Palestina: la resistenza come terapia

Conversazione con Samah Jabr, psichiatra e psicoterapeuta palestinese. 

Raccolta il 14 maggio 2021,

Apparsa su lundimatin#288 il 17 maggio 2021. 

Porta di Damasco (2015), da Derrière les fronts ©Alexandra Dols. 

Uno spettro gira per il mondo, lo spettro della Palestina. Ogni volta che una crisi acuta fa riapparire questo tema nei media, occorre prestare attenzione sia alla singolarità del momento sia al processo di lunga durata. Ci si guardi bene, innanzitutto, di pensare che prima dell’evento esistesse una specie di situazione normale, poi turbata da “scontri”, “tumulti”, bombardamenti”, “razzi”, “un bilancio sempre più pesante”, tanto da temere “una conflagrazione in tutta la regione”… Occorre, infine, ricordare la Nakba – la “catastrofe” o il “disastro” occorso al popolo palestinese – come il fatto che “tutto continua come prima”.

Questa intervista ad una psichiatra e psicoterapeuta palestinese che vive a Gerusalemme e lavora in Cisgiordania, può esserci d’aiuto. Samah Jabr ha pubblicato centinaia di testi e articoli d’analisi sull’occupazione israeliana e sulla società palestinese, ponendo l’accento sull’impossibilità, per chi vuole capire, di separare il livello interpretativo politico da quello psicologico. Samah ci rammenta che “la Nakba non è un fatto storico, passato, ma un processo che si ripete da oltre 70 anni”…

Samah Jabr è la protagonista principale del documentario di Alexandra Dols “Dietro i fronti, resistenza e resilienza in Palestina”, attualmente presentato in varie città italiane.

I Palestinesi affrontano una nuova fase d’intensificazione della loro lotta contro l’occupazione. Potresti illustrarci gli elementi che hanno dato origine alla presente situazione e la continuità in cui si situa.

L’identità palestinese-gerosolimitana non ha mai smesso di essere attaccata, ma la fase attuale rappresenta effettivamente un’intensificazione, caratterizzata da tre elementi scatenanti:

Vi è stata dapprima l’occupazione israeliana della piazza antistante la Porta di Damasco (1), impedendo la vita sociale che da sempre i Palestinesi svolgono in quel luogo, normalmente molto vivace, conviviale, animato da attività di piccolo commercio e manifestazioni culturali… La piazza è una specie di anfiteatro davanti alla Porta di Damasco. C’è sempre molto movimento: venditori, musicisti, danze, gente che ci si reca semplicemente per discutere… Ed è pure un luogo di continui scontri con gli Israeliani, quando questi decidono di scacciare i mercanti e la gente che vi sosta. L’anno scorso avevano persino deciso di cambiare il nome alla piazza, che in arabo si chiama Bal ‘ Al Amud (porta della Colonna), dedicandola a due soldati israeliani morti in uno scontro con i Palestinesi. Anche in questo caso, si trattava di un attacco all’identità ed ai simboli del nostro popolo, alla vita sociale e culturale dei Palestinesi di Gerusalemme.

C’è poi stato un altro episodio cruciale, di stampo razzista, tendente alla pulizia etnica, quando le autorità israeliane hanno tentato di espellere i Palestinesi dal quartiere di Cheikh Jarrah, a Gerusalemme est – uno schema ormai consueto nella nostra vita. Questo quartiere, in cui vivono rifugiati del 1948 (2), occupa una posizione strategica.

Il tentativo d’espulsione avviene poco tempo prima della commemorazione della Nakba, che in noi provoca sempre sentimenti traumatici. Per questo ci fu una grande mobilitazione e molta solidarietà con Cheikh Jarrah… Recentemente, mentre attraversavo il quartiere, sono rimasta bloccata per due ore a causa degli scontri… era come in guerra, con molta violenza e un elevato livello repressivo. Si potevano vedere i soldati colpire i manifestanti alla testa…

Il terzo elemento è stato l’attacco contro i fedeli venuti a pregare nella moschea Al Asqa, un luogo santo per oltre un miliardo di musulmani. In teoria, 7 milioni di musulmani palestinesi avrebbero il diritto di recarvisi, ma in pratica ciò riesce solo a poche migliaia, a causa degli innumerevoli impedimenti escogitati dagli Israeliani. Coloro che, malgrado tutto, ci arrivano vengono malmenati durante la preghiera, il rientro, il digiuno e pure ciò rappresenta un forte attacco all’identità palestinese e musulmana che ha sconvolto i Palestinesi, specialmente gli abitanti di Gerusalemme. Con il Covid e ancora prima, con le rivolte arabe sfociate per lo più in guerra o colpi di stato, il mondo ha pensato che la questione palestinese fosse da relegare agli archivi storici, ma gli ultimi avvenimenti l’hanno con forza riproposta all’attualità.

Puoi dirci qualcosa della Striscia di Gaza?

Gaza è il luogo meglio predisposto per captare le tensioni sorte a Gerusalemme. Da anni assediata da Israele e marginalizzata dal governo palestinese ufficiale ha subito guerre ed attacchi ripetuti. La sua gente è inoltre molto attaccata a Gerusalemme. Il 30 aprile il presidente Mahmud Abbas ha deciso di rinviare le elezioni (per la Cisgiordania si trattava delle prime elezioni nazionali in 15 anni), prendendo a pretesto gli scontri che avvenivano a Gerusalemme e la mancata garanzia che si potesse votare anche in quella città. In verità, sappiamo che temeva il responso delle urne se si fosse votato alle date previste… Erano quindi riunite tutte le condizioni perché Gaza reagisse.

