Il giudice della Corte Suprema Mazuz ha sbalordito Israele quando si è dimesso. Finalmente spiega perché lo ha fatto

di Gidi Weitz,

Haaretz, 30 dicembre 2021. 

Una conversazione con l’uomo che ha guidato il sistema giudiziario israeliano attraverso una serie di svolte importanti e che un giorno ha deciso di alzarsi e andarsene

Menachem Mazuz. Foto Daniel Tchetchik

Nel corso del 2020, l’unità incaricata di proteggere i tribunali israeliani ha deciso di installare telecamere fuori dall’abitazione di Menachem Mazuz e di dotarlo di una guardia del corpo che lo scortasse per alcuni giorni nel breve viaggio da casa sua all’edificio della Corte Suprema a Gerusalemme. La decisione è stata presa dopo che Mazuz si era nuovamente pronunciato a favore dell’accettazione della petizione fatta da una famiglia palestinese all’Alta Corte di Giustizia per impedire la demolizione della loro casa a seguito di un attacco terroristico commesso da un membro della famiglia senza che gli altri ne fossero coinvolti o a conoscenza. Nel corso degli anni, l’Alta Corte ha ricevuto numerose richieste di demolizione da parte delle autorità, del servizio di sicurezza dello Shin Bet e delle forze di difesa israeliane. Meni Mazuz, come viene chiamato, decise di rompere le uova nel paniere.

Nel luglio 2015, a seguito di un’altra ondata di attacchi terroristici, Mazuz fu assegnato a una serie di commissioni dell’Alta Corte che ascoltavano petizioni contro la demolizione di case. Rompendo con la tradizione, votò per accoglierle tutte. “Sono andato controcorrente in modo esplicito e consapevole”, mi dice quando ci incontriamo nel suo ufficio, in un’ala dell’edificio della Corte Suprema assegnata ai giudici in pensione. “Pensavo che demolire case fosse immorale, contrario alla legge e di dubbia efficacia. La mia sensazione era che le demolizioni fossero fatte per placare l’opinione pubblica israeliana e che anche la dirigenza politica fosse consapevole che questo non era ciò che avrebbe impedito il prossimo atto di terrore”. 

Quasi sempre Mazuz si è trovato in minoranza, e le demolizioni sono andate avanti suo malgrado. I suoi colleghi percorrevano la strada che l’Alta Corte aveva tracciato in passato, basandosi su rapporti segreti dello Shin Bet che, secondo l’organizzazione, dimostravano l’efficacia delle demolizioni nel dissuadere potenziali terroristi. In un raro caso in cui Mazuz è effettivamente riuscito a impedire una demolizione ­–perché il giudice Zvi Zylbertal deviando dalla linea abituale si unì a lui– l’evento non passò senza rumore. La presidente della Corte Suprema Miriam Naor era furiosa per la ribellione di quel giudice appena nominato, che era entrato alla corte solo nel novembre 2014.

Lo scontro raggiunse il culmine nella primavera del 2016. L’IDF aveva deciso di demolire la casa di Abed al-Aziz Meri, un giovane della cittadina di Abu Dis, appena a est di Gerusalemme, coinvolto in un attentato terroristico il precedente ottobre nella Città Vecchia, in cui furono assassinati Nehemia Lavi e Aharon Bennett. I genitori e il fratello del terrorista avevano chiesto al tribunale di bloccare la demolizione, sostenendo di non essere stati complici dell’attacco. Inoltre, hanno aggiunto i genitori, il figlio viveva per la maggior parte del tempo in dormitori per studenti. Il gruppo di tre membri dell’Alta Corte era guidato da Miriam Naor, che era favorevole alla demolizione. Tuttavia, Mazuz fu nuovamente sostenuto, questa volta dalla giudice Anat Baron. I due non erano d’accordo con la presidente, e la demolizione fu scongiurata. 

Dopo quel caso, Mazuz non fu assegnato a una commissione simile per un anno e mezzo. Fonti della Corte Suprema hanno insistito sul fatto che era un puro caso che lui non si occupasse più di demolizioni di case.

Meni Mazuz, lei sostiene che la Corte Suprema, riunita come Alta Corte di Giustizia, autorizzi atti illegali. Cosa glielo fa dire?

“Nella legge del Vicino Oriente antico –Babilonia, Assiria, il Codice di Hammurabi, 3000 anni fa e oltre– la visione normale era che i membri della famiglia fossero proprietà del capofamiglia, e questo trovava riscontro nelle leggi. Diciamo che un muratore costruisce una casa che crolla a causa della sua negligenza, e il figlio del padrone di casa viene ucciso. Qual è la punizione? Viene messo a morte il figlio del costruttore, non il costruttore…

“Arrivò il giudaismo, con l’innovazione rivoluzionaria delle leggi bibliche, e affermò in diverse varianti: ‘I padri non saranno messi a morte a causa dei figli, né i figli saranno messi a morte a causa dei loro padri; ‘ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato’; e “il figlio non porterà con sé l’iniquità del padre, né il padre porterà con sé l’iniquità del figlio”. Successivamente, il diritto internazionale ha adottato l’idea e ha vietato le punizioni collettive.

“È difficile non vedere le demolizioni di case come una punizione collettiva. Membri innocenti della famiglia vengono danneggiati, anche quando non vi è alcuna indicazione che siano stati coinvolti o che fossero a conoscenza [del crimine]. E si tratta di case in cui molto spesso vive l’intero hamula [clan]. Non conosco nessun altro ambito in cui venga inflitta una punizione se non a chi ha commesso il reato. Lo vedo come un’azione estrema. Le demolizioni ci causano quotidianamente danni internazionali. Credi che queste cose rimangano qui? Che non si presentino ogni anno nei comitati per i diritti umani a Ginevra e in [altri] forum internazionali?”

Fin dal suo primo caso, lei ha cercato di far convocare una commissione allargata che discutesse la questione in linea di principio, ma non c’è riuscito.

“La maggior parte delle sentenze [precedenti] che i giudici citano nelle loro decisioni su queste petizioni sono state scritte molti anni fa. La realtà giudiziaria è cambiata, siamo entrati nell’era costituzionale, il diritto internazionale è cambiato. È vero che le richieste per un’altra udienza sono state presentate sulla base dei miei verdetti, ma sono state respinte dalle presidenti della corte, Miriam Naor ed Esther Hayut [che le è succeduta]. Dei 10 casi di questo tipo in cui ero giudice, sono riuscito a cambiare il risultato in tre casi; e assumendo che se non fossi stato nella commissione il risultato sarebbe stato diverso, non lo vedo come un fallimento ma piuttosto come un successo parziale”.

