di Jeta Gamerro,
L’Indro, 24 maggio 2021.
Le risorse energetiche del Leviathan potrebbero essere al centro della ricostruzione se il giacimento in piccola parte venisse sfruttato anche dai Palestinesi, risorse che servono a Netanyahu per tenere ‘sotto controllo’ i Palestinesi. Ne parliamo con il Presidente di FederPetroli Italia Michele Marsiglia.
Dopo la guerra, la ricostruzione, ovvero il business della ricostruzione. La quarta guerra di Gaza è durata ‘solo’ 11 giorni, ma i danni sono enormi nella Striscia di Gaza.
Oggi il Segretario di Stato americano Antony Blinken inizia il suo viaggio in Medio Oriente, dopo che venerdì è scattato il cessate il fuoco. Incontrerà israeliani e palestinesi, a Gerusalemme il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, e a Ramallah, il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, il Primo Ministro Mohammad Shtayyeh e altri alti funzionari dell’Autorità Palestinese. A seguire andrà in Egitto, il Paese che ha mediato la tregua di Gaza tra Israele e Hamas, e incontrerà il Presidente Abdel Fattah al-Sissi e il Ministro degli Esteri Sameh Shoukry, infine sarà ad Amman, per incontrare il re Abdullah di Giordania e il vice Primo Ministro e Ministro degli Esteri Ayman Safadi.
Gli Stati Uniti si sono dichiarati impegnati a collaborare con l’Autorità Palestinese e le Nazioni Unite per fornire una rapida assistenza umanitaria e per raccogliere il sostegno internazionale per gli sforzi di ricostruzione di Gaza. «Il nostro obiettivo in questo momento è incessantemente sull’affrontare la situazione umanitaria, iniziando a fare la ricostruzione e la ricostruzione, e impegnarci intensamente con tutti, con i palestinesi, con gli israeliani, con i partner nella regione», ha detto ieri Blinken alla ‘CNN‘. Venerdì Blinken aveva avuto un colloquio telefonico con il Presidente Abu Mazen. Ora, aveva fatto sapere la Casa Bianca, «la ricostruzione di Gaza è prioritaria, non per Hamas ma per la popolazione palestinese». E il Presidente Joe Biden aveva affermato: «Non c’è alcun cambiamento nel mio impegno alla sicurezza di Israele, punto e basta. C’è bisogno di una soluzione a due Stati».
Ricostruzione sarà una delle parole d’ordine di questo viaggio di Blinken. E la ricostruzione che Gaza attende in effetti è qualcosa di estremamente poderoso. Fabrizio Carboni, direttore regionale del Comitato internazionale della Croce Rossa, ha detto: «Ci vorranno anni per ricostruire, e ancora di più per ricostruire le vite fratturate». Per il momento, ovviamente, si tratta di stime alla rinfusa, ma che rendono bene l’idea del disastro: serviranno 100 milioni di dollari solo per tamponare i danni all’industria, al settore energetico e all’agricoltura nel già impoverito territorio che lotta sotto un devastante blocco di 14 anni; quasi il 50 per cento della rete idrica è stata danneggiata dai bombardamenti, il che comporta che circa 800.000 persone a Gaza non hanno accesso regolare all’acqua pulita delle condutture; quasi 17.000 unità residenziali e commerciali sono state danneggiate o distrutte, tra queste, 769 unità abitative e commerciali rese inabitabili, almeno 1.042 unità in circa 258 edifici distrutti e altre 14.538 unità che hanno subito lievi danni; più di 80.000 persone che hanno perso la casa o che hanno avuto la casa gravemente o parzialmente danneggiata; l’elettricità che prima era mediamente disponibile 12 ore al giorno, ora è ridotta fino a cinque ore al giorno; i 13 ospedali di Gaza sono molto sotto pressione non solo per l’enorme volume di pazienti, ma anche per la carenza di rifornimento di carburante, forniture chirurgiche, bombole di ossigeno, siringhe, antibiotici. Ci vorrà tempo per dati consolidati, ma queste prime valutazioni già fotografano una situazione disastrosa. Serviranno i soldi degli Stati Uniti, ma non basteranno, naturalmente. L’Egitto ha già dato le prime disponibilità, altre seguiranno probabilmente sia dai Paesi Arabi sia dall’Occidente. Seguiranno perchè la ricostruzione è un grande business per i Paesi donatori -oltre ad essere un guinzaglio politico non da poco. Una ricostruzione sulla quale molto potrebbero incidere anche le risorse locali palestinesi.