Bisogna evitare di interpretare questa reazione riferendosi unicamente all’aspetto islamista dei gruppi di resistenza, perché in tutte le realtà resistenti di Gaza si parla di un fronte comune. Le più popolari, è vero, sono Hamas e la Jihad islamica, ma ci sono anche formazioni meno note, il cui orientamento politico non si base sull’Islam; talune sono d’ispirazione marxista, altre nazionaliste arabe… La decisione di scatenare una risposta armata, fu opera di un “fronte comune delle brigate”. Nel loro comunicato, esse non menzionano solo l’attacco alla moschea, ma pure la pulizia etnica in corso a Gerusalemme est e la situazione alla Porta di Damasco. Fanno parte del fronte comune sia membri del marxista Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), sia elementi legati a Fatah (ma non più ritenuti membri del partito); è un fronte largo, che va oltre i movimenti islamisti.

Ora però, i media vogliono far credere che si tratti solo di Hamas. Quando c’è una risposta verbale e politica della resistenza, Nethanyahu ribatte che a Gaza Israele è confrontato solo a Hamas… È chiaro che cerchino di ridurre il conflitto ai soli aspetti religiosi ed è altrettanto evidente che ciò genera confusione, permettendo di affermare che si tratta solo di reprimere un movimento islamista, ecc.

Inizialmente c’era quindi stata l’intenzione di espellere gli abitanti palestinesi da Sheikh Jarrah e di demolirne le case per far posto a una nuova colonia ebraica. Questo fatto è spesso presentato da Israele e da coloro che ne riprendono l’argomentazione come una semplice questione giuridica o un contenzioso immobiliare. Ma per i Palestinesi esso fa parte di una lunga storia di spoliazione, comprensibile solo con riferimento a termini quali Nakba e “diritto al ritorno”. Potresti soffermarti sul senso di queste nozioni e sul modo in cui esse si ripropongono nei recenti avvenimenti?

Nakba è il temine impiegato per descrivere i fatti che precedettero la dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele, azioni criminali di spoliazione, espulsione, demolizioni e massacri che portarono alla cacciata di due terzi del popolo palestinese. Una parte fu espulsa dai confini della propria terra, diventando rifugiati, altri si ritrovarono in altre località della Palestina lontane dai loro villaggi o in campi profughi. Ci fu poi la legge israeliana del 1950, detta dell’”assenteismo”, che considera tutte queste persone come assenti e dà al governo israeliano il diritto di confiscane i beni e impedisce loro in seguito di rivendicarli.

È pur vero che nel periodo ottomano o il mandato britannico – quindi prima della Nakba – degli ebrei avevano dei possedimenti in Palestina. Questa gente era comunque un’infima minoranza e godeva dei favori delle autorità mandatarie. A quei tempi, era pure in vigore un sistema di affitto o d’uso esclusivo tramite il quale era possibile utilizzare una data proprietà per un certo periodo. Alcuni Ebrei venuti in Palestina come rifugiati hanno potuto usufruire di questo sistema di locazione….

Oggi, nel mondo arabo, con il discorso della normalizzazione dei rapporti con Israele, circola l’idea che gli ebrei abbiano acquistato la Palestina, non che l’abbiano occupata! Come dire che se dei Tunisini o Algerini comperano dei terreni in Francia, l’Algeria o la Tunisia possono più tardi occupare la Francia, è la stessa logica. In realtà, la Palestina è stata occupata in maniera pianificata, per mezzo della pulizia etnica e dei crimini perpetrati in modo particolare dalle milizie ebraiche. So che son cose difficili da udire, ma è esattamente come ciò che ha fatto l’ISIS in Siria e in Iraq: ricorrere al terrore perché gli abitanti abbandonino i loro villaggi; fu questa la modalità di vuotare e occupare la Palestina. Allora, il diritto internazionale e l’ONU hanno da una parte riconosciuto lo Stato d’Israele e dall’altra dichiarato il diritto al ritorno dei Palestinesi. Un diritto sempre misconosciuto da Israele, che d’altronde disconosce la maggior parte delle decisioni della stessa ONU.

Tu lavori come psichiatra e psicoterapeuta in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Nei tuoi interventi pubblici e nei tuoi scritti hai spesso sottolineato l’impossibilità di separare gli aspetti politici e psicologici per quanto riguarda la società palestinese. In che modo il tuo lungo lavoro pratico sul campo ti dà la possibilità di capire ciò che sta succedendo?

Ci sarebbe molto da dire in proposito… ma voglio affrontare la questione partendo da un caso particolare: prendiamo per esempio la risposta di Gaza. Attualmente, la gente partecipa alla resistenza soprattutto per ragioni psicologiche, sono di questo tipo le motivazioni principali. Quando si parla dei Palestinesi dediti alla resistenza, ci si riferisce d’un lato alla resistenza popolare messa in atto dai giovani gerosolimitani, dall’altro a coloro che resistono in modo più formale come a Gaza… Non si tratta di considerazioni finanziarie o di mero calcolo – calcolo in vite umane perse, in danni materiali subiti o in possibili vantaggi… No, le ragioni sono psicologiche, perché i Palestinesi si vedono attaccati nella propria dignità, nelle loro convinzioni profonde, in ciò che credono – e non mi riferisco qui alla religione istituzionale, ma alla fede nel loro diritto a questa terra. Per questo è difficile voler gestire la resistenza del nostro popolo. Perché limitandoci al solo calcolo dei rischi, gli Israeliani non possono aspettarsi una simile resistenza, data l’enorme differenza delle forze in campo…

