di: Mouin Rabbani,
Jadaliyya, 14 luglio 2021.
“Mi hanno impedito di dirti addio con un bacio, allora ti dico addio con un fiore”.
Si dice spesso che il dolore più insopportabile che una persona possa essere costretta ad affrontare è quello di seppellire il proprio figlio. Eppure Israele, in un atto di crudeltà gratuita inflitta senza pensarci due volte, ha dimostrato il suo desiderio di infliggere una sofferenza ancora più insopportabile.
Domenica 11 luglio, il corpo senza vita di Suha Jarrar, ricercatrice legale di 31 anni di Al-Haq, affiliata per la Cisgiordania della Commissione Internazionale dei Giuristi, è stato trovato in un appartamento nel campo profughi di Qaddura a Ramallah. La causa della morte sembra essere un arresto cardiaco derivante da una malattia preesistente. L’immediata e vasta espressione di dolore alla notizia riflette non solo l’angoscia per una vita promettente prematuramente estinta, ma anche il fatto che la giovane attivista per i diritti umani ha lasciato un ottimo ricordo in tutti coloro che la conoscevano.
Sua madre, Khalida Jarrar, leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e parlamentare eletta dell’Autorità Palestinese (AP), ha appreso della morte della figlia nella sua cella nella prigione di Damon, Haifa, dove si trova a scontare gli ultimi mesi di una condanna israeliana a due anni. Sebbene essa sia ciò che Israele definisce una “prigioniera di sicurezza”, in realtà è una prigioniera politica. Né accusata né condannata per coinvolgimento in attività armate, la sua definizione significa sostanzialmente che è un’araba.
Nonostante la natura della sua condanna, e nonostante le siano rimasti solo circa sessanta giorni prima del completamento della sua reclusione, le autorità israeliane hanno rifiutato un congedo temporaneo che le avrebbe permesso di salutare sua figlia con un bacio piuttosto che con la corona di fiori da lei inviata.
Il motivo per cui Israele ha rifiutato il permesso a Khalida Jarrar è perché è araba. Questo è fin troppo facile da dimostrare, basta pensare alla vicenda di Ami Popper. Popper potrebbe essere paragonato a Dylan Roof, il suprematista bianco americano che nel 2015 ha ucciso nove afroamericani in una chiesa della Carolina del Sud.
Il 20 maggio 1990, Popper, un estremista di destra che indossava un’uniforme militare israeliana e un fucile d’assalto, si imbatté in un gruppo di lavoratori palestinesi della Striscia di Gaza che erano in attesa a una fermata dell’autobus a sud di Tel Aviv. Pretendendo di controllare i loro documenti di identità e il rispetto delle leggi israeliane sui permessi, ordinò ai Palestinesi di mettersi in fila in ginocchio e cominciò a sparare su di loro. Sette furono immediatamente uccisi e un’altra dozzina gravemente feriti. Popper fu inizialmente condannato a sette ergastoli, ma poiché è un Ebreo autore di un omicidio di massa contro gli Arabi, la sua condanna è stata, piuttosto prevedibilmente, ridotta nel 1999 a 40 anni.
Mentre era in prigione Popper si è sposato tre volte, ha prodotto numerosi figli e ottenuto regolari permessi per visitare le sue famiglie. Nel 2007, mentre guidava senza patente è stato responsabile di un incidente stradale che ha provocato diverse vittime. Inutile dire che i permessi sono continuati per questo beniamino dell’estrema destra, anche per il suo terzo matrimonio a Gerusalemme nel 2013. Come avviene normalmente quando si tratta di crimini di guerra israeliani e di attività terroristiche, la famiglia di Popper è sostenuta da una rete di ONG israeliane ed “Enti di beneficenza” statunitensi, mediante contributi deducibili dalle tasse.
