di Keren Assaf e Jonathan Hempel,
Mondoweiss, 29 aprile 2022.
Finché il futuro economico di Israele sarà legato alla sua industria militare e della sicurezza, continuare l’occupazione rimarrà nell’interesse di Israele.
La mostra israeliana di armi di quest’anno, ISDEF2022, ha ospitato ancora una volta delegazioni di vari paesi che sono tristemente noti per le loro gravi violazioni dei diritti umani. Sono venuti per esaminare un’ampia gamma di armi e tecnologie, alcune ampiamente utilizzate sulla popolazione palestinese, mentre c’è una guerra in corso in Europa. Questa industria è una parte inseparabile della realtà di Israele come regime militarista di insediamento coloniale, e registra il coinvolgimento di circa 130 paesi e il sostegno attivo degli Stati Uniti e dell’UE. Finché la base economica di Israele sarà la sua industria militare e di sicurezza, continuare l’occupazione in Palestina, così come armare conflitti, confini e regimi oppressivi, rimarrà nell’interesse di Israele.
Il mese scorso si è tenuta a Tel Aviv la mostra annuale sull’esportazione di armi e sicurezza israeliane (ISDEF2022). Società di sicurezza israeliane come Elbit, Masada, Anyvision, IWI, Maspenot e altre hanno partecipato alla mostra presentando attrezzature militari, armi, nonché tecnologie informatiche e di polizia. Hanno partecipato membri di spicco del settore della sicurezza, tra cui l’ex capo di stato maggiore, Moshe “Bogie” Yaalon, l’ex capo della polizia israeliana, Roni Alsheikh, l’attuale capo dell’Home Front Command, generale Ori Gordin, l’ex capo della direzione informatica nazionale israeliana, Buky Carmeli e il fondatore di Avnon Group, Tomer Avnon.
L’ISDEF2022 è stato un festival internazionale delle esportazioni di armi israeliane, a cui hanno partecipato delegazioni ufficiali di tutto il mondo, come Ghana, Kenya, Zambia, Uganda, Filippine, Grecia, Marocco, Kosovo, Bosnia, Bahrain, Liberia, Nigeria, Corea del Sud, paesi europei e nordamericani e altri ancora. Questo elenco di paesi include quelli che, secondo i rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch, hanno costantemente commesso violazioni dei diritti umani. Era presente anche una delegazione della Bielorussia, che sta attualmente partecipando alla guerra contro l’Ucraina.
Israele è l’8° esportatore di armi al mondo, ma rispetto alla dimensione della sua popolazione occupa il primo posto; ha relazioni militari estese e di lunga data con circa 130 paesi che hanno investito nell’industria militare israeliana negli ultimi decenni attraverso l’importazione, l’esportazione, l’addestramento e altri mezzi. Alcuni di questi paesi, come il Myanmar e il Sud Sudan, sono soggetti a embargo sulle armi da parte di numerosi paesi occidentali, a causa delle gravi violazioni dei diritti umani e dei crimini contro l’umanità che stanno commettendo. Poiché le leggi israeliane sull’esportazione di armi non pongono alcuna limitazione alle vendite in caso di violazione dei diritti umani, le società israeliane possono esportare legalmente armi e tecnologie informatiche in tali paesi.
Ma questa non è una novità. Israele in passato ha venduto armi al regime dell’apartheid in Sud Africa, alla giunta militare in Argentina e al Ruanda quando il suo regime stava commettendo un genocidio contro la minoranza Tutsi. Con una guerra in corso in Europa che ha ucciso centinaia di civili e portato alla difficile situazione di milioni di rifugiati ucraini, Israele sceglie ancora una volta di investire le sue risorse e promuovere la sua posizione internazionale mostrando armi e tecnologie distruttive.
Non è solo una coincidenza. La ministra dell’Interno israeliana di estrema destra, Ayelet Shaked, ha recentemente dichiarato in una riunione di gabinetto che la guerra in Europa farà capire ai vari paesi che hanno bisogno di eserciti ben equipaggiati, ed ha quindi espresso interesse a utilizzare la crisi in Europa per il profitto israeliano. La dichiarazione di Shaked riflette una politica israeliana di lunga data che va di pari passo con la deportazione o il respingimento di coloro che hanno cercato rifugio in Israele, la deportazione o il rifiuto di ingresso di chi proviene dalle stesse guerre che ha aiutato ad armare. Nell’equazione del profitto israeliano, i missili sono più importanti dei rifugiati.
Dopotutto, negli ultimi anni, una parte considerevole delle esportazioni di armi israeliane è stata diretta verso la militarizzazione dei confini statali, prendendo di mira rifugiati e immigrati in tutto il mondo. Un esempio di ciò è la cooperazione di Israele con l’UE nei settori della sicurezza informatica, della sorveglianza e delle tecnologie di riconoscimento facciale, che stanno subendo un importante sviluppo su scala globale e sono utilizzate da un numero sempre maggiore di forze di polizia in tutto il mondo.