La sua visione era più ambiziosa.

“Vero, non lo nego.”

Quando ha richiesto una commissione allargata, pensava che ciò avrebbe portato a un nuovo stato di diritto in materia?

“Pensavo che giuridicamente la conclusione fosse inevitabile. È vero che l’impressione generale è che ci sia una maggioranza, anche se non numerosa, che sostiene le demolizioni, ma ho pensato che ci fossero buone probabilità che in una commissione allargata i giudici che avevano espresso disagio per le demolizioni fossero d’accordo con me. Secondo la mia ipotesi, sarebbe bastato che uno o due cambiassero idea dovendo affrontare direttamente l’argomento e non accontentarsi di precedenti giudizi e citazioni di casi degli anni ’80 e ’90. Nel mio primo giudizio ho citato decine di riferimenti, tutti inequivocabili. È nostro dovere fare i conti con questo. La Corte Suprema non guadagnerà alcuna gloria dalle sue sentenze sulle demolizioni. La storia non ci giudicherà bene in questa materia”.

I resti della casa di Gerusalemme Est di un terrorista palestinese, dopo la demolizione operata da Israele, nell’ottobre 2015. È una punizione collettiva, ed è illegale, insiste Mazuz. Credito: Thomas Coex /AF

Durante il suo mandato come procuratore generale [2004-2010], non ha impedito le demolizioni. Lei ha autorizzato la demolizione di case nel 2009 dopo l’attacco terroristico alla Yeshiva Mercaz Harav a Gerusalemme.

“Non ho cambiato idea, avevo serie riserve sulle demolizioni anche come procuratore generale, ma non potevo dire al governo che era proibito farle quando c’erano dozzine di sentenze dell’Alta Corte che affermavano il contrario. Ma pensavo anche allora che fosse un errore. Quasi tutti gli studiosi di diritto internazionale, all’estero e in Israele, sostengono che sia una pratica del tutto illegale.

“Inoltre, si è sviluppata la percezione che non sia un’idea utile. All’inizio del 2005, la Corte stava deliberando un’istanza relativa alle demolizioni. Il presidente [della Corte Suprema] Aharon Barak ha raccomandato allo stato di riconsiderare la sua posizione, perché la Corte stava riflettendo sulla legalità delle demolizioni. Lo stato ha ritrattato, per paura di ulteriori considerazioni [da parte della Corte]. Prendendo il commento di Barak come una piattaforma, nel 2005 [come procuratore generale], ho spinto per un esame dell’argomento. Fu costituito un comitato sotto il Magg. Gen. Udi Shani, che giunse alla conclusione che non vi era alcun fondamento su cui basare l’ipotesi che le demolizioni fossero un deterrente utile per la sicurezza. Hanno detto che c’erano indicazioni in entrambe le direzioni. In altre parole, ci sono stati casi in cui qualcuno ha detto durante un interrogatorio dello Shin Bet che voleva perpetrare un attentato, ma ha avuto paura che la casa della famiglia venisse demolita ed è stato dissuaso; e ci sono stati casi in cui qualcuno ha perpetrato un attentato come vendetta per la demolizione della casa di famiglia. Il comitato ha raccomandato il congelamento delle demolizioni e la raccomandazione è stata approvata dai decisori politici.

“Nella maggior parte del mio periodo come procuratore generale, non ci sono state demolizioni. Nel 2009, la situazione politica è cambiata [in seguito all’elezione di Benjamin Netanyahu a primo ministro], le demolizioni delle case sono riprese, all’inizio sotto forma di decisione una tantum dopo l’attacco a Mercaz Harav più un altro attacco, ma in seguito sono diventate gradualmente una routine, con lo stato e i tribunali che considerano la pratica come scontata”.

Lei nega che le demolizioni di case siano un efficace strumento di deterrenza. Ma sembra che anche se ci fossero prove schiaccianti che le demolizioni scoraggiano i terroristi, lei rifiuterebbe quello strumento come illegale.

“Esatto. Nelle mie sentenze ho accennato al tema dell’efficacia, perché questa è l’unica giustificazione addotta dai sostenitori. Credo che [la questione dell’] efficacia non sia rilevante: ci sono paesi che tagliano le mani ai ladri e nessuno sta pensando di applicare qui una legge simile. C’è un confine oltre il quale in una democrazia l’efficacia non può essere rilevante [come fattore] per la punizione”.

Lei sostiene che ci sono indicazioni che vanno in entrambe le direzioni, per quanto riguarda la deterrenza e l’efficacia. I giudici che non erano d’accordo con lei citano rapporti segreti dello Shin Bet che, secondo loro, dimostrano inequivocabilmente che le demolizioni sono un deterrente.

“I rapporti dello Shin Bet sono stati presentati su mia richiesta e li conoscevo dal mio precedente incarico di procuratore generale. In una delle prime deliberazioni in cui è stata argomentata la pretesa di effettività, ho chiesto la presentazione delle relazioni, perché sapevo che non erano univoche. E infatti, ci sono stati esempi che sono andati in entrambe le direzioni”.

Quello che dice è sconcertante, perché in quasi tutti i giudizi in materia, i giudici che hanno autorizzato le demolizioni scrivono di aver ricevuto un verbale segreto che indica che sono uno strumento efficace. Non c’è traccia di ambivalenza.

“Ma, come ho detto, questi sono i fatti”.

O forse la Corte ha semplicemente paura di prendere una decisione che susciterà rabbia nel governo e nell’opinione pubblica.

“Se la Corte cominciasse ad adeguare le sue sentenze sulla base di reazioni di un tipo o dell’altro, sarebbe una resa. Guardi, io non sono un sostenitore dell’attivismo giudiziario. Penso che in materia di sicurezza, di politica, di politica sociale ed economica, in linea di principio vada rispettata la posizione del governo o della Knesset. Ma quando si tratta di una questione esplicitamente legale, è dovere della magistratura intervenire. Il ruolo principale della Corte Suprema è quello di proteggere i diritti umani”.