Oggi Gaza è diventata uno spazio di guerra senza via d’uscita, sorvolata da 160 aerei militari che potrebbero demolirla interamente – lo si è visto nel 2014. C’è inoltre il divario sul numero dei morti, del tutto sproporzionato: nel 2014 i bombardamenti israeliani hanno ucciso più di 2000 persone, mentre dal lato israeliano ve ne furono una dozzina… Eppure, malgrado ciò, questo confronto letale per i Palestinesi prosegue, a causa della prevalenza degli aspetti psicologici, della giustizia, della dignità umana. Per mezzo della resistenza i Palestinesi ritrovano la loro capacità d’agire, rifiutano di vedersi reificati e disumanizzati, esprimono la loro soggettività. Se non si capisce ciò, le azioni palestinesi risultano insensate ed è per questo che la resistenza appare incomprensibile a molti governi e istanze internazionali, che la riducono ad atti suicidari sfocianti nell’autodistruzione della loro stessa causa. Invece, come detto, esistono aspetti psicologici decisivi: con la resistenza individuale o collettiva si ripristina l’umanità e la dignità dell’intero popolo palestinese.

Hai appena toccato un punto importante, menzionando l’approccio alla questione a livello internazionale. Nella maggioranza dei discorsi ufficiali e nei media ci si concentra soprattutto, se non esclusivamente, sulle fasi di crisi acuta, come quella attuale, la quale avrà una ripercussione sul lungo periodo che ti prego di evidenziare. Che cosa puoi dirci, inoltre, dei vari livelli, anche quelli silenziosi, psicologici e mentali, in cui opera la guerra a bassa intensità?

Generalmente, ogni colonizzazione ha la necessità di ammazzare un buon numero di colonizzati. Ma, siccome non può ucciderli tutti, tenta almeno di ridurli a vivere come ombre, privi di capacità d’agire, di volontà, d’identità, soprattutto privi d’identità collettiva…

Agli Israeliani torna utile se tu rinunci ad ogni sentimento collettivo, ad ogni volontà di esprimerti. Le due alternative sono la morte fisica – vieni ucciso – o la morte della coscienza, della soggettività. È ciò che succede a lungo termine. Israele esercita il suo controllo sul popolo palestinese per mezzo dell’intimidazione. Ma una crisi come questa arriva quando la gente supera la paura ed affronta la situazione.

Palestinesi intimiditi, sconfitti e ridotti al silenzio non disturbano nessuno, ma se cominciano ad affermare la loro identità, il loro desiderio di liberazione, allora gli Israeliani si sentono molto turbati e reagiscono brutalmente… Una consuetudine perdurante negli anni è, invece, la totale intimidazione dei Palestinesi. Un esempio: quando taluni hanno iniziato a mobilizzarsi, a recarsi a Sheikh Jarrah e alla moschea Al Asqa, hanno ricevuto messaggi per mezzo dello stesso software impiegato per la prevenzione Covid e le relative restrizioni, messaggi del tipo: “Sei stato identificato nei pressi di Al Aqsa, sarai punito”.

Esiste una specie di dicotomia: o tu sei completamente succube e privo di soggettività o allora rischi di morire, perché nella loro follia e nella loro ideologia gli Israeliani ci vedono come barbari e terroristi oppure sottomessi e disumanizzati.

Il primo punto è dunque questa intimidazione permanente, mirante a sopprimere la nostra soggettività.

Il secondo punto, per noi, che siamo sempre impegnati nella resistenza – non solo nei momenti di crisi – riguarda la necessità di uscire dalla posizione di vittime. Spesso, sul piano internazionale ci sono manifestazioni in nostro favore quando il sangue palestinese scorre a fiotti. Lo scontro attuale è però un po’ diverso del solito: i Palestinesi mostrano la loro capacità d’agire e riescono a contrastare le intenzioni israeliane. Il mio appello alla comunità internazionale è di smettere di sostenerci solo per le disgrazie che ci capitano e in quanto vittime, ma di supportare pure la nostra tenacia nel resistere, la volontà di preservare la nostra dignità e la capacità di agire. Quest’appello lo vado ripetendo senza sosta, perché si smetta di vederci solo come terroristi o vittime! Noi non vogliamo essere dei terroristi, vogliamo ritrovare la nostra soggettività, cambiare la situazione, riprenderci la nostra libertà individuale e collettiva.

Per quanto concerne gli effetti a lungo termine dell’occupazione, io li constato continuamente, sia nella mia vita privata, sia nel mio lavoro di psichiatra. L’occupazione ha delle gravi conseguenze traumatiche per i Palestinesi, conseguenze che non corrispondono alla corrente definizione del PTSD (disturbo da stress post-traumatico) nei manuali di psicologia occidentali… Poiché, come ho avuto occasione di affermare più volte, per i Palestinesi le cause oggettive del trauma non sono rimosse, esse sono sempre presenti e peggiorano. Noi siamo permanentemente minacciati, perseguitati, espulsi, incarcerati o massacrati dagli Israeliani… In quest’ottica, la Nakba non è un evento storico passato, ma un processo che continua da oltre 70 anni. Volendo fare un paragone, questo tipo di trauma assomiglia a quello subito da donne o bambini vittime di stupro o di violenza domestica o coniugale, costretti a convivere con i loro aggressori (3).