La scorsa settimana, FederPetroli Italia ha diramato una nota nella quale il suo Presidente, Michele Marsiglia, attirava l’attenzione sulle risorse petrolifere potenzialmente in mano alla Palestina e non sfruttate, in particolare sul noto giacimento Leviathan. Lo faceva proprio in vista dei ‘giochi’ che su quel lembo di terra si sarebbero aperti dopo il cessate il fuoco.
Il tema, sia in riferimento alla ricostruzione, sia, soprattutto, in riferimento ai nuovi equilibri nell’area, è tra i più complessi e meno discussi. Abbiamo chiesto al Presidente Marsiglia di farci capire la questione.
Presidente, Lei, scorsa settimana, ha fatto diramare una nota stampa nella quale, parlando delle risorse energetiche in Palestina e Israele, nello specifico del Leviathan, afferma: «Sfruttando l’enorme bacino di gas sia Israele che i territori palestinesi potrebbero raggiungere un’indipendenza energetica e diventare nello stesso tempo esportatori del gas estratto e prodotto». Se non sbaglio il Leviathan è di proprietà di Israele, e lo sta sfruttando. E così? E cosa intendeva con quelle affermazioni?
Ed è proprio qui che si entra nel nocciolo della questione. Leviathan è una grande area ricca di gas nel Mediterraneo, più precisamente nel bacino del Levante. Ad oggi è sfruttato in piccola parte con 2 piattaforme Offshore operative ed una terza di appoggio. I pozzi furono perforati dall’azienda americana Noble Energy, successivamente acquistata dalla texana Chevron. Oggi Chevron, con l’israeliana Delek Drilling, sta sfruttando alcune piccole aree di questo grande bacino di idrocarburo. Il problema sta proprio nel fatto della proprietà di queste acque. Certamente Israele lo sta sfruttando, ma come tanti interessi economici e politici di quell’area di Medio Oriente, perché non la Palestina?
Oggi dalle piattaforme di Leviathan partono due pipelines che portano gas in Israele e un’altra che conferisce gas in Egitto, al confine con la Striscia di Gaza. Le prime due linee soddisfano gran parte di mercato interno del territorio israeliano. Il problema è che i territori palestinesi, ovvero la Striscia di Gaza, la West Bank (Cisgiordania) e Gerusalemme est sono povere. Nella Striscia esiste una sola centrale elettrica, per parte funzionante con combustibile, che ormai è ferma da giorni. I territori palestinesi si approvvigionavano il carburante con mercati paralleli di contrabbando, così come per altri generi, dai medicinali, al cibo e altri prodotti ancora. Questo è l‘embargo da parte di Israele. Perché deve esistere un embargo se si sostiene che le terre siano riconosciute, Israele da una parte e la Palestina dall’altra?
Quando parlavo dell’indipendenza mi riferivo al fatto che la Striscia di Gaza è un lembo di terra di circa 360 km2 e Israele di circa 22.000 km2, se il giacimento fosse suddiviso solo in piccola parte anche a favore della Striscia, che è la parte palestinese che affaccia sul mare, si risolverebbero gran parte dei conflitti economico-sociali e di conseguenza anche territoriali. Questo Netanyahu non lo vuole. Perchè?, beh, ovvio, perchè in questo modo si riesce a tenere ‘sotto controllo’ e ‘in minoranza’ il popolo arabo palestinese. Israele non è ricca solo di giacimenti Offshore, ma anche Onshore. Sulla terraferma sono operativi diversi pozzi di olio e gas, gli operatori sono società americane e molti di questi pozzi ricadono proprio sul confine israelo-palestinese. Con la scoperta principalmente di Leviathan, Israele ha puntato nei prossimi anni a non acquistare più greggio e prodotti petroliferi dagli Stati arabi del Medio Oriente e a operare su un investimento di dipendenza energetica interna. In questo modo il popolo ebraico si smarca completamente da quello arabo-musulmano dell’Islam, per usare riferimenti etnico-religiosi.
Nella stessa nota afferma che: «Se anche la zona di terra sotto controllo dell’Autorità Palestinese riuscisse a trovare fondi finanziari da parte altri Paesi arabi per lo sfruttamento delle risorse, in un solo anno sia la Striscia che la zona della West Bank (Cisgiordania) non avrebbero più bisogno di Israele per il proprio fabbisogno energetico». Può spiegare bene a quali risorse si riferisce e se e come oggi sono gestite? Inoltre, perchè fino ad oggi l’AP non ha trovato le risorse finanziarie per lo sfruttamento? Quali Paesi potrebbero essere disponibili all’operazione?
Ci colleghiamo a quanto detto sopra. Consideri che solo qualche ora fa gli Stati Uniti d’America hanno ufficializzato che aiuteranno Gaza nella ricostruzione, però senza passare da Hamas, bensì direttamente con l’ONU e l’ANP. La sfida più grande adesso è vedere quale sarà l’impiego generale di questi fondi che arriveranno. Non penso costruiranno solo palazzi. In questa nuova tornata elettorale USA siamo entrati in una fase storica diversa. Biden ha scongelato dopo anni miliardi destinati in favore dell’Agenzia per i rifugiati palestinesi (Unrwa), un cambio di rotta rispetto l’amministrazione Trump. A Gaza ora c’è business per miliardi, nonostante questa guerra lampo sia durata solo 11 giorni. Oggi la Palestina vive di alleati diversi, oltre al Qatar, sempre ufficiale sostenitore, hanno dato il proprio assenso agli aiuti l’Egitto e una nuova voce che a macchia di leopardo sta entrando nelle dinamiche diverse anche in altri Paesi, la Turchia. Oggi lo scenario è diverso, siamo in una fase storica dove si potranno focalizzare gli investimenti non solo sull’area militare, ma anche sugli interessi strategici territoriali. Sono stati lanciati circa 4.000 razzi dalla Striscia e altrettanti da Israele, in proporzione la Palestina non è più un ‘piccolo popolo’, anche se in un piccolo lembo di terra. Non è da sottovalutare tutto questo. Chi potrebbe dare fondi per lo sfruttamento del Leviathan? Beh, oltre a quelli che in queste ore hanno espresso la disponibilità a investire, certamente i Paesi arabi tradizionalmente ‘amici’.
L’Autorità Palestinese piuttosto che Hamas saranno ben consapevoli del patrimonio che hanno per le mani, allora cosa è mancato? forse la volontà politica di sfruttare questo patrimonio?
Sin dai tempi di Yasser Arafat i soldi all’allora OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) sono sempre arrivati, e arrivano ancora. Da oltre 15 anni sono stati reclutati i migliori ingegneri per costruire i tunnel sotto la Striscia e, sicuramente non sono stati fatti gratis. Nei territori palestinesi è evidente una grande disparità economica-sociale che spesso porta a pensare che la distribuzione equa ed ottimale delle risorse non sia stata sempre fatta. E’ risaputo anche che lo sfruttamento di possibili interessi strategici è stato spesso sottovalutato.
In tutto questo che stiamo dicendo, Lei sta forse affermando che il conflitto israelo-palestinese è un conflitto non tanto per la terra quanto per le risorse che si trovano sotto terra e a largo delle coste di quelle terre?
La dichiarazione fatta con FederPetroli Italia non voleva certamente dimenticare oltre 70 anni di storia tra Israele e Palestina o meglio tra religioni diverse. Il conflitto ha un suo storico. Ma oggi ci sono interessi che 40/50 anni fa non esistevano. Ci sono dinamiche geopolitiche ed economiche diverse. È stata questa la focalizzazione delle nostre dichiarazioni. Non penso che 75 anni fa israeliani ed arabi si scontrassero per chi avrebbe dovuto costruire una piattaforma petrolifera, ma oggi l’interesse energetico è fautore di tanti conflitti in diverse parti del mondo. La territorialità è strettamente legata ad un fattore economico-finanziario e di conseguenza sociale. Non commettiamo l’errore di invertire queste tre parole. Viviamo un’analoga situazione in Libia o in altre location del Medio Oriente. Abbiamo vissuto lo stesso problema con la Russia e l’area del Caspio. Dove passa un oleodotto ci sono royalties, ci sono flussi finanziari, c’è comando, c’è potere. Esiste un’economia che gira e circola, in poco tempo Paesi che non avevano l’acqua calda sono diventati potenze petrolifere in Medio Oriente, è questa la giusta chiave di lettura.
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