‘Pagella biennale’

Menachem Mazuz è nato 66 anni fa sull’isola tunisina di Djerba, fratello di mezzo in una famiglia di nove figli. La famiglia emigrò in Israele quando lui aveva un anno e si stabilì nella città di immigrati di Netivot nel Negev. Per un anno vissero in baracche di latta. A Djerba, Mazuz padre era stato rabbino e giudice di corte religiosa; in Israele ha rifiutato di unirsi all’establishment rabbinico e ha invece aperto una libreria. Quando Meni stava per essere arruolato si è tolto la kippa, una mossa che stava contemplando da anni. Quando iniziò a pensare con la propria testa, trovò difficile connettersi con il credo religioso. 

Ha avuto difficoltà a passare dal “Secondo Israele” al “Primo Israele” [cioè dalla parte più svantaggiata della società a quella più privilegiata]?

“Mia moglie a volte dice che sono un po’ cieco e disconnesso al riguardo. È possibile. Non ho sentito che [il mio background] abbia bloccato il mio avanzamento. A volte mi sentivo fuori dal giro in certi posti –all’università, al ministero della Giustizia. Una persona un po’ diversa».

Mazuz. Foto Daniel Tchetchik

Dopo una lunga carriera nel ministero della Giustizia, Mazuz è stato nominato procuratore generale. Dieci anni dopo, nel 2014, la ministra della Giustizia Tzipi Livni gli suggerì di candidarsi alla Corte Suprema. “Ero ambivalente, ma alla fine ho deciso che era un’offerta che non potevo rifiutare. Tra la mia esitazione, ho deciso che avrei preso una strada intermedia, che non avrei completato il mio mandato [fino all’età di 70 anni]. Mi sono ripromesso che dopo tre anni avrei fatto una nuova valutazione. Sono rimasto più a lungo del previsto, soprattutto a causa di ciò che è successo qui negli ultimi due anni: le varie elezioni, i ministri della giustizia, la consapevolezza che c’era un pericolo reale incombente per tutti i sistemi dello stato di diritto nella nazione.

“Quello che è successo qui negli ultimi anni non ha nulla a che fare con nessuna lotta ideologica o politica; è stata una lotta tesa interamente a polverizzare le istituzioni giudiziarie per ben note ragioni. Quella lotta continua ancora. Il “discorso della galera” di David Amsalem [il mese scorso, in cui il parlamentare del Likud ha affermato che i funzionari giudiziari saranno rinchiusi in carcere quando il Likud tornerà al potere] è solo un’espressione più estrema di uno stato d’animo “distruggi tutto”. Ed è chiaro che quando le istituzioni delle forze dell’ordine vengono schiacciate, si crea un rischio palpabile riguardo al crollo dell’intera democrazia israeliana. In quelle circostanze ho sentito che non sarebbe stato giusto allontanarsi nel mezzo della grande tempesta. Senza questo sviluppo, me ne sarei andato prima”.

Mazuz ha annunciato il suo ritiro un anno fa, cinque anni prima dell’età del pensionamento obbligatorio; ha lasciato lo scranno ad aprile. Giudici veterani come Aharon Barak erano sconvolti, vedendola come una mossa irresponsabile. “Barak non avrebbe dovuto essere sorpreso”, dice Mazuz.

Perché no?

“Perché ho parlato con lui quando sono stato nominato, e anche prima. Mi ha suggerito di assumere la carica di giudice della Corte quando era presidente. Ho sempre avuto delle riserve sulla posizione. Ho pensato che non fosse adatta al mio personaggio, perché è un ruolo passivo. Un giudice non fissa la sua agenda, non decide chi sta giudicando. Ti siedi in ufficio e i casi da trattare cadono sulla tua scrivania. Come procuratore generale invece stabilisci tu un ordine del giorno. Quando ero procuratore generale, dopo due anni decisi di darmi la pagella. In quei due anni sono stato in grado di portare avanti molte più questioni che sono importanti per me, di quanto non sia riuscito a fare qui [alla Corte Suprema] in sei anni e mezzo”.

Lei è arrivato con basse aspettative e apparentemente non è rimasto favorevolmente sorpreso.

“Per come la vedo io, il problema principale con il funzionamento della Corte Suprema è il suo carattere ibrido. Si chiama Corte Suprema, ma in pratica il 90 per cento del suo lavoro è come corte d’appello. E la verità è che anche come corte d’appello, una parte considerevole dei casi che la raggiungono sono di un tipo che non arriva alle corti d’appello in nessun’altra parte del mondo: controversie sulla tassa di proprietà di 20.000 shekel [circa 6.250 dollari], e ogni genere di cose incredibilmente meschine.

“Un intero 90-95 percento del tempo di una Corte Suprema è dedicato agli appelli, e poi c’è circa il 5 percento in cui si trattano casi veramente da corte ‘suprema’. Negli Stati Uniti, un paese di 330 milioni di persone, la Corte Suprema esamina da 60 a 70 casi all’anno. Anche in Israele non ci sono più di 60-70 casi all’anno che appartengono alla categoria della Corte Suprema, vale a dire casi di principi costituzionali, o che si occupano di decisioni del governo, o di gravi cause penali. Una Corte Suprema dovrebbe essere destinata a quei casi, ma in pratica sono una minoranza molto piccola della nostra agenda.

“La stragrande maggioranza delle volte ti occupi di questioni ricorrenti, appelli per reati sessuali, per esempio. In forse uno su 20 casi, o anche meno, c’è qualcosa di nuovo. Il resto è semplice routine. Questo crea un peso intollerabile. In occasioni in cui ho avuto la possibilità di parlare con colleghi dall’estero, non riuscivano a credere che una Corte Suprema potesse trattare quasi 10.000 casi all’anno. Pensavano che fossi confuso, sia nella mia lingua che nel mio conteggio”.

Lei non ha una sua vita privata?

“È un fardello 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Devi lavorare anche venerdì e sabato. Non puoi davvero permetterti una vita sociale, una vita di cultura. Qualsiasi altra cosa che fai è accompagnata da un senso di colpa. A causa dell’ibridismo dei compiti, non dedichi abbastanza tempo a cose di valore. Quando un tribunale ha bisogno di esaminare migliaia di casi, naturalmente non puoi dedicare abbastanza tempo a ogni caso, anche se è importante. Di solito ti siedi in commissioni di tre persone, il che significa il 20 percento dei giudici. Nella maggior parte dei paesi la Corte Suprema si riunisce in sedute plenarie Quindi si dice che la Corte Suprema abbia deciso, ma in realtà sono tre giudici su 15, non è necessariamente una giuria che riflette la posizione collettiva della Corte Suprema”.