Il livello di depressione e d’angoscia è molto alto, come pure una diffusa sofferenza sociale… Va però precisato che non bisogna patologizzare troppo rapidamente l’esperienza palestinese, poiché questi disturbi derivano da una realtà oggettiva, cioè dall’occupazione. L’angoscia, la depressione, il lutto possono essere reazioni a fatti gravi, come la perdita di una persona cara, la distruzione della propria casa, casi di violenza…

Io lavoro tra l’altro con Médecins sans frontières, segnatamente nel campo dell’aiuto a persone che hanno subito violenze di tipo politico. L’effetto dell’occupazione non si fa sentire solo a livello individuale, ma si ripercuote sui legami e le relazioni sociali. Senza resistenza, questo stato di cose genera una società che interiorizza il sentimento d’oppressione, sviluppa sfiducia tra i suoi membri, soffre di un basso senso di autostima e fiducia in se stessa.. Le persone competono tra loro per riuscire a farsi curare in un ospedale israeliano, dove c’è più posto… Si tratta di condizioni create dall’occupazione, che distruggono la fiducia collettiva; al punto che qualcuno finisce coll’accettare l’impotenza e la condizione di vittima…

Io penso che la resistenza contribuisca a neutralizzare questi effetti. Da un lato, essa rende almeno un po’ di dignità e fiducia in se stessi, anche quando non riesce a raggiungere i suoi obiettivi… Come dice un proverbio arabo, “La cosa essenziale per l’uomo è di avanzare sulla propria strada, non di raggiungere il traguardo”.

Quindi, per riprendere il discorso sul “calcolo”, io credo che obbedisca ad una logica economica, una logica di business… Un tale discorso non funziona quando si voglia ritrovare giustizia e dignità: occorre allora un calcolo d’altro tipo, un’altra logica, in cui rientra a pieno titolo l’aspetto spirituale, simbolico, psicologico.

In quanto tu stessa abitante di Gerusalemme, puoi illustrarci in che modo ti vedi confrontata con l’occupazione?

Al pari di tutti gli abitanti arabi di Gerusalemme, non sono cittadina di nessun luogo. I miei documenti ufficiali non parlano affatto di cittadinanza. Assomigliano al documento di soggiorno che può richiedere uno straniero residente in Italia. Ciò è già un’importante privazione, che porta a sentirsi permanentemente minacciati…

Inoltre, la maggior parte dei Gerosolimitani è assai povera. Molti di loro non possono vivere in città per questioni economiche e mancanza di spazio… Per noi, continuare a vivere a Gerusalemme è una lotta perenne. Io ho fatto una scelta difficile, per il fatto che, pur continuando a vivere in città ho deciso di non collaborare con le istituzioni israeliane e quindi lavoro in Cisgiordania, il che comporta difficoltà di tipo economico…

Va poi detto che, essendo cresciuta a Gerusalemme ho potuto osservare gli effetti dell’occupazione, per esempio il modo in cui gli uomini vengono umiliati per strada dalla polizia e dai soldati israeliani, che li perquisiscono apposta per offendere la loro virilità. Parlo soprattutto degli uomini, perché vedo che sono i più colpiti nella quotidiana interazione, nelle quotidiani frizioni con l’occupante. Naturalmente, a Gerusalemme ciò può accadere a qualsiasi persona araba….

Alla fine, con la mia famiglia abbiamo deciso di acquistare un appartamento in città. La ricerca è iniziata nel 2003 ed è terminata nel 2021, un periodo che ha consumato molta energia e risorse mie e dei miei genitori.

Del tutto diverso è invece il caso della colonia chiamata Ramat Shlomo, situata nei pressi del nostro quartiere di Shuaffat, la quale s’è enormemente espansa negli ultimi anni. Se si confronta la velocità dello sviluppo edilizio delle colonie israeliane con la mancanza di case per i Palestinesi e gli ostacoli per accedervi, si rimane basiti. Solo noi Gerosolimitani siamo confrontati a ciò giorno dopo giorno oltre a dover affrontare un sacco di restrizioni economiche, giuridiche e amministrative – tutte di natura politica – per il solo desiderio di trovare una casa.

La mia famiglia ha avuto la fortuna di riuscirci, ma il fatto è molto raro. E le generazioni che ci seguiranno, i miei nipoti e le mie nipoti, ad esempio, non avranno più i mezzi per vivere a Gerusalemme. Si pensi, poi, che io lavoro duramente (nell’ambiente della psicologia palestinese mi chiamano “the Shark, lo squalo”! [Samah ride]), svolgo da anni vari impieghi nello stesso tempo, onde mettere qualcosa da parte e garantirmi l’autonomia finanziaria per tutte le ragioni appena elencate…

La colonia di Ramat Shlomo è stata costruita nell’area di Shuaffat in tempi rapidissimi, come ho detto, e s’è estesa al punto da inglobare l’intero quartiere.

Che cosa hanno fatto gli Israeliani dopo l’occupazione del 1967?

Per prima cosa si sono impossessati del 10% dei terreni della Cisgiordania attigui a Gerusalemme – che considerano la “capitale eterna d’Israele”. In secondo luogo hanno costruito le colonie in modo da frammentare la zona araba, che avrebbe invece dovuto rimanere connessa, creando ulteriori difficoltà di movimento per gli Arabi, cui non è più permesso transitare nei pressi di queste colonie. Tra il mio quartiere di Shuaffat e quello di Sheikh Jarrah, per esempio, ci sono le colonie Ramat Shlomo e Colline Française, un fatto che fa incollerire i Palestinesi di Gerusalemme.

