di Noam Sheizaf,
+972 Magazine, 29 dicembre 20221.
Una nuova raccolta di saggi esplora come l’esercito israeliano giustifica la sua violenza contro i Palestinesi e perché la società israeliana accetta così facilmente i suoi abusi.
Recensione del libro “Armed with Legitimacy: Justifications for Military Violence in Israeli Society,”
Edito da Ofra Ben Ishai e Yagil Levy, Pardes Publishing, 2021 (in ebraico).
Alla fine di agosto, alla vigilia dell’incontro alla Casa Bianca di Naftali Bennett con il presidente Biden, il primo ministro israeliano ha rilasciato un’intervista al New York Times in cui ha delineato l’agenda del suo governo. “Questo governo non annetterà né formerà uno stato palestinese, lo capiscono tutti”, ha detto Bennett. “Sono il primo ministro di tutti gli israeliani e quello che sto facendo ora è trovare una via di mezzo: come possiamo concentrarci su ciò su cui siamo d’accordo”
Dopo anni di adesioni verbali da parte dei leader israeliani alla soluzione dei due stati o all’annessione della “patria storica” di Giudea e Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania occupata), Bennett ha finalmente articolato l’innegabile realtà in Israele-Palestina: per quanto riguarda gli israeliani, lo status quo è la soluzione. Lo status quo è anche il denominatore comune su cui è costruito il suo governo: è il collante che tiene insieme una coalizione che include il partito palestinese Ra’am, il liberale Meretz e il partito nazional-religioso Yamina.
Due progetti complementari sono al centro dello status quo: il controllo militare di Israele su quasi cinque milioni di palestinesi nei territori occupati e la graduale colonizzazione della Cisgiordania. Tecnicamente, Israele vede la Cisgiordania come “contesa” piuttosto che occupata e, dal disimpegno del 2005, gli israeliani non credono più che Gaza sia sotto l’occupazione israeliana. Eppure, in pratica, l’esercito israeliano controlla entrambi i territori.
L’IDF (esercito israeliano) è stato il potere sovrano in Cisgiordania per quasi 55 anni e il comandante dell’IDF Central Command (il comando regionale che sovrintende alla Cisgiordania) ha ampi poteri legislativi sulla popolazione palestinese. I civili palestinesi vengono processati nei tribunali militari, ed è l’esercito che rilascia i permessi che consentono loro di attraversare la Linea Verde e lavorare all’interno di Israele. In luoghi come Hebron o nell’Area C (le parti della Cisgiordania sotto il completo dominio israeliano), il controllo militare è diretto e molto visibile, con soldati che svolgono compiti quotidiani di polizia; in altri luoghi, questo controllo assume forme più sottili, o viene effettuato attraverso l’Autorità Palestinese come subappaltatore dell’occupazione israeliana.
Le cose sono un po’ più complicate a Gaza, che Israele ha formalmente lasciato nel 2005, ma il blocco di quasi 15 anni sulla Striscia è chiaramente una politica di controllo. Come in Cisgiordania, l’esercito israeliano è incaricato di rilasciare permessi agli abitanti di Gaza, amministrare la loro registrazione nell’anagrafe della popolazione, determinare come e dove i pescatori di Gaza possono pescare, controllare lo spazio aereo e decidere quali merci possono entrare o uscire da Gaza.
Questo regime di controllo militare non cerca né si aspetta legittimazione dalla popolazione sotto il suo governo. I palestinesi non fanno parte del sistema politico israeliano, non sono rappresentati nelle istituzioni di governo e non hanno voce in capitolo sulle principali decisioni che riguardano la loro vita. Dal momento che i palestinesi non accetteranno mai un simile sistema di controllo delle loro libertà, l’unico modo per mantenere questo sistema è con la forza, usando o minacciando la violenza.
Legittimazione della violenza
Dopo la Seconda Intifada e il crollo del processo di Oslo, molti studiosi, giornalisti e documentaristi critici israeliani sono passati dalla ricerca delle ragioni storiche dell’occupazione –e dal discutere sui suoi motivi morali o immaginare possibili accordi politici per sostituirla– alla ricerca di come funziona l’occupazione e cos’è che la rende così resiliente.
Per gli attivisti israeliani, questa nuova prospettiva ha significato un riconoscimento della propria limitata possibilità di porre fine all’occupazione, ma ha stimolato nel contempo un uso più sofisticato del loro accesso privilegiato alla società ebraica e alle istituzioni israeliane. È anche servita come un nuovo modo di sollevare questioni morali e politiche, dopo che le vecchie erano giunte a un vicolo cieco. Infine, e forse più tragicamente, questo cambiamento è il risultato del fatto che sia la società ebraico-israeliana che quella palestinese si allontanano l’una dall’altra e si concentrano sempre più al loro interno.
Esempi di questo nuovo approccio includono una classe di nuovi libri e film, tra cui “Living Emergency: Israel’s Permit Regime in the Occupied West Bank” di Yael Berda; “The One-State Condition: Occupation and Democracy in Israel/Palestine” di Adi Ophir e Ariella Azoulay; “The Wall and the Gate: Israel, Palestine, and the Legal Battle for Human Rights” di Michael Sfard e film come “The Law in These Parts” e “The Viewing Booth”, entrambi di Ra’anan Alexandrowicz.