Quindi pensa che sia necessaria una rivoluzione?

“Guardi, ciò che è necessario è qualcosa di molto banale, che esiste quasi ovunque nel mondo: tutto ciò che occorre fare è creare una Corte d’Appello separata dalla Corte Suprema”.

Se è così semplice, perché non succede?

come Primo Ministro, Corte Suprema, Gerusalemme, 3 maggio 2020. Credito: Yossi Zamir

“Il sistema politico pensa: ‘Se riduciamo il carico della Corte Suprema, si occuperà di più di casi politici e di interesse pubblico’. Chiunque conosca il lavoro della Corte Suprema sa che questo è infondato. I casi pubblici seri hanno sempre la priorità. Anche se 3000 casi sono in attesa sullo scaffale, se viene presentata una petizione contro una decisione del governo, diciamo contro il monitoraggio dello Shin Bet [sui cittadini], un simile caso ha sempre la precedenza sui casi normali. E alla fine chi rimane danneggiato? Persone il cui mondo è andato in pezzi per vicende criminali o familiari, che sono tremendamente delicate. Aspettano lunghi mesi per una decisione, a volte di più, e anche quando l’udienza finalmente ha luogo, viene loro assegnato un tempo breve e limitato”.  

La pressione dei tempi stretti consente ai giudici di impegnarsi in uno scambio di idee prima di decidere un caso?

“Vengo dal ministero della Giustizia, dove ci sono discussioni con brainstorming che coinvolgono tante persone. Qui è diverso. C’è un consulto tra mezz’ora e un’ora, generalmente al mattino, prima di scendere in aula. Se entriamo in aula alle 9 del mattino, diciamo che alle 8 o alle 8:15 ci incontriamo per un consulto”.

Parlate un po’ del caso?

“Quale ‘caso’? Circa sei, sette, otto casi.”

In altre parole, solo pochi minuti per caso.

“Sì.”

Tuttavia, i suoi colleghi pensavano che fosse irresponsabile da parte sua andarsene in un periodo in cui il sistema politico sta cercando di cambiare l’identità della Corte Suprema e rovesciare il sistema dell’ordine pubblico. Lei ha annunciato le sue dimissioni prima delle ultime elezioni.

“Ho annunciato le mie dimissioni quando Avi Nissenkorn era ministro della giustizia. Era impegnato a difendere le forze dell’ordine e il sistema giudiziario. Ogni volta che ho fatto un esame di coscienza se dimettermi o meno, quella era la principale considerazione contro le dimissioni. Ma si può tirare la corda fino a un certo limite. Arriva un punto in cui senti –come ha detto [Menachem] Begin?– ‘Non posso andare avanti.’”

‘Un caso chiaro’

Circa due anni fa, quando furono presentate petizioni all’Alta Corte di giustizia contro l’intenzione del presidente Reuven Rivlin di incaricare Benjamin Netanyahu di formare un governo –perché Netanyahu era sotto accuse penali– le scommesse tra i giuristi indicavano Mazuz come il giudice che avrebbe potuto accettare l’appello, anche se la sua fosse risultata un’opinione minoritaria. La motivazione di questa opinione era il fatto che l’ex procuratore generale, che aveva portato a processo un primo ministro (Ehud Olmert), avrebbe compreso l’immenso pericolo di una situazione in cui il leader dell’esecutivo è accusato di corruzione.   

“C’è stato un lungo tentativo di schiacciare la polizia, l’accusa, il procuratore generale, i tribunali”, dice Mazuz. “Il sistema giudiziario dovrebbe bilanciare il potere del governo, e quando cade a pezzi, l’intero edificio crolla. Abbiamo esempi dalla regione, non molto lontana da qui, che mostrano come viene abbattuto un sistema democratico. Ci siamo andati vicini, non c’è dubbio. In passato questi attacchi provenivano dalle frange estreme. Questa volta provenivano dal primo ministro, con all’apice, ovviamente, la sua comparsa come imputato in tribunale, con i ministri del governo in piedi dietro di lui. Quella è stata una scena spaventosa, uscita direttamente da un film”.  

Anche se Mazuz percepiva il pericolo, si unì ai suoi colleghi nella commissione allargata che emise una decisione unanime secondo cui Netanyahu aveva il diritto di formare un governo. “È una cosa rara”, ammette Mazuz. “Su quasi ogni questione ci sono opinioni di minoranza”.

Eppure proprio in una questione così controversa, 11 giudici presero una decisione unanime.

“Guardi, non è una manifestazione del conservatorismo della corte.”

Netanyahu affiancato dal suo gabinetto di governo all’apertura del suo processo, lo scorso anno. Quella, dice Mazuz, “era una scena spaventosa, uscita direttamente da un film”. Credito: Yonatan Sindel / Flash 90

Della sua codardia?

“Nemmeno codardia.”

La presidente della Corte Suprema Esther Hayut ha cercato di persuadere i giudici che era meglio emettere una decisione unanime su una questione così esplosiva?

“Non ci fu niente del genere. E a proposito, né Hayut, né Naor prima di lei, hanno affermato la loro autorità di presidente. La questione della formazione di un governo da parte di qualcuno accusato di atti criminali è un chiaro esempio di un caso su cui la legge è chiara. Non si può prendere una decisione così drammatica, con le sue implicazioni legali –ledere il diritto del pubblico di votare e di essere eletto, del candidato e dei suoi milioni di elettori– solo perché si crede che non sia giusto. Ho pensato che la realtà di un presidente del consiglio accusato di reati penali sia totalmente il risultato di un fallimento sociale e morale. Una situazione intollerabile. Ma non è compito mio alterare quella realtà, è compito di chi scrive la Legge Fondamentale sul governo. Non credo che un tribunale possa creare una norma su una questione così significativa senza alcun fondamento giuridico».

E quando lei tornava a casa, diceva a se stesso: “Sto perpetuando una situazione assurda e pericolosa”.

“Vero. Ma, giuridicamente parlando, il quadro era molto chiaro. Ed è tutto un po’ ingenuo: supponiamo che la Corte Suprema avesse preso una decisione diversa. Cosa sarebbe successo?”

