta la Palestina storica e in tutta la diaspora concordano sul fallimento della soluzione dei due stati. Mentre alcuni sostengono ancora che il progetto di stato palestinese può essere salvato riformando l’AP, è chiaro ormai che il progetto di stato in Cisgiordania e Gaza non può proteggere i diritti dei palestinesi e serve solo gli interessi di un piccolo gruppo di palestinesi composto dall’AP e dai suoi compari, così come gli investitori capitalisti regionali e globali.

La sfida che i palestinesi devono affrontare in futuro consiste nel concordare un nuovo progetto nazionale collettivo che trascenda la divisione e che sia ancora politicamente fattibile. Un tale progetto non può essere prodotto, tuttavia, senza prima far rivivere l’OLP e le sue istituzioni, dato che è l’unica struttura politica rappresentativa che include tutti i palestinesi dentro e fuori la Palestina storica. Perché questo accada, una nuova generazione di palestinesi deve prendere le redini dell’OLP e confrontarsi con l’AP, che ha marginalizzato l’OLP e abbandonato il progetto di liberazione.

Leila Farsakh è professoressa associata e presidente del dipartimento di scienze politiche all’Università del Massachusetts Boston. È autrice di Palestinian Labor Migration to Israel: Labour, Land and Occupation (Routledge, 2012), e di Rethinking Statehood in Palestine: Self- determination beyond Partition (California University Press, 2022). Ha collaborato con diverse organizzazioni, tra cui l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) a Parigi e il MAS a Ramallah, e dal 2008 è stata ricercatrice senior all’Università di Birzeit. Nel 2001, ha vinto il Peace and Justice Award della Cambridge Peace Commission.

https://al-shabaka.org/commentaries/palestine-beyond-partition-and-the-nation-state/

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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