Una delle strategie dell’occupazione è la frammentazione del popolo palestinese, fra gli abitanti della Cisgiordania, i Gazawi, i Gerosolimitani, i Palestinesi del 48, (che l’occupante chiama “arabi israeliani”) ed i Palestinesi della diaspora… In che misura la presente rivolta riesce a sormontare questa divisione? Mi riferisco particolarmente alla partecipazione del Palestinesi del 48 alla protesta, i quali di solito sono meno attivi nella lotta contro l’occupante…

Hai ragione, è vero che Israele ha pianificato contro il nostro popolo un sistema di frammentazione molto efficace. Ma in una fase come questa tale sistema va in crisi ed i Palestinesi serrano i ranghi… è il motivo per cui abbiamo visto Gaza intervenire e rispondere agli attacchi contro i Gerosolimitani, mentre le autorità palestinesi ufficiali non l’ha fatto, sebbene la geopolitica ufficiale consideri Gerusalemme parte della Cisgiordania e l’ANP dovrebbe proteggerla… Nel caso presente, il fatto più importante è comunque l’intervento dei Palestinesi del 48. Penso che la presenza di alcuni di loro quando fu attaccata la grande moschea ha favorito la mobilizzazione di molta gente… Anche perché ciò avvenne poco prima della commemorazione della Nakba, che tocca ferite aperte in molti Palestinesi del 48. Siamo di fronte ad un momento assai importante per la loro ripoliticizzazione. E poi, sì, Israele ha lungamente tentato di neutralizzarli, d’intimidirli fortemente onde impedire loro d’intervenire con efficacia quando in Cisgiordania o a Gaza ci sono scontri. C’erano tante buone intenzioni, ma nessun atto concreto, perché ciò era severamente punito. Conosco parecchi colleghi medici, palestinesi del 48 o di Gerusalemme impiegati nel sistema sanitario israeliano che in questo momento rischiano di perdere il posto per il solo fatto di avere espresso la loro opinione su quanto sta succedendo

Anche alcuni miei pazienti di Gerusalemme o del 48 che hanno effettivamente perso il lavoro a causa della loro presa di posizione su Facebook o per aver partecipato a manifestazioni; sono in questa posizione da parecchi anni e non possono quindi più lavorare per gli Israeliani, poiché questo implica avere una “attestazione di buona condotta” rilasciata dalla loro polizia!

Ci sono giovani Gerosolimitani impossibilitati di viaggiare all’estero e di ottenere un lavoro per il fatto di avere espresso il loro attivismo una sola volta nella loro vita. Anche questa è una maniera d’intimidire, di ridurre, di ammaestrare, di controllare i comportamenti individuali frequentemente praticata verso i Palestinesi del 48 o di Gerusalemme est: toccarli nella loro esistenza con minacce inerenti il lavoro o i loro mezzi di sussistenza… D’altro canto, in questi giorni nella Palestina dei 48 si assiste ad attacchi fisici diretti d’estrema crudeltà. A Tel Aviv, per esempio, s’è visto un’ottantina d’Israeliani continuare a picchiare un Palestinese che già era a terra e così sfinito da non riuscire ad opporsi alle botte… Un fatto che ha scioccato pure certi Israeliani. Sebbene le autorità tentino di presentare la faccenda come una lite tra giovani, in realtà questi giovani israeliani possono agire in tutta impunità, tanto è vero che alcuni pestaggi sono avvenuti sotto gli occhi di soldati e poliziotti che non sono intervenuti. C’è una palese complicità tra coloni e soldati. Nethanyahu, dal canto suo, da un lato chiede ai militari di portare la calma nella Palestina del 48 e dall’altro assicura loro che non dovranno temere nessuna commissione d’inchiesta… ecco il messaggio comunicato loro! Non è difficile immaginare come lo intrepreteranno i coloni, che si vedono concessa totale impunità di sfogare la loro crudeltà e ferocia.

 È pensabile, secondo te, che l’attuale conflitto possa servire a riportare all’ordine del giorno il diritto al ritorno dei Palestinesi? O, più in generale, esiste una loro prospettiva sul piano giuridico?

Sul piano giuridico israeliano no di certo! Perché Israele ha creato un arsenale di mezzi al servizio dell’occupazione. Il suo sistema giuridico è concepito in modo da impedire l’applicazione del diritto internazionale in favore della Palestina, per esempio per implementare l’Accordo di Ginevra, che vieta ad Israele d’insediarsi in un territorio occupato e dichiara illegali le colonie… mentre le leggi israeliane lo permettono. La situazione attuale rimette quindi al centro del discorso quest’aspetto della causa palestinese. Sono stati citati tre fatti: Cheikh Jarrah, la Porta di Damasco e l’attacco alla moschea Al Aqsa. Sono solo tre tappe, tre soglie o gradi di un lento processo costantemente in atto a Gerusalemme, dove la nostra identità è sempre sotto attacco. Si pensi alle leggi, introdotte già da molto tempo, miranti a limitare o ad impedire del tutto il raggruppamento famigliare… Se sei un Palestinese di Gerusalemme che sposa una donna di Ramallah, non puoi portarla a vivere con te in città, mentre se vai a vivere a Ramallah, i tuoi figli non saranno riconosciuti come cittadini di Gerusalemme e non potranno mai venire a viverci.

Ah Gerusalemme! Come ho già detto prima, i Palestinesi che ci vivono subiscono ogni sorta d’angheria a tutti i livelli e in ogni momento. L’ultima scena è come un risveglio, un appello a tutti noi perché alziamo la testa, ritroviamo la nostra dignità, riprendiamo l’azione politica, ma è pure un richiamo al mondo a vedere quello che succede in Palestina. Questi avvenimenti hanno avuto luogo durante il Ramadan, un mese in cui ci si sarebbe potuto aspettare un po’ più d’attenzione da parte dei musulmani… Perché quando si parla dei fatti di Cheikh Jarrah, o della Porta di Damasco, ad essere presa di mira è l’identità araba e musulmana.