Forse non sarebbe stata obbedita e Netanyahu avrebbe comunque formato il governo?

“Questo non può essere escluso dalla gamma delle possibilità. Ma c’è una soluzione più semplice: il giorno dopo la Knesset avrebbe potuto modificare la Legge Fondamentale sul governo e stipulare esplicitamente una misura in base alla quale un imputato in tribunale può formare un governo. A proposito, nella maggior parte dei paesi ben governati, non ci sono dispositivi di questo tipo. Non arrivano a questo punto, si attengono alle norme pubbliche. Guardate l’Austria: il cancelliere si è dimesso quando è iniziata un’indagine contro di lui. Anche qui, dei primi ministri si sono dimessi in circostanze simili».

Lei dice che la legge è chiara, ma secondo la legge il presidente dello stato ha potere discrezionale. Non si potrebbe sostenere che è irragionevole per il presidente incaricare una persona accusata di corruzione di formare il governo?

“Sono d’accordo che, legalmente, l’unico anello di questa catena che avrebbe potuto essere esaminato è la saggezza del presidente. Ma a quanto pare il presidente ha pensato anche a questo e ha deciso di trasferire la decisione alla Knesset».

Presumo che lei sostenga il disegno di legge presentato dal ministro della Giustizia Gideon Sa’ar che ha lo scopo di ovviare a una situazione simile in futuro.

“Un primo ministro sotto accusa grave è una situazione inaccettabile, sia pubblicamente che in semplici termini di funzionamento. Cioè proprio a livello di capacità di funzionare. E abbiamo visto cosa è successo qui. Se il problema potesse essere risolto nell’arena politica, sarebbe preferibile. Ma se vediamo che non viene risolto, l’unica opzione è che la Knesset lo decida per legge”.

Gli oppositori vogliono sapere come può essere che in una democrazia un funzionario possa deporre un primo ministro eletto dall’opinione pubblica.

“Questo è un argomento esasperante e artificiale. Il procuratore generale non è un funzionario e la presentazione di un atto d’accusa contro un primo ministro è un processo complesso in cui sono coinvolte numerose persone. Ma ho un’idea che può neutralizzare quell’argomento. Una procedura che non è estranea al metodo di giustizia israeliano potrebbe essere prevista dalla legge. Fino al 1958 Israele aveva una legge in base alla quale il procuratore generale poteva rivolgersi a un tribunale distrettuale in caso di un reato grave al fine di [consentire alla corte] di esaminare il fascicolo e decidere se fosse giustificato un atto d’accusa. Poi si teneva un’udienza davanti al tribunale, con la partecipazione di entrambe le parti, al termine della quale il tribunale decideva se vi fosse una base ragionevole per la condanna. Si sarebbe potuto fare anche in questo caso».

Dal 1996, ogni primo ministro è stato interrogato con cautela. Questo è un colpo mortale alla loro capacità di funzionare. Negli ultimi due anni abbiamo visto che un’indagine di questo tipo può sconvolgere l’ordine delle cose. Forse è giunto il momento di limitare la durata del mandato e promulgare la “legge francese” – legislazione in base alla quale i leader politici non possono essere perseguiti penalmente mentre sono in carica?

Ehud Olmert. Credito: Ohad Zwigenberg

“La sua supposizione che un’indagine danneggi la funzionalità non è necessariamente corretta. Posso attestare casi che ho conosciuto di prima mano. Nel periodo di Ariel Sharon e Ehud Olmert, entrambi oggetto di indagine, era difficile vedere danni alla loro capacità di funzionare [mentre c’erano procedimenti legali in corso contro di loro] – nemmeno la traccia di un danno. Né ci sono stati tentativi da parte loro di calpestare il sistema delle forze dell’ordine. Non c’è stata interruzione nelle nomine alle forze di polizia, non c’era situazione in cui ci fosse un commissario di polizia in carica per un lungo periodo. Sotto Olmert ci sono state serie discussioni sulla battaglia contro la criminalità organizzata, inclusa una decisione su un incremento di bilancio. Non c’è stato nessuno degli sviluppi che abbiamo visto negli ultimi due anni.

“La soluzione della ‘legge francese‘ è pessima, e non a caso non è stata adottata da nessun Paese occidentale. L’unico paese che ha provato a farlo è stata l’Italia sotto Berlusconi. Quando venne sospettato, riuscì per due volte a far approvare dal parlamento una specie di legge francese, e per due volte la Corte Costituzionale italiana la revocò.  

“La legge francese solleva questioni molto difficili. A quali reati si applicherà? Omicidio? Stupro? Tradimento? Cosa succede con i complici? Saranno indagati, mentre il premier non è indagato? La conseguenza è, ovviamente, la totale interruzione delle indagini. Sappiamo anche che la possibilità di condurre un’indagine efficace dopo un ritardo di anni è vicina allo zero. Lo vediamo non solo quando un’indagine viene rinviata di otto anni; anche un’indagine che si trascina per due o tre anni di solito viene falsata”.

Vediamo che le indagini su personaggi pubblici, compresa quella contro il premier, si allungano da molti anni.

“Il sistema giudiziario deve essere consapevole del prezzo da pagare per prolungare i processi investigativi e ritardare un processo. Non c’è dubbio. Questo è vero per ogni persona, ovviamente, e doppiamente vero per un personaggio pubblico. In base alla mia esperienza, è di fondamentale importanza, da ogni immaginabile punto di vista, condurre un’indagine rapida ed efficace. È importante prima di tutto ai fini dell’indagine stessa. Un’indagine non sarà efficace se viene trascinata a lungo”.

Dal momento in cui è stata presentata un’incriminazione contro di lui, Netanyahu ha quasi completamente smesso di incontrare il procuratore generale Avichai Mendelblit e ha condotto una campagna mediatica contro di lui. Olmert ha trattato lei in modo diverso?

“Olmert si è comportato in modo del tutto professionale. Nelle discussioni congiunte, un osservatore laterale non avrebbe trovato nemmeno un indizio che era sotto inchiesta, nel suo comportamento o nel suo atteggiamento nei confronti del sistema giudiziario o della polizia. Quindi avevo un punto di riferimento”.

