di Chiara Cruciati,
Il Manifesto, 3 agosto 2021.
La Corte suprema israeliana non decide sullo sgombero delle famiglie palestinesi, tutto rimandato a data da destinarsi. Prima i giudici avevano tentato con una proposta di “compromesso”: i palestinesi sarebbero rimasti nelle loro case fino alla morte delle tre attuali generazioni ma pagando l’affitto e riconoscendo la proprietà delle terre all’organizzazione dei coloni
Sentenza rinviata ancora: la Corte suprema israeliana ha deciso di non decidere sugli sgomberi di quattro famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est, da case costruite dalla Giordania nel 1956 dopo un accordo con l’agenzia Onu Unrwa.
Non solo loro: sono in totale 28 le famiglie (circa 500 persone) minacciate di sgombero a favore dell’organizzazione di coloni Nahalat Shimon che rivendica la proprietà di quelle terre. Il verdetto finale potrebbe arrivare tra una settimana, dopo che sul tavolo i giudici avevano messo un «accordo di compromesso», di fatto un atto dall’alto valore politico. A favore del colonialismo d’insediamento.
LA PROPOSTA MOSSA dai giudici (in un’udienza in ebraico e senza traduzione ufficiale nonostante le parti in causa parlino arabo) è questa: alle quattro famiglie (Iskafi, al-Kurd, Jaanoi e Qasseme, 40 persone) sarà riconosciuto lo status di «residenti protetti» e non potranno essere sgomberate «negli anni a venire» fino alla morte delle tre generazioni viventi, ma ai coloni sarà riconosciuta la proprietà delle terre e quindi degli edifici costruiti sopra.
A loro le famiglie palestinesi dovranno versare un affitto annuale di 1.500 shekel (poco meno di 400 euro). Sulla carta un affitto simbolico, ma che di per sé legittima politicamente le richieste dei coloni. La reazione palestinese è stata immediata. Fuori dal tribunale in tanti hanno manifestato in solidarietà con Sheikh Jarrah, mentre la polizia israeliana chiudeva di nuovo il quartiere con un fitto schieramento di agenti e un colono apriva il fuoco sui manifestanti. Un palestinese è stato ferito alla gamba, per la polizia si tratta solo di un «atto criminale».
INTANTO, DENTRO L’AULA, le famiglie rifiutavano l’accordo. «I giudici della Corte suprema stanno esercitando su di noi un’enorme pressione per giungere a un compromesso con l’organizzazione dei coloni – ha scritto su Twitter Mohammed al-Kurd, con la sorella Muna il volto più noto della protesta del quartiere – evitando una sentenza reale sul nostro diritto alla terra».
Più tardi ha spiegato: «Sono stati 49 anni di rinvii, ma non funziona più. Gli occhi del mondo sono su Sheikh Jarrah. Non è un caso isolato, accade anche a Silwan, nel sud di Yatta, a Issawiya». In aula, ha riportato il giornalista della Bbc Tom Bateman, la Corte aveva inizialmente rigettato la richiesta palestinese di concedere sette giorni di tempo per discutere dell’accordo con tutto il quartiere. Poi ha chiesto agli avvocati di consegnare entro una settimana i nomi dei «residenti protetti». Morti loro, passerebbe tutto ai coloni.
Alla fine, di fronte al secco no al «compromesso», i giudici hanno rinviato il verdetto finale. Un rinvio dettato anche dal timore di reazioni palestinesi, vista l’enorme mobilitazione popolare che la scorsa primavera è nata intorno a Sheikh Jarrah e che ha portato a proteste in tutta la Palestina storica (comprese le città dentro Israele) e a un’offensiva militare israeliana contro Gaza (250 uccisi palestinesi, 13 israeliani).
MA LA QUESTIONE resta politica: l’accordo proposto dimostra una volta di più come non si tratti di una mera «disputa legale» come molti media l’hanno definita. «È un caso politico – ha spiegato Abu Shehadeh, parlamentare della Lista araba unita – È parte dello sforzo israeliano di guidaizzare Gerusalemme est, occupata nel 1967. Una chiara violazione del diritto internazionale».
Perché quelle case, che da anni i coloni rivendicano, sono state costruite per famiglie palestinesi rifugiate, espulse dalle loro terre e dalle loro abitazioni nel 1948 insieme a un altro milione di palestinesi, l’80% della popolazione dell’epoca. Vivevano a Jaffa, ad Haifa, a Gerusalemme ovest. Sono state cacciate e non hanno diritto, secondo la legge israeliana sugli Assenti, a reclamare quelle proprietà.
UN DIRITTO CHE INVECE è riconosciuto agli ebrei israeliani che possedevano, prima del 1948, le terre di Sheikh Jarrah. Se lo stesso accordo proposto ieri dall’Alta corte fosse applicato a tutto lo Stato di Israele, milioni di famiglie ebree dovrebbero versare un affitto ai rifugiati palestinesi.
Un doppio standard che sta alla base dell’intero sistema legale israeliano e del processo in fieri del colonialismo d’insediamento: sostituire la popolazione indigena con la popolazione desiderata, una violazione del diritto internazionale tanto più se compiuta su territori riconosciuti come illegalmente occupati. Per questo, hanno detto ieri le famiglie di Sheikh Jarrah, «continueremo a combattere».
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