Per ritornare alla tua domanda: sì, il diritto al ritorno è importante, ma il problema è più ampio; ci sono cose più attuali e spinose che noi tutti tentiamo di affrontare. Sai perfettamente anche tu che i fatti del 48 sono successi in un’epoca ancora priva di internet e di tutte le odierne possibilità offerte dalla comunicazione di massa. Oggi ognuno è in grado di sapere. Che Israele possa approfittare dell’impunità per compiere le stesse cose che faceva in Palestina negli anni Trenta o Quaranta del secolo scorso, è un fatto per noi insopportabile, tanto per questa sua impunità quanto per la capitolazione o la complicità internazionale. Gli si lascia mano libera pur assistendo in diretta a quanto succede…. Ma qui non posso non accennare all’oscuramento da parte di Facebook e Instagram, delle testimonianze e delle campagne “Save Cheikh Jarrah”.

Hai appena menzionato la coscienza araba e musulmana, l’identità araba sotto attacco, che dovrebbe risvegliarsi. Ma non pensi che, in una fase come questa, l’appello alla solidarietà internazionale deve superare la differenza tra Arabi e Musulmani (che si ritengono più vicini alla causa palestinese per ragioni politiche, storiche, religiose o altre) e altri popoli o categorie identitarie? Suppongo che in Europa molte persone potrebbero chiedersi come mai ti appelli all’identità araba e musulmana e non in forma più generale all’umano senso di ribellione di fronte a ciò che succede?

Il problema ha varie facce… Non è possibile fare astrazione dell’attacco all’identità araba e musulmana, come non si può negare che si tratti di una guerra etnica contro i Palestinesi. C’è comunque pure una grave violazione dei diritti umani e tutti i popoli che hanno vissuto la colonizzazione sanno esattamente di cosa parlo. Ma, ripeto, non si può eludere la volontà di negazione ed il disprezzo di stampo coloniale, questo disprezzo che Israele esprime per l’identità culturale del nostro popolo, il quale è, di fatto, arabo e musulmano, sebbene potrebbe essere altro.

La situazione di risveglio da me menzionata va vista in contrapposizione al recente avvicinamento a Israele da parte di quattro regimi arabi – il Marocco, il Bahrein, gli Emirati Arabi ed il Sudan. Il pretesto addotto era che tramite i trattati di pace e gli accordi di pace sarebbe possibile normalizzare le relazioni con Israele senza cadere in contraddizione. Così almeno i dirigenti politici hanno tentato di giustificarsi davanti ai loro popoli. I fatti hanno però svelato le loro menzogne. È per questo che insisto sul livello arabo-musulmano. Penso che nessuna colonizzazione può imporsi senza disprezzare, schiacciare, negare l’identità culturale del colonizzato. È precisamente ciò che Israele fa con i Palestinesi e questo fatto non riguarda solo loro, ma tocca tutti coloro che s’identificano nella stessa identità culturale.

Ma sul piano della violazione dei diritti dell’uomo, dell’ingiustizia è chiaro che chiediamo alla solidarietà internazionale di cogliere l’occasione per ampliare l’impegno politico contro questa forma tutta speciale di colonizzazione, che estirpa gli indigeni dalla loro terra per insediarvi estranei. Si tratta di un livello di colonizzazione ben più grande e grave del corrente concetto del fenomeno o di ciò che si definisce con il termine di apartheid.

In molti Paesi occidentali la gente comune non riesce a cogliere la dimensione religiosa e simbolica del conflitto, usata sovente per ridurlo ad una guerra di religione, per suggerire una falsa simmetria e mettere i due contraenti sullo stesso piano o – peggio – per associare i Palestinesi al terrorismo islamico… Ovviamente, non voglio ridurre le cause delle numerose rivolte palestinesi a questa dimensione, ma spiegami qual è il senso simbolico e religioso di Gerusalemme e dei luoghi santi nel conflitto.

Ritorno a ribadire la grande importanza della fede e dell‘aspetto simbolico, ma c’è dell’altro… Gerusalemme per molti suoi abitanti è il loro quartiere, il fulcro della loro vita. Prendiamo la moschea Al Aqsa: essa è molto cara per esempio ai bambini… Io, da piccola ci andavo a fare pic-nic con mia nonna. Quindi per noi è come un foyer, è la nostra casa. Ci sono cose non riducibili alla sola dimensione religiosa e simbolica. È la nostra geografia, il luogo dove siamo cresciuti, tutte cose da non sottovalutare. Ho accennato poc’anzi alla Porta di Damasco: c’è una canzone che ce ne dà un bel quadro, evocando la venditrice di caffè e altri commercianti emblematici, s’intitola Bab Al-Amoud, di Maggie Youssef (4)

Ci fa capire che la Porta di Damasco non ha un mero valore personale, individuale, un legame con talune persone particolari. Essa possiede ai nostri occhi qualcosa di bello e sacro, si riflette nelle nostre canzoni, nei detti popolari, è un riferimento d’obbligo per tutti noi… infine, la sentiamo come un luogo archetipico.

