Il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2021.
L’iniziativa è apparsa su The Guardian, ma vi hanno aderito anche nomi della cultura italiana come Salvatore Settis, Livio Pepino, Carlo Rovelli, Marco Paolini, Moni Ovadia e Alessandra Farkas. Particolarmente criticata la parte della definizione in cui si intende con antisemitismo anche il “negare agli ebrei il diritto all’autodeterminazione, per esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo”. È una “autodeterminazione a senso unico”, replicano i firmatari
“La lotta contro l’antisemitismo non deve essere trasformata in uno stratagemma per delegittimare la lotta contro l’oppressione dei palestinesi, la negazione dei loro diritti e la continua occupazione della loro terra”. Sono queste alcune delle parole contenute in una lettera aperta pubblicata a fine novembre su The Guardian a firma di 122 intellettuali palestinesi e arabi che hanno criticato la “definizione operativa” di ‘antisemitismo’ dell’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra), organizzazione intergovernativa che unisce i governi e gli esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto. Definizione adottata da alcuni Paesi europei (tra cui l’Italia) e dagli Stati Uniti. La missiva ha ricevuto il sostegno di numerosi intellettuali, anche di origine ebraica, da tutto il pianeta e tra i firmatari ci sono anche 276 membri del mondo della cultura italiano, tra cui Salvatore Settis, Livio Pepino, Carlo Rovelli, Marco Paolini, Moni Ovadia, Alessandra Farkas e molti altri.
Secondo la definizione dell’Ihra “l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”. Fin qui niente da dire, ma è quando viene stilata la lista degli esempi, delle ‘situazioni tipo’, che queste si scontrano con le opinioni dei firmatari. Sette su undici parlano di Israele, come ad esempio: “Negare agli ebrei il diritto all’autodeterminazione, per esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo”. Esempio, questo, richiamato nella “lettera aperta”: è una “autodeterminazione a senso unico – si legge – che non tiene in alcun conto la popolazione nativa, occupandone la terra e negandole ogni diritto”. La definizione è strumentale, è il fuoco della loro critica. L’antisemitismo va combattuto, scrivono, sulla base di principi, nel quadro del rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani.
E mentre cresceva la polemica, a fine novembre, in Gran Bretagna, un altro scontro si innestava su questo, sempre sul The Guardian: la minaccia del Segretario all’Istruzione inglese, Gavin Williamson. “Se non avrò visto la stragrande maggioranza delle istituzioni adottare la definizione entro Natale, allora agirò”, ha dichiarato riferendosi alla sospensione dei fondi loro destinati. “Immorale e illegale”, hanno ribattuto ex giudici e avvocati inglesi: la lettera di Williamson “mina la libertà di parola”.
Ci sono poi state altre prese di posizione contro Ihra. Come quella del consiglio accademico della University College of London (Ucl) che pochi giorni fa ha chiesto di “rimpiazzare” quella dell’Ihra con “una più precisa definizione di antisemitismo”: in precedenza, un team di studio Ucl aveva concluso che non è “idoneo allo scopo in un contesto universitario” e che “rischia di minare la libertà accademica.” Da ricordare anche una lettera di accademici britannici e cittadini israeliani a Williamson in cui si chiede di “rigettare la definizione” e “revocarla” presso quelle università che l’hanno già adottata (tra cui Cambridge). Perché oltre alla libertà di parola è in gioco la libertà accademica: può cioè riverberarsi un “chilling