“Armati di legittimità [Armati di legittimi poteri]: giustificazioni per la violenza militare nella società israeliana”, una raccolta in lingua ebraica di saggi accademici curata da Ofra Ben Ishai e Yagil Levy, è un’aggiunta importante e molto attesa a questo corpus di opere. Si concentra sulla principale istituzione israeliana con cui i palestinesi sono costretti a confrontarsi e che, stranamente, riceve pochissima attenzione: l’esercito israeliano.
Ben Ishai è un ex capo del dipartimento di scienze comportamentali dell’IDF. Levy, professore di sociologia alla Israel Open University, è uno dei pensatori più originali e interessanti sui rapporti tra l’esercito israeliano e la società israeliana. Più di un decennio fa, ha pubblicato un articolo che analizzava il ruolo che le ONG per i diritti umani svolgono nella normalizzazione dell’occupazione, in cui sosteneva che la presenza di gruppi per i diritti umani aiuta effettivamente il controllo dell’IDF sul comportamento dei suoi soldati, costituendo una forma di privatizzazione della supervisione dello Stato sulle sue forze armate. Ricordo che il pezzo di Levy fece arrabbiare alcuni dei miei amici che lavoravano in quelle ONG. Tuttavia, con il passare degli anni, quelli stessi gruppi hanno iniziato a concentrarsi sull’advocacy e sul lavoro più apertamente politico volto ad attaccare l’occupazione come sistema, piuttosto che cercare di mitigare le sue violazioni dei diritti umani individuali, e anche loro si sono resi conto che Levy aveva ragione.
Come suggerisce il nome, “Armati di legittimità” si occupa dei modi in cui la società israeliana elabora la violenza intrinseca dell’occupazione, ovvero i modi in cui la violenta privazione dei diritti dei palestinesi viene razionalizzata, ignorata, spiegata o mitigata sia dai soldati sia dai vari gruppi sociologici che compongono la società civile israeliana. Come notano Ben Ishai e Levy, le azioni dell’esercito devono essere percepite come legittime, altrimenti i soldati semplicemente smetteranno di eseguire gli ordini. Una perdita di legittimità minaccia la posizione dell’esercito come istituzione, lo status sociale del suo personale e la sua capacità di influenzare il livello politico e l’assegnazione di fondi dal bilancio nazionale.
Gli eserciti, scrive Levy in uno degli articoli, sono alla continua ricerca di legittimità, dal momento che la richiesta che fanno ai soldati arriva a chieder loro di essere pronti a uccidere o essere uccisi. Nel contesto dell’occupazione, questa forma di legittimità è ancora più importante di quella che Israele cerca dalla comunità internazionale attraverso la sua diplomazia pubblica o il suo lavoro di propaganda, perché è ciò che consente all’intero sistema di funzionare.
Ciò che rende questa raccolta di saggi così interessante è che non cerca di spiegare la legittimità delle azioni dell’IDF nei territori occupati attraverso mantra politici sui palestinesi come “minaccia esistenziale” o l’occupazione come “operazione di mantenimento della pace” –il genere di cose che si sentono spesso nel dibattito politico israeliano. Invece, indaga i meccanismi culturali e psicologici che consentono a ogni singolo soldato di eseguire ciò che gli viene richiesto, che si tratti di entrare nella casa di una famiglia palestinese nel cuore della notte, sparare ai manifestanti o trattenere per ore le persone nei posti di blocco. Uno dei paradossi dell’occupazione è il modo in cui l’intera società ebraico-israeliana –anche la maggior parte di coloro che vi si oppongono e la respingono completamente– vi prende parte. “Armati di legittimità” colpisce proprio al cuore di questa contraddizione.
Creare un’identità morale
Come scrive Ariel Handel nel suo eccellente articolo sull’identità dei soldati, la questione della legittimità è strettamente collegata alla natura della violenza diretta ai palestinesi. L’occupazione comporta non solo esplosioni di violenza visibile, come le operazioni militari a Gaza, ma anche la sola minaccia di una potenziale violenza. Handel cita la testimonianza di una famiglia palestinese svegliata nel cuore della notte dal rumore di una jeep dell’esercito sotto la loro finestra; dopo di che la famiglia trascorse trattenendo il fiato l’intera notte, tutti insieme in una stanza, aspettandosi che bussassero alla porta, cosa che poi non successe mai.
La violenza diretta ai palestinesi, scrive Handel, spesso non è nemmeno vista come violenza. Ogni atto –ad esempio il sequestro di una cisterna d’acqua– coinvolge molte persone, dal firmatario del mandato all’autista del camion; la maggior parte degli atti sono di routine, richiedono molto tempo e non includono danni fisici immediati, rendendo facile per l’individuo che li compie ignorare la loro vera natura.