Tutto ciò è parte integrante dell’identità individuale e collettiva palestinese e di altre persone, anche fuori dalla Palestina. E noi, che ben sappiamo come Israele ha rubato la nostra terra e impedisce a molti di accedere a questi nostri luoghi, sentiamo un dovere di responsabilità verso i Gerosolimitani, il dovere di preservare l’identità del luogo, di salvaguardare il suo aspetto storico, simbolico e religioso… Conosco parecchie persone non credenti o non praticanti, persone dediti alla droga, che non frequentano la moschea. Ma che sono accorsi a proteggere Al Aqsa. Partecipano alle manifestazioni, difendono coloro che vanno in moschea a pregare perché si sentono parte della stessa identità culturale. Ci tengo inoltre a dire che quando i Palestinesi mancano di tante cose, quando subiscono fortemente le privazioni, allora il simbolico assume una dimensione più rilevante. Evidentemente, il simbolico è importante per tutti, ma predomina quando ci si vede privati dei diritti essenziali…

Da Gaza sono stati lanciati razzi contro Israele, che ha risposto con bombardamenti che hanno provocato dozzine di morti e centinaia di feriti (5). Lo scontro tende ad essere associato ad altre crisi simili, per esempio a quella del 2014… pare che Nethanyahu ed i dirigenti israeliani siano più a loro agio a gestire questo tipo di conflitto, in termini di comunicazione sul piano internazionale e di politica interna, che l’aspetto del sollevamento della gioventù di Gerusalemme. Dal punto di vista strategico, questa militarizzazione conveniva veramente ai Palestinesi? Mi pare di assistere al tentativo di soffocare e sviare la dimensione insurrezionale, spontanea e popolare della rivolta, la quale per Israele era forse più pericolosa che uno scontro con le organizzazioni armate della resistenza a Gaza.

Questo ci riporta alla questione del calcolo. Ti ho spiegato il perché non sia possibile applicare un calcolo dei rischi del tipo “costi-benefici”, perché siamo in presenza di motivazioni psicologiche di peso. Ma se proprio vogliamo fare questo calcolo, direi che è solo quando Israele ha cominciato ad essere toccato nel vivo che il mondo ha capito la portata di ciò che era successo a Gerusalemme. Fin tanto che c’erano solo scontri quotidiani alla Porta di Damasco o a per Cheikh Jarrah, i media statunitensi, per esempio, vi hanno dedicato ben poco spazio e Instagram e Facebook hanno bloccato la diffusione di testimonianze… Quando i Palestinesi protestavano disarmati, quando le loro manifestazioni popolari venivano represse, quando i soldati israeliani li colpivano alla testa nelle strade di Gerusalemme si rimaneva muti… Fu soltanto quando Israele ha iniziato a subire danni, quando ha dovuto chiudere l’aeroporto di Tel Aviv che i media internazionali si sono svegliati. A quel punto persino l’ONU si è mosso per dare l’impressione di occuparsi della faccenda. Ogni dirigente politico si sente obbligato a fare una dichiarazione pubblica. Ormai ci siamo abituati… Penso inoltre che se non ci fosse stato l’intervento di Gaza, i Palestinesi non avrebbero potuto pregare nella grande moschea alla festa dell’Aid, e il tribunale israeliano non avrebbe rimandato la decisione in merito a Cheikh Jarrah, che doveva cadere il 10 maggio. Allora, Israele può sì reprimere ogni sollevamento popolare ed il mondo continuare a fare come le tre scimmiette, ma quando Israele sente su di sé la pressione della resistenza i riflettori si accendono. Certo, Israele può utilizzare la stessa macchina mediatica, la stessa propaganda per diabolizzare la resistenza a Gaza – l’ha già fatto altre volte – ma non si deve scordare che dopo ogni attacco a Gaza la resistenza palestinese si rafforza, mentre i vari attacchi venivano lanciati con il pretesto di annientarla. D’altro canto, come ho già detto, la resistenza di taluni individui o di qualche gruppo, ristabilisce la coscienza di un collettivo efficace e capace d’agire. Ciò umanizza i Palestinesi, nonostante tutti i discorsi subito pronti a diabolizzarne la resistenza.

Noi Palestinesi non condividiamo il parere dominante a livello internazionale sulla nostra resistenza. Non possiamo condividerlo perché noi facciamo un’esperienza di prima mano, diretta, nella vita di tutti i giorni. Malgrado tutte le riserve che possiamo addurre in merito alla politica delle varie organizzazioni e fazioni, credo che ci sia consenso per quanto riguarda l’importanza della resistenza, di tutte le forme di resistenza messe in atto dal popolo palestinese. Perché nessuno, né l’ONU, né i regimi arabi o i democratici di tutto il mondo, è in grado di proteggere il nostro popolo, di ricostruirne la dignità e l’umanità; questo compito solo la resistenza in tutte le sue svariate forme può svolgerlo.

A questo proposito voglio ribadire che ritengo valida ogni forma di resistenza. Per un popolo occupato, la resistenza è un diritto umano, oserei dire un dovere. E il quando e il come della scelta dei modi è cosa che compete solo agli stessi Palestinesi. Sta a noi decidere quale forma privilegiare e quando possiamo metterla in pratica.

Ultimamente abbiamo visto taluni paesi arabi normalizzare le loro relazioni con Israele o perlomeno riavvicinarglisi diplomaticamente. È poi stato detto a più riprese che la questione palestinese avesse perso peso. Nell’assenza di un forte sostegno statale, sia ne Paesi arabi che altrove, e di fronte al discredito dei loro governanti, la lotta dei Palestinesi assomiglia sempre più ad un sollevamento popolare, il quale non è interpretabile solo nei termini dell’appartenenza identitaria (araba o islamica), di scontro tra fazioni interne o di rivalità geopolitiche… Paradossalmente ciò potrebbe rivelarsi un vantaggio, di fronte alla superiorità militare di Israele?

