di Maria Nadotti,
Doppiozero, 21 maggio 2021.
Maria Nadotti: Che cosa sta succedendo esattamente in Palestina? I media occidentali, prigionieri di uno schema interpretativo ‘prudente’ e a dir poco obsoleto, ripetono luoghi comuni che non fanno luce sul presente e non si sbilanciano sul futuro.
Jamil Hilal: Quello che succede oggi in Palestina, e con questo intendo l’intera Palestina, quale esisteva ed era così chiamata prima della fondazione di Israele nel 1948 sul 78% di quel territorio, è, in parole povere, un’insurrezione contro un regime coloniale e di apartheid. La rivolta è iniziata all’inizio di questo mese con la protesta di alcune famiglie contro lo sfratto forzato dalle loro case a Gerusalemme (Shieck Jarrah). A queste si sono aggiunti coloro il cui il diritto di preghiera nella moschea di Alqsa era stato interdetto dall’esercito e dai coloni israeliani. I palestinesi che abitano in Israele (e hanno cittadinanza israeliana) si sono uniti alla rivolta in solidarietà, quando coloni e fanatici ebreo-israeliani di estrema destra hanno incominciato ad attaccarli per il semplice fatto di essere palestinesi. L’insurrezione si è estesa all’intera Cisgiordania (West Bank), che è attualmente colonizzata da più di 750 mila coloni ebrei illegali, mossi da un odio razziale e religioso, alcuni dei quali, sapendo di essere protetti dall’esercito israeliano, attaccano ormai abitualmente i cittadini palestinesi e non si fanno scrupolo di distruggere e confiscare le loro proprietà.
La Striscia di Gaza non è altro che una prigione a cielo aperto, dal 2006 sotto blocco totale israeliano via terra, aria e mare; Hamas e altre fazioni si sono aggiunte, lanciando razzi contro postazioni e insediamenti israeliani, e la risposta di Israele è stata di bombardare la Striscia di Gaza dall’alto, oltre che da terra e dal mare, distruggendo vaste aree residenziali e uccidendo e ferendo un grande numero di civili, tra cui bambini piccoli: questa è la quarta guerra di Israele contro la popolazione di Gaza dal 2008. Mentre scrivo, il bombardamento della Striscia di Gaza continua, e continua anche l’uccisione di civili, così come la distruzione delle infrastrutture di base necessarie per fornire acqua potabile, elettricità e servizi sanitari. Gruppi di solidarietà fuori dalla Palestina hanno iniziato a protestare contro le azioni di Israele e contro la connivenza di buona parte dei governi occidentali con la leadership di estrema destra israeliana. La nuova amministrazione americana continua a supportare apertamente il governo di estrema destra di Netanyahu. Vale la pena di sottolineare che i governi più reazionari e repressivi al mondo sono quelli che hanno rapporti più amichevoli con l’attuale governo israeliano.
Per farla breve, la popolazione palestinese è oggi, così come lo è stata fin dalla metà del ventesimo secolo, colonizzata, sottoposta a pulizia etnica, dislocata e costretta allo status di profughi o richiedenti asilo, e le è stato negato il diritto di ritornare in patria. Israele non è altro che uno stato coloniale che impone un sistema di apartheid ai palestinesi in tutto il territorio della Palestina storica, inclusi quelli che posseggono un passaporto israeliano. È importante ricordare che Israele era un fedele sostenitore del regime di apartheid sudafricano e che continua ad essere supportato senza riserve da quegli stati fondati sulla colonizzazione di terre altrui come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia.
MN: Si tratterebbe dunque dell’ennesimo capitolo di un conflitto di stampo coloniale, in cui, malgrado tutto, il colonizzato non cede e si permette perfino di non rinunciare in toto alla difesa?