La differenza tra gli episodi di Olmert e Netanyahu è che oggi gran parte del pubblico è convinto che Netanyahu sia stato ingiustamente incastrato. Questa nozione ha messo radici tra le masse.

“Dopo che queste accuse sono state sbandierate per anni, non sorprende che la gente accetti quella versione. Chiunque guardi alla storia di Israele vede che le decisioni del sistema giudiziario sui personaggi pubblici non hanno un colore politico. A cominciare dalle decisioni di Aharon Barak che era procuratore generale nella fase calante del governo di Allineamento Laburista [in seguito al quale Begin salì al potere], fino alle decisioni sul caso Olmert [in seguito al quale Netanyahu è salito al potere]. In effetti, quei due rivolgimenti – nel 1977 e nel 2009 – hanno avuto un impatto politico diverso da ciò che si pensa, ma nell’atteggiamento odierno del colpire a ogni costo, i fatti non hanno alcuna rilevanza”.

Forse la differenza sta nel carattere dei casi: è molto più facile per il pubblico capire quando si tratta di buste piene di dollari che non quando si tratta di capire che distorcere la copertura mediatica rappresenta una corruzione.

La corruzione dei media può essere meno compresa dal pubblico, mentre le mance del valore di centinaia di migliaia di shekel parlano anche alla persona media. Olmert non era innocente nell’attaccare il sistema dello stato di diritto, ma era specifico e mirato. Non ha sostenuto di essere stato attaccato per motivi politici. L’accusa che si sta tentando di rovesciare un primo ministro per ragioni politiche è cinica, pericolosa e irresponsabile da parte di Netanyahu: dovrebbe assumersi la responsabilità per il paese, per la sua società. Non si può immaginare che non capisca le implicazioni di quel tipo di comportamento. In questo senso, è stata una mossa paurosa e pericolosa». 

Padre e figlio

Nel 2009, poco dopo essere stato eletto per la seconda volta (dopo un precedente mandato come premier dal 1996 al 1999), Netanyahu chiamò Mazuz e chiese di incontrarlo in privato. Invitò il procuratore generale nella casa di pietra di suo padre in un quartiere bene di Gerusalemme. “Ci siamo seduti lì e dopo tre minuti è entrato suo padre”, ha ricordato Mazuz. “Aveva 99 anni, ma stava ancora dritto in piedi. Netanyahu si è alzato e ci ha presentato, e sono rimasto molto colpito dalla riverenza che aveva per suo padre. Il padre lasciò la stanza e Netanyahu mi parlò dei dilemmi nella formazione del governo e mi disse che non avrebbe esteso il mandato [del prof. Daniel] Friedmann come ministro della giustizia e avrebbe nominato [l’avvocato] Yaakov Neeman. Gli ho detto: non intervengo nella formazione del governo. Neeman era più solido di Friedmann, ma condividevano più o meno le stesse opinioni. Friedmann è una persona perbene, completamente sincera. Trovo sempre preferibile questo tipo di persone”.

L’incontro e il luogo non erano casuali. Netanyahu voleva creare un’atmosfera di intimità tra lui e Mazuz, per dimostrare il suo rispetto per la magistratura e per il procuratore generale. Una persona che ha lavorato al fianco di Netanyahu in quegli anni ha raccontato ad Haaretz che quando Mazuz è stato invitato per la prima volta all’“acquario” –l’Ufficio del Primo Ministro– Netanyahu si è preso la briga di uscire e scortare personalmente Mazuz. “È stato un piccolo gesto che la dice lunga”, secondo il confidente.

Passano alcuni mesi e il ministro della Giustizia Neeman annuncia l’intenzione di scatenare un terremoto: dividere in due i compiti del procuratore generale: consigliere giuridico del governo e procuratore generale. Mazuz era sul punto di mettersi in pensione, ma questo lo colse di sorpresa. Ebbe due incontri privati ​​con Netanyahu. “Gli ho spiegato tutte le implicazioni e lui ha deciso all’istante di porre fine al piano. “Yankele [Neeman] mi ucciderà”, ha detto.

Ariel Sharon. Credito: David Guttenfelder/AP

Le indagini contro Netanyahu furono inizialmente condotte lentamente da Mendelblit, che mostrò grande scetticismo. Quando poi ha varcato il Rubicone e ha accelerato le cose, Netanyahu ha sentito che l’uomo che aveva contribuito a nominare lo aveva tradito. Il risultato è stato un raffreddamento senza precedenti nelle loro relazioni. Forse questo l’ha convinto che lei si era sbagliato [inizialmente] e che in effetti era necessario dividere i compiti del procuratore generale?

“Assolutamente no. Sono contrario a quella divisione, una cosa che danneggerebbe il governo e lo stato di diritto. Comporta pericoli, a cominciare dalla politicizzazione della posizione. Ogni governo vorrebbe nominare un procuratore generale che ne condivida le prospettive, una persona che gli faciliti le cose. Ciò causa un effetto domino. Nella fase successiva, tutti i consulenti legali dei ministeri diventeranno politici. All’epoca dissi a Netanyahu: “A prima vista potrebbe sembrarti il ​​paradiso: i consulenti legali smetteranno di renderti la vita difficile. Ma la realtà è l’esatto contrario. Oggi, se un consulente legale dà un certificato di kashrut [cibo ammesso] a una decisione del governo, l’Alta Corte darà con quasi assoluta certezza la sua approvazione [se la decisone viene contestata]. Al contrario, se il consulente legale diventasse una figura politica, le sue opinioni non avrebbero alcun valore, né pubblico né legale.’”

Un altro svantaggio di una scissione sarebbe “la perdita del meccanismo di controllo che il procuratore generale ha sul sistema dell’accusa”. Mazuz spiega: “In passato, ci sono stati casi in cui la polizia e l’accusa hanno raccomandato di processare personaggi pubblici e il procuratore generale ha respinto la raccomandazione. Posso dire dalla mia esperienza che questo è successo in un certo numero di casi, a causa del fatto che l’accusa non ha compreso appieno il sistema politico –una comprensione che il procuratore generale invece possiede. E aggiungerò qualcosa di un po’ delicato, ma ne prendo la responsabilità: negli anni ’90 ci sono state una serie di clamorose assoluzioni in casi di personaggi pubblici: Neeman, Raful [Rafael Eitan, ministro di gabinetto ed ex capo di gabinetto dell’IDF], [l’ex ambasciatore alle Nazioni Unite Simcha] Dinitz. Quando cerco di spiegare perché è successo questo, una cosa che salta fuori è che durante il periodo delle assoluzioni, l’accusa era più dominante e il procuratore generale era relativamente debole”.