Penso che per i Palestinesi ciò sia allo stesso tempo un punto di forza e di debolezza. Da un lato, la resistenza gode di un sostegno diffuso, non ufficiale, il che impedisce d’imbrigliarla per mezzo della cooptazione, la corruzione o l’intimidazione. Essa saprà sempre rinnovarsi e rinvigorirsi, grazie al suo carattere popolare. È dunque un bene che non si tratti di una resistenza finanziata da alcuni Stati, gli Emirati Arabi, ad esempio, o l’Arabia Saudita, così che non la si può né ricattare né intimidire. Ci saranno sempre forze nuove, dei giovani pronti a tenere testa agli Israeliani, nei campi profughi, nella città vecchia di Gerusalemme, in tutta la Palestina. D’altro canto manca una dirigenza decente, che sappia esprimere le aspettative popolari, sviluppare ulteriormente questa resistenza e cogliere l’occasione per realizzare obiettivi politici…

Tu denunci un’assenza di dirigenza… Nello stesso tempo, se pensiamo a ciò che è successo negli ultimi anni, si vedono un po’ ovunque sollevamenti, rivolte, specialmente prima della crisi del Covid… e la mancanza di una dirigenza capace, cioè la crisi della rappresentanza politica si nota nella maggior parte dei casi. Oggi c’è una sanguinosa repressione in parecchie città della Colombia, che ricorda la serie di rivolte del 2019, a Hong Kong, in Cile, Honduras, Algeria, Iraq, Libano e pure i sollevamenti nei Paesi arabi nel 1911. Più recentemente, ci sono stati i tumulti negli USA dopo l’assassinio di George Floyd. Dappertutto, si è trattato di grandi e diffusi movimenti popolari, che offuscavano i partiti, i gruppi tradizionali, l’appartenenza politica istituzionalizzata o addirittura geopolitica… C’era diffidenza verso la dirigenza, un po’ come ciò che è successo inizialmente in Palestina con il sollevamento di Gerusalemme est e pure all’inizio della Grande Marcia del Ritorno del 2018, che non era inquadrata da un gruppo o da un partito. D’un tratto, sebbene la situazione palestinese sia particolare, non ti sembra che queste somiglianze tra vari tipi di contestazione che sfuggono a ogni forma di direzione, possa fare emergere nuove forme di solidarietà, di risonanze, di nuove prospettive di lotta per i Palestinesi?

Sì, penso che nella lotta palestinese contro l’occupazione si possa riconoscere un carattere universale. La nostra lotta può ispirare molte persone in tutto il mondo e, inversamente, noi possiamo imparare molto dalle lotte di altri popoli colonizzati, occupati o repressi, altri popoli che hanno fatto molti sacrifici per la giustizia e contro l’oppressione. Secondo me, la situazione contemporanea permette soprattutto di poter ricorrere a tali sollevamenti popolari quando non abbiamo una dirigenza politica che faccia proprie le nostre speranze…

La mia critica è rivolta soprattutto ai dirigenti palestinesi ufficiali. Questi non rappresentano le aspettative e la volontà del popolo palestinese; momenti come questo permettono quindi l’emergere di altre opzioni politiche, di altre opportunità, di altri leader più meritevoli di rappresentare i Palestinesi.

Io sostengo che l’occupazione tenti con ogni mezzo di contrastare il processo democratico in Palestina. Israele ha avuto quattro elezioni in meno di un anno e mezzo, eppure ha impedito la prima elezione che da noi doveva tenersi dopo 15 anni. Ecco l’enorme squilibrio tra le due parti.

Che si tratti della scelta dei dirigenti o delle forme di resistenza, i Palestinesi devono essere in grado di decidere… Naturalmente, io sono favorevole alla discussione, al dibattito, alle opzioni riguardanti le forme di resistenza. Ma ciò dev’essere fatto fra Palestinesi, fra tutti i Palestinesi dei vari frammenti geografici creati dall’occupazione e pure fra i Palestinesi della diaspora. Non tocca a capi di Stato stranieri e nemmeno a leader non eletti democraticamente decidere al posto del nostro popolo.

La solidarietà internazionale è comunque molto importante. Voglio dire in particolare agli abitanti di paesi democratici che la loro solidarietà può giovarci molto: può perlomeno contribuire alla sopravvivenza della nostra identità e quindi dare fastidio a Israele, impedirgli di godersi un’occupazione tranquilla. Inoltre, la solidarietà internazionale ha un effetto terapeutico per il nostro trauma collettivo, perché esprime un’affermazione della nostra umanità, della nostra soggettività e capacità di agire, un riconoscimento della nostra esperienza e dei nostri sentimenti. Essa si fa portavoce della nostra narrazione e ci aiuta a liberarci dello statuto di vittime per diventare attori di cambiamento…

 Vedendo quello che sta succedendo sotto i nostri occhi, quale sarebbe, per te, il migliore scenario possibile? Come l’immagini tu la liberazione della Palestina?

[Samah ride] Penso che la situazione attuale offra l’occasione di una ripoliticizzazione, sia per i Palestinesi, sia per coloro che ne sostengono la causa. Spero che questa situazione crei imbarazzo ai regimi ufficiali, non solo a quelli arabi, ma in tutto il mondo, a regimi ipocriti che continuano a permettere l’uccisione dei bambini di Gaza solo per confortare la cattiva coscienza europea in relazione ai massacri degli Ebrei commessi sotto il nazismo. Spero che questo mutamento di coscienza costringa Israele a rendere conto dei suoi atti e porti alla modifica dello statu quo, permettendo ai Palestinesi di diventare indipendenti e più liberi. Penso pure che sia arrivato il momento di un rinnovamento politico in Palestina, perché la nostra società non è sterile al punto di accettare la dirigenza attuale… Se la comunità internazionale smette d’intervenire negativamente nell’agenda politica del nostro popolo, questo sarà capace di darsi il personale politico più capace di esprimere il suo desiderio di libertà e di liberazione.

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