JH: Proprio di recente l’Osservatorio sui Diritti Umani (Human Right Watch) ha promulgato un comunicato in cui descrive Israele come un regime di apartheid, che discrimina sistematicamente i cittadini israeliano-palestinesi, oltre a quei palestinesi residenti in Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza. Non molto tempo prima B’Tselem (l’israeliano Centro di Informazione sui Diritti Umani nei Territori Occupati) ha definito Israele uno stato di apartheid che opera secondo due leggi e prassi diverse: una per gli israeliani e un’altra per i palestinesi, ovunque essi siano. Eppure la propaganda israeliana continua a distorcere la storia e la narrativa palestinese, si presenta in vesti di vittima e si auto-assolve da ogni crimine contro la popolazione palestinese. Questa macchina della propaganda disumanizza i palestinesi (tutti i palestinesi) e criminalizza la loro lotta per la libertà e per l’auto-determinazione bollandola come terrorismo. È subito pronta a etichettare tutti coloro che osano criticare le politiche e i crimini di Israele come anti-semiti. Questo vale anche per il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS: Boycott, Divestment, Sanctions), la cui attività mira a sospendere il supporto internazionale all’oppressione israeliana dei palestinesi e a fare pressione su Israele affinché rispetti il diritto internazionale.
MN: In che cosa, a suo parere, la rivolta palestinese in corso differisce dalla prima e dalla seconda Intifada, iniziate rispettivamente nel 1987 e nel 2000, entrambe a seguito di atti di provocazione analoghi a quelli che hanno innescato la rivolta attuale?
JH: L’insurrezione attualmente in corso differisce dalle rivolte palestinesi del passato, ma in un certo senso ne è una continuazione, figlia delle rivolte iniziate un secolo fa contro il regime britannico e la sua sponsorizzazione del progetto colonizzatore sionista del territorio palestinese sin dai tempi della Dichiarazione Balfour nel 1917. L’insurrezione attuale è diversa perché coinvolge tutti i palestinesi ovunque essi siano: nella Palestina occupata nel 1948, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, a Gerusalemme, in Giordania, Libano, Siria, così come anche i palestinesi in Europa, Stati Uniti e altre parti del mondo. È anche diversa perché è nata in modo spontaneo e unitario, mentre la classe politica palestinese è divisa e frammentata dalla geografia politica del popolo palestinese e da orizzonti di vedute particolarmente ristretti. Questa insurrezione è diversa perché possiede un’unità di visione politica: è contro lo stato di apartheid di Israele e sottolinea il diritto al ritorno in patria dei cittadini palestinesi esiliati dal loro paese natale settantatré anni fa (1948). Un fattore di continuità è dato dal fatto che i giovani sono gli attori principali anche in questa rivolta.
MN: Quali saranno gli effetti e le ripercussioni di questa sollevazione e di quanto sta accadendo, sia nel campo palestinese sia in quello israeliano? Le leadership politiche di entrambi i paesi sembrano in agonia, scavalcate dal basso sia in Israele sia a Gaza e nei Territori occupati.
JH: Il risultato di quest’insurrezione è difficile da valutare. Una cosa però è chiara: il campo politico dell’azione palestinese è cambiato in modo radicale. Oggi c’è una profonda coscienza che la cosiddetta ‘soluzione dei due Stati’ non è altro che una favola, un mito o una menzogna. Ciò che esiste è un unico stato (Israele) che in regime di apartheid controlla tutta la Palestina dal fiume al mare. Israele controlla i confini, i cieli, il mare, la terra, l’economia, i movimenti (interni ed esterni) e la sicurezza. C’è una crescente coscienza che ci sia bisogno di una nuova visione, che possa chiamare a raccolta i palestinesi ovunque essi siano; una visione di uno stato democratico per Palestinesi (inclusi i rifugiati) ed Ebrei Israeliani, ma basato su una matrice di chiara uguaglianza, senza discriminazioni in base all’etnia, la religione, il sesso o altro. Una visione nuova richiede una leadership nuova e un nuovo movimento politico palestinese che rappresenti l’intero popolo palestinese (non solo quelli in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza). Un nuovo movimento politico che promuova e persegua questa nuova visione. La vecchia leadership (sia democratica sia rivoluzionaria) non ha più alcuna legittimità.