Nel corso degli anni, è stata avanzata l’idea che un procuratore generale sarà favorevolmente disposto nei confronti del primo ministro che lo ha nominato. Si dice che lei ha commesso un errore fatale quando ha chiuso il “caso dell’isola greca”, in cui Ariel Sharon era sospettato di promuovere gli interessi di un appaltatore che ha pagato milioni al figlio di Sharon per strani consigli. “Sharon ha nominato Mazuz e Mazuz lo ha ripagato”.

“Sono sicuro che ci sono persone che pensano che la mia decisione di chiudere il caso contro Sharon sia stata sbagliata, anche solo per il motivo che c’è stata una forte campagna mediatica contro la decisione. C’erano persone dietro quella [campagna], dall’interno del sistema”.

Dal Ministero della Giustizia?

“E dalla polizia. Persone molto specifiche. Tutti quelli che conoscono i dettagli sanno esattamente chi erano e sanno che avevano anche connessioni nei media, sostenitori regolari che hanno condotto una campagna molto intensa, e poi, quando è arrivato un nuovo procuratore generale e ha deciso diversamente da ciò che era stato raccontato, è sembrato molto strano a tutti. Ecco perché molte persone hanno bevuto quella storia.

“Ora, per quanto riguarda la mia nomina, quelle accuse sono certamente infondate. Non ero il candidato né di Sharon né del ministro della giustizia Tommy Lapid. La mia candidatura è stata avanzata da tutti i membri di un comitato guidato dal giudice [Gabriel] Bach, dopo che il candidato di Lapid [l’avvocato Yoram Turbovich] era stato squalificato. Sono certo che se Sharon fosse stato incriminato, alla fine ci sarebbe stato un grave incidente. E il colossale crollo in un caso contro il ministro delle finanze è il crollo dell’intero sistema. Non poteva concludersi solo con un’assoluzione; avrebbe portato a un crollo e a dei cambiamenti, con risultati a cui non voglio pensare. Sarebbe stato un disastro, senza virgolette e senza qualifiche. Sono orgoglioso di quella decisione. Senza di essa, l’intera storia giudiziaria di Israele sarebbe stata diversa”.

Guarda come il passato dialoga con il presente. Sette pubblici ministeri, guidati da Edna Arbel, pensavano che Sharon avrebbe dovuto essere incriminato. Si dice che quando lei ha chiuso il caso, li ha chiamati “costruttori di casi” e “marcatori di obiettivi”.

“Non ho mai usato il termine ‘costruttori di casi’. Quel termine mi è stato erroneamente attribuito da [il commentatore del telegiornale] Amnon Abramovich, che in seguito ha ammesso che non l’avevo usato. Per mia fortuna, c’è stata una registrazione dell’incontro a porte chiuse con i giornalisti che si tenne dopo la chiusura del caso. In effetti pensavo che il procedimento del lavoro fosse stato molto imperfetto. C’era un parere motivato di una squadra di pubblici ministeri del Distretto Centrale che concludeva che non c’erano prove contro Sharon. E poi è arrivato il pubblico ministero [Edna Arbel] e ha detto: ‘Non sono d’accordo; a mio avviso ci sono prove.’ Un gruppo di pubblici ministeri è stato reclutato per sostanziare la sua opinione. La squadra ha lavorato verso un obiettivo predeterminato. Questo è stato l’errore grave. Io ho fatto il contrario: ho mandato i pm a studiare il caso, insieme a me, senza sapere cosa avrei deciso. La mia grande discussione con Arbel era sulle prove: non ho mai pensato che un’indagine fosse ingiustificata o che i sospetti fossero infondati”.

L’ex giudice della Corte Suprema Edna Arbel. Come procuratrice di stato, aveva raccomandato di incriminare Sharon, ma Mazuz ha deciso al contrario. Credito: Emil Salman

Due anni dopo che Mazuz si era ritirato dalla carica di procuratore generale, il presidente della Corte Suprema Dorit Beinisch gli suggerì di candidarsi alla corte. Questo era prima che Livni facesse il suo suggerimento. All’epoca Mazuz pensava di avere poche possibilità di essere eletto e si rifiutò categoricamente di aderire alla Corte Suprema occupando il posto oltraggiosamente definito come “seggio Mizrahi”, che era stato inventato negli anni ’60 in un distorto tentativo di correggere l’inadeguata rappresentazione etnica, un torto che persiste ancora oggi. 

Dice Mazuz: “Guardi, non sono estraneo alle mie origini Mizrahi. Non ho mai pensato di ebraizzare il mio nome, e parlo sempre con orgoglio della mia estrazione Mizrahi e di Netivot. Non me ne voglio sbarazzare e non lo nascondo”.

Ma non voleva un’azione affermativa.

“Ho detto a Beinisch che se era così che sarei stato presentato, non ero interessato. Quando metti un’etichetta su qualcuno, il messaggio implicito è che quella persona di per sé non è degna”.

Una giustizia ‘antiattivista’

Negli ultimi anni si è verificata una guerra straordinaria per l’identità della Corte Suprema. Dopo l’età d’oro degli anni ’90, sotto la guida di Meir Shamgar e Aharon Barak, arrivò la richiesta della destra di nominare giudici conservatori che avrebbero ridotto l’attivismo giudiziario. “È legittimo per un pubblico conservatore voler vedere una maggiore rappresentanza conservatrice nella Corte Suprema”, afferma Mazuz. “Ma spesso quel discorso è slegato dai fatti. Non credo che la corte oggi sia attivista o decisamente liberale”.

Mazuz, ad esempio, si definisce un giudice liberale e totalmente non attivista. “L’esempio tipico è stato un disegno di legge presentato dal ministro delle finanze Moshe Kahlon per tassare le terze case. Ero l’unico ad essere contro la soppressione della legge. L’opinione della maggioranza è stata scritta dal giudice Noam Sohlberg, che viene sempre presentato come il capo del campo conservatore [alla Corte Suprema]. L’intera sentenza ha affrontato la questione se la legge dovesse essere abrogata perché l’iter legislativo non era stato ottimale, perché era stato frettoloso. Io pensavo che era improponibile che un tribunale diventasse una maestra d’asilo e si mettesse a esaminare la qualità del dibattito alla Knesset.