Dal punto di vista storico, Israele è stato istituito mediante l’espulsione della popolazione palestinese nativa e da allora ha sempre mantenuto una qualche forma di regime militare su altre parti della popolazione palestinese sotto il suo controllo. Pertanto, la normalizzazione delle sue esportazioni di armi come spina dorsale della sua economia e la vasta rete di legami che l’industria delle armi ha con le forze di sicurezza, la politica, l’industria high-tech e il mondo accademico in Israele, sembrano un’evoluzione naturale. Militarizzare i confini fisici, così come la sfera politica e civile e criminalizzare i rifugiati: queste espressioni del complesso militare sono complementari con la mentalità dell’insediamento coloniale, che cerca costantemente di espandersi anche per creare segregazione razziale e sottomissione della popolazione indigena.
Visto che il solo fatto di esistere come palestinese serve come motivo per essere criminalizzato e accusato di terrorismo, usare i palestinesi -in particolare nella Striscia di Gaza- come cavie per armamenti all’avanguardia, è una cosa inevitabile; ciò stimola ulteriormente la militarizzazione delle forze di polizia israeliane, con i cittadini palestinesi di Israele che fungono da collegamento tra il “crimine interno” e il “nemico esterno”.
I bombardamenti israeliani della Striscia di Gaza negli ultimi dieci anni, in particolare nell’estate 2014, hanno contribuito notevolmente ai contratti di armi ricevuti da Israele. Ad esempio, solo due settimane dopo l’ultimo grande attacco a Gaza nel maggio del 2021, l’industria aerospaziale israeliana (IAI) ha concluso un accordo per droni da 200 milioni di dollari con un paese asiatico. Tecnologie informatiche e di sorveglianza, come il riconoscimento facciale, l’hackeraggio di telefoni cellulari, le intercettazioni telefoniche, ecc., sono state sviluppate anche in Palestina come risultato della sorveglianza e del controllo israeliano sulla popolazione palestinese.
Questo stato di cose serve a due obiettivi paralleli: preservare la sottomissione dei palestinesi da un lato, e approfittare del vantaggio di avere armi testate in battaglia dall’altro. Solo nel 2020, un terzo della spesa globale per la sicurezza informatica è stato investito in società informatiche di proprietà israeliana, molte delle quali sono gestite da ex ufficiali dell’intelligence ed ex comandanti militari dell’esercito israeliano (IDF). Nello stesso anno, l’industria israeliana delle armi ha realizzato entrate per circa 8 miliardi di dollari, 4 volte di più rispetto ai primi anni 2000.
Finché l’economia israeliana continuerà a fare affidamento sull’industria militare, il suo interesse a preservare l’occupazione in Palestina e sostenere i conflitti armati a livello globale prevarrà, compromettendo inevitabilmente la sicurezza dei propri cittadini che afferma di proteggere. Il 25% del bilancio statale di Israele è destinato alla sicurezza, escluso il bilancio nucleare che da solo riceve miliardi di dollari. L’intersezione tra colonialismo, militarismo e capitalismo globale è dannosa per le comunità più deboli in Israele-Palestina e fornisce un piano inclinato verso una continua espansione di violenza sanzionata dallo stato. I gruppi situati più in basso nella gerarchia socio-economica, come gli ebrei etiopi, mizrahi ed ex sovietici e -naturalmente- i cittadini palestinesi di Israele, saranno i primi a subirne le conseguenze.
Il velo di silenzio e ambiguità steso sulle industrie militari israeliane, inclusa l’energia nucleare, è una tradizione di lunga data che è stata ormai normalizzata e ampiamente accettata. Questo silenzio permette all’industria bellica israeliana di continuare a operare senza supervisione e in totale mancanza di trasparenza, consentendo l’occupazione israeliana della Palestina in cambio di accordi militari, di sicurezza e nucleari, col sostegno di Stati Uniti e UE. Tutto questo fornisce una base inconfutabile alla natura corrotta dei legami tra Israele e altri regimi oppressivi.
Come ebrei israeliani, crediamo che tale critica al regime israeliano sia cruciale per consentire agli israeliani di lottare verso una presenza decolonizzata nella regione, che non sia basata sulla superiorità e sull’espansione violenta, ma piuttosto su uno stato democratico per tutti i suoi cittadini. La nostra richiesta che Israele (e altri stati) limitino i loro investimenti nell’industria militare e destinino i loro bilanci alla salute, al benessere, alle comunità emarginate e alla vera sicurezza e giustizia – tutto questo è parte integrante della nostra opposizione al modello coloniale militarizzato. La comunità internazionale deve ritenere Israele responsabile delle sue violazioni dei diritti umani, sia come occupante che come esportatore predominante di armi.
Keren Assaf e Jonathan Hempel sono attivisti antimilitaristi, direttori di un database sull’esportazione militare e la sicurezza israeliana.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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