MN: La cosiddetta soluzione dei due stati è, come lei teorizza da anni, assolutamente impraticabile. Eppure, in Europa e negli Stati Uniti, c’è chi continua a sostenerla, forse per non uscire dall’impasse e lasciare che le cose vadano avanti con la ferocia di sempre. Qual è oggi la sua posizione in proposito e che cosa prevede?
L’articolazione e la promozione di un nuovo stato democratico con uguali diritti per palestinesi ed ebrei israeliani richiederà che Israele prima o poi si scusi con i palestinesi per aver colonizzato la loro terra, derubandoli e dislocandoli. Uno stato democratico richiederà di ripudiare il Sionismo quale ideologia coloniale che giustifica la discriminazione e la disumanizzazione dei palestinesi. Questa visione non si materializzerà domani, ma potrebbe iniziare a prendere forma quando un numero sempre maggiore di israeliani, ebrei e altri si renderà conto che nessun gruppo né nazione può essere veramente libero se soggioga altri, e che essere stati loro stessi vittime non giustifica né legittima il perseguitare altri esseri umani innocenti.
Quello che esiste al momento in Palestina (all’interno dei confini di quel territorio che esisteva prima che apparisse Israele) è un numero uguale di palestinesi ed ebrei israeliani, con un equilibrio demografico che gradualmente si sposta in favore dei palestinesi. Questo significa che il progetto sionista non ha avuto successo, almeno per quanto riguarda la pulizia etnica dei palestinesi in Palestina. Gli ebrei israeliani e la cosiddetta comunità internazionale (che altro non è che un gruppo di stati colonizzatori) devono prima o poi decidere se portare avanti una soluzione di stampo sudafricano per porre fine all’apartheid o se lasciare che la situazione esploda e l’apartheid termini in modo cruento come in Algeria. Spero con tutto il cuore che sia la prima e darò il mio contributo perché si realizzi una soluzione su modello sudafricano.
(Milano, 18 maggio 2021)
Jamil Hilal, sociologo palestinese, ha pubblicato vari libri e numerosi articoli (in arabo e in inglese) sulla società e la politica palestinesi. Tra i suoi libri: Israel’s Economic Strategy towards the Middle East (in arabo, 1996), pubblicato a Beirut; Palestinian Political System after Oslo (in arabo, 1998); The Formation of the Palestinian Elite (in arabo, 2002); Where Now for Palestine? The Demise of the Two-State Solution (Zed Books, 2007); Across the Wall: In Search of a Shared View of Palestinian-Israeli History (Tauris, 2010).
Hilal è stato uno dei principali contributori di The Palestine Poverty Report (in inglese e arabo, 1998). Ha coordinato e diretto ricerche su povertà, sottosviluppo, sistema penale, emigrazione, dinamiche familiari e stato sociale in Palestina. È ricercatore senior presso l’Istituto palestinese per lo studio della democrazia (Muwatin, The Palestinian Institute for the Study of Democracy), e partecipa attivamente ai progetti di ricerca del Programma di studio sullo sviluppo (Development Study Programme) e dell’Istituto di studi delle donne (Institute of Women Studies), entrambi presso l’Università di Birzeit. È membro del Comitato di redazione responsabile per la Palestina del trimestrale «Journal of Palestine Studies» (edizione araba, pubblicata a Beirut e Gerusalemme).
Nel 2004, insieme allo storico israeliano Ilan Pappe, ha curato il volume Parlare con il nemico: narrazioni palestinesi e israeliane a confronto (Bollati Boringhieri, Torino 2004), insignito del “Minimum Prize 2004” assegnato da “cittadellarte – fondazione Pistoletto, Biella” nell’ambito della mostra “Letterature di Svolta”. Nel 2007, per Jaca Book, ha curato Palestina quale futuro? La fine della soluzione dei due Stati.
La traduzione di questa conversazione è di Irene Gilodi.
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