Khalida Jarrar, al contrario, non è mai stata condannata per alcun reato, nemmeno sotto il perverso sistema giudiziario militare israeliano. Ha invece trascorso la maggior parte degli ultimi sei anni in detenzione amministrativa, comunemente nota come detenzione senza accusa né processo, oppure, sei ciò suscitava qualche sgradita obiezione, in custodia cautelare. La pena che sta scontando è il risultato di un patteggiamento, che ha accettato nella speranza di porre fine a questa farsa e quindi alla sua carcerazione. Le “prove” contro di lei che sono state rese pubbliche vanno dall’appartenenza al FPLP, al rifiuto degli ordini dell’esercito israeliano di trasferirsi da un’area sotto la giurisdizione dell’AP a un’altra, alla testimonianza, poi ritrattata, ottenuta durante l’interrogatorio della polizia segreta, alla partecipazione a una fiera del libro, fino ad essere identificata da un testimone dell’accusa come la colpevole in una serie di foto dove ogni altro volto era quello di un uomo. Per maggior sicurezza, quando non era imprigionata le è stato vietato di viaggiare in Israele.
Durante questo periodo Khalida Jarrar ha avuto una serie di problemi di salute, tra cui diversi episodi di trombosi venosa profonda e un problema neurologico al cervello. In quest’ultimo caso ha cercato di recarsi in Giordania per accertamenti diagnostici urgenti, ma le autorità israeliane, che all’epoca non ritenevano necessario rinchiuderla per sicurezza nelle loro carceri, hanno ritardato per diversi mesi l’approvazione della sua domanda di viaggio per cure mediche, per motivi di sicurezza. In altre parole, perché è araba.
Esistono ampie prove circostanziali che il problema principale di Israele con Khalida Jarrar è in realtà il ruolo che essa ha svolto nel consentire all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di presentare la sua denuncia contro Israele presso la Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aia. Questo sospetto è stato più volte espresso non solo dai Palestinesi, ma anche dai giornalisti israeliani che hanno seguito le sue vicende negli ultimi anni. Data l’assoluta assurdità delle varie accuse di Israele contro di lei nel corso degli anni, e vista la nervosa ostilità di Israele a un’indagine della CPI sui suoi crimini contro il popolo palestinese, sembra del tutto ragionevole concludere che Khalida è perseguitata per aver cercato di mettere Israele di fronte alle sue responsabilità, fino a prova contraria. Un’altra ipotesi è che Israele si rifiuti di arrendersi di fronte all’impossibilità di spezzare la determinazione di Khalida.
Questa settimana Khalida Jarrar è stata costretta a pagare un prezzo incommensurabile per il suo attivismo. Detto questo, è improbabile che questo sia stato un atto di vendetta premeditato da parte di Israele. Trattare i Palestinesi come animali privi di qualità umane, che non meritano nemmeno la considerazione più elementare, è una cosa profondamente radicata nella pratica israeliana ed è naturale per i suoi funzionari. La crudeltà gratuita è l’opzione più naturale e in genere si mette in atto senza pensarci due volte.
Ciò che Khalida Jarrar ha sopportato negli ultimi anni, e in particolare la scorsa settimana, è un microcosmo istruttivo delle relazioni israelo-palestinesi. I Palestinesi, i loro leader e le loro istituzioni servono gli interessi israeliani oppure non hanno alcun valore e vengono trattati di conseguenza. Al minimo segno di opposizione, l’immunità parlamentare, l’Autorità Palestinese, lo stato di diritto e concetti simili si trasformano istantaneamente in fantascienza. Israele agisce come fa perché sa di poterlo fare ed è sicuro che non sarà tenuto a risponderne a nessuno.
Per citare un fatto personale, la scorsa settimana mi è stato chiesto di firmare diverse petizioni in cui si chiedeva che Israele concedesse il permesso a Khalida Jarrar o si esortavano i governi stranieri a chiedere il suo diritto di salutare la figlia. Mi sono rifiutato di firmarle. Non volevo nobilitare l’illusione che Israele sia capace di riconoscere l’umanità di un Arabo, né l’illusione che ai governi stranieri fregasse qualcosa della condotta di Israele nei confronti dei Palestinesi. Se siamo seri nell’affrontare il comportamento di Israele e l’indulgenza straniera alla sua impunità, faremmo meglio a imprimerci nel cuore la frase finale del commovente tributo di Khalida Jarrar a sua figlia Suha: “La tua assenza è estremamente dolorosa, atrocemente dolorosa. Ma io rimango salda e forte, come le montagne dell’amata Palestina».
Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina
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