“Conosco bene i processi di lavoro della Knesset, a differenza di altri giudici. Tutte le leggi sugli accordi, e talvolta anche altre leggi, vengono emanate con rapidità e urgenza. Ci sono decreti che vengono trascinati per anni e decreti che vengono finalizzati in un’unica riunione. Questo è stato un caso che ha esemplificato il mio antiattivismo, e questa è stata la mia politica da sempre. Penso che sia necessaria una grande cautela con l’attivismo, specialmente nella situazione israeliana, dove il discorso politico è così forte. Non abbiamo una costituzione vera e propria, quindi i tribunali devono stare molto attenti a non sconfinare nel territorio delle altre autorità governative”.

Non è forse giunto il momento di stabilire quale sia l’autorità della Corte Suprema quando si tratta di intervenire nelle leggi della Knesset, inclusa una “clausola di annullamento” [per consentire alla Knesset di ribaltare a maggioranza speciale una decisione dell’Alta Corte che invalida una legge]?

“Il punto più importante nell’agenda giudiziaria è proporre una Legge Fondamentale sul potere legislativo e regolamentare l’autorità della Corte di rivedere la nuove leggi su base costituzionale. In una situazione ideale, se lavorassimo senza alcun vincolo, l’intera nozione di clausola di annullamento sarebbe probabilmente superflua. Ma c’è un punto che ci obbliga ad essere molto più realistici. L’intero processo attraverso il quale abbiamo forgiato la nostra costituzione non è stato del tutto naturale. Abbiamo emanato una costituzione con un procedimento che nessun altro paese ha sperimentato: va avanti da quasi 70 anni ed è solo parzialmente [finito]. Quindi non sono preoccupato per la clausola di annullamento, e penso anche che non ci sia alcuna giustificazione per chiedere alla Knesset una maggioranza molto ampia”.

Basterebbero 65 parlamentari per resuscitare una legge che la Corte Suprema ha bocciato?

“Settanta sarebbe più corretto, ma se si scende a 65, penso che anche una clausola di annullamento con una maggioranza di 65 sia preferibile alla situazione esistente, che è la peggiore di tutte le opzioni possibili. Sarebbe giusto fissare un assetto del genere per un periodo limitato di 10-15 anni, fino al completamento del progetto di costituzione».

Lei si è definito un liberale. Come potrebbe un liberale respingere una petizione per eliminare la legge dello stato-nazione – che, tra l’altro, riflette forse una situazione autentica: democrazia solo per ebrei.   

“No, no, non sono d’accordo con quella definizione. Quella legge era in discussione da anni, e l’idea originale era quella di prendere elementi della Dichiarazione di Indipendenza e inserirli nella legge, come una sorta di preambolo alla costituzione. Il problema principale di quella legge non è quello che contiene, ma quello che non contiene: il principio di uguaglianza».

Questo è un motivo sufficiente per ribaltarla.

“Quella lacuna è davvero stridente, perché il principio è contenuto nella Dichiarazione di Indipendenza. È una mancanza flagrante, e la legge è stata fatta in circostanze che sono state percepite come un dito nell’occhio della minoranza araba. Date le circostanze, e considerato il modo in cui è stata fatta, non è solo una legge superflua, è una legge dannosa; ma era davvero impossibile intervenire. Legalmente è una situazione molto strana, in cui si contesta una legge non per ciò che contiene ma per ciò che non contiene. Di conseguenza, ciò che ha fatto la Corte –una tecnica comune ed efficace– è stato dire che la “Legge Fondamentale su Israele come Stato-nazione del popolo ebraico” in realtà non viola affatto il principio di uguaglianza, perché il principio di uguaglianza esiste nella costituzione israeliana nel quadro della Legge Fondamentale sulla Dignità e Libertà Umana. In quanto tale, è come se il tribunale avesse neutralizzato quella bomba, a livello giudiziario».

Il giudice arabo George Karra, in un’opinione di minoranza, ha espresso la sua convinzione che la legge dello stato-nazione dovrebbe essere abolita. Il giudice Sohlberg, che vive nell’insediamento di Gush Etzion [in Cisgiordania], ha dichiarato in un’opinione minoritaria che la Legge sulla Regolarizzazione [con cui la terra privata dei palestinesi può essere espropriata] non deve essere abolita. Il giudice Edmond Levy ha sostenuto i gruppi più deboli della popolazione e si è pronunciato (in minoranza per un voto) contro il “disimpegno” dalla Striscia di Gaza. Questi sono solo alcuni esempi di come la biografia di un giudice influenza i suoi giudizi. Lei è nato in Tunisia e cresciuto a Netivot. In cosa si riflette la storia della sua vita?

“È difficile per me dirlo. Ho cercato molto di evitare situazioni in cui i giovani che hanno commesso un primo reato, anche se non minore, vengano mandati in prigione. Ho avuto alcuni casi in cui ho combattuto e ho cercato di convincere i miei colleghi della giuria ad astenersi da far ciò, perché sapevo che in certe situazioni, in ambienti particolari, è facile per un giovane essere coinvolto in un evento criminale, mentre a qualcuno che è cresciuto in un luogo diverso e in un’atmosfera diversa, può sembrare che il giovane abbia dovuto fare molta strada per raggiungere quel tipo di situazione”.

E questo è legato al fatto che è cresciuto a Netivot?

“In una comunità isolata ed economicamente svantaggiata, i bambini non vivono sotto la supervisione dei genitori minuto per minuto, come abbiamo fatto noi una volta diventati genitori. I bambini vivevano per ore nella strada e potevano essere trascinati in ogni genere di cose proibite. In quel tipo di casi [legali] ho sentito che riconoscevo qualcosa del mio passato e ho pensato che fosse sbagliato che un giovane perdesse la vita a causa di un singolo evento. Se mandiamo quelle persone in galera adesso, loro oltrepasseranno una linea dalla quale non potranno più tornare indietro”.

https://www.haaretz.com/israel-news/.premium.HIGHLIGHT.MAGAZINE-supreme-court-justice-mazuz-stunned-israel-when-he-retired-he-finally-explains-why-1.10504571?utm_source=App_Share&utm_medium=iOS_Native

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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