Questo vale anche per la società nel suo insieme. Ricordo un editorialista israeliano centrista che sosteneva che migliaia di ore di filmati girati da gruppi per i diritti umani in Cisgiordania dimostrano in realtà che l’IDF è l’esercito più morale del mondo, dal momento che tutto ciò che erano riusciti a riprendere era stata la breve detenzione di un bambino, o un solo calcio. Ciò che quel giornalista dimenticava, deliberatamente o meno, è la natura intrinsecamente violenta di ogni interazione tra un soldato e i palestinesi nei territori occupati.
Diverse testimonianze di soldati, analizzate nel libro, discutono i molti modi attraverso i quali seminare paura (o “rispetto” nella terminologia dei soldati) è considerato una componente informale, ma estremamente importante, del lavoro militare nella Cisgiordania occupata. Edna Lomsky-Feder e Orna Sasson-Levy citano nel libro una donna soldato che spiega come lei e molte sue amiche avevano agito deliberatamente nel modo che consideravano più “virile” (impaziente e severo) con i palestinesi per mostrare a loro e agli uomini della loro unità che erano brave quanto i loro colleghi maschi. In questo modo, la lotta per l’uguaglianza di genere da parte delle soldatesse aveva soppiantato la critica morale che il maltrattamento dei palestinesi avrebbe potuto creare in loro.
In un altro saggio, Itamar Shachar indica un altro modo in cui l’esercito crea deliberatamente nei soldati un’identità morale necessaria per il loro corretto funzionamento: facendo sì che intere unità si “offrano volontarie” per il lavoro nella comunità civile, come imballare e distribuire donazioni di cibo o trascorrere del tempo con bambini disabili, imitando il modo in cui opera la “responsabilità di azienda” nel mondo capitalista.
Uno dei migliori articoli del libro, di Erella Grassiani e Nir Gazit, analizza il modo in cui la violenza opera come una performance che i soldati devono ripetere più e più volte per creare in loro un senso di superiorità nei confronti dei palestinesi; ciò è essenziale sia per la loro capacità di impartire ordini alla popolazione civile, sia per creare una distinzione tra la popolazione occupata con cui interagiscono e le proprie famiglie e amici che vivono in città e paesi non lontani dalla Cisgiordania. L’articolo di Gazit e Grassiani esplora anche come altri fattori, ad esempio la presenza di coloni o anche la noia, contribuiscano alla violenza contro i palestinesi. Ricordo di aver verificato ciò durante il mio servizio militare.
Numerosi articoli evidenziano fenomeni relativamente nuovi dei gruppi di destra che chiedono che i governanti smettano di “legare le mani” ai soldati israeliani in Cisgiordania e permettano loro di usare una violenza più aperta contro i palestinesi. Questo è successo in passato, ad esempio durante la Prima Intifada, quando alcuni ufficiali volevano usare più violenza fisica contro i manifestanti, ma all’epoca quei gruppi violenti avevano meno potere ed erano molto meno rappresentati all’interno dell’esercito di quanto lo siano ora. La loro attuale influenza è stata dimostrata nell’affare Elor Azaria, in cui un soldato israeliano ha ucciso a colpi di arma da fuoco un palestinese ormai a terra e fuori combattimento che aveva appena fatto un attacco con un coltello. Dopo che un video dell’incidente è diventato virale, i vertici militari hanno processato Azaria, ma non si aspettavano il contraccolpo popolare che si è verificato per l’uccisione; l’allora ministro della Difesa Moshe Ya’alon finì per dimettersi dopo aver perso, a causa della vicenda, il favore del primo ministro Benjamin Netanyahu.
Se in passato l’esercito ha mantenuto la sua legittimità mettendo in evidenza la sua presunta “moderazione” nell’uso della violenza, oggi è tentato di fare il contrario e di comunicare la sua volontà di essere più apertamente violento, ad esempio nel caso del capo di stato maggiore dell’IDF Aviv Kochavi che usa la parola “letale” per descrivere l’IDF riformato che vorrebbe guidare (come sottolinea Ben Yishai, Kochavi ha adottato il termine dall’esercito americano, che ha iniziato a usarlo nel 2017).
“Armati di legittimità” analizza il comportamento dei vari attori in funzione dei loro bisogni e interessi. Uno degli unici difetti della raccolta è che non va ancor più in profondità nella disumanizzazione dei palestinesi, strumento che serve come una sorta di razzismo funzionale che aiuta i soldati a vivere in relativa pace con se stessi durante il servizio, anche se sono in grado di staccarsi da questi schemi dopo che sono stati congedati. Tuttavia è proprio questo punto di partenza sfumato e strutturale che salva il libro dalla trappola di vedere i soldati come vittime. Gli autori degli articoli stanno attenti a non fare accuse, ed è il lettore che si interroga sull’autonomia personale e sulla responsabilità di ogni singolo partecipante all’occupazione.
Noam Sheizaf è un giornalista e redattore indipendente. È stato fondatore e direttore di +972 Magazine. Ha lavorato per il giornale di Tel Aviv’s Ha-ir, per Yner e Maariv daily. Sta attualmente lavorando a vari film documentari.
https://www.972mag.com/israeli-army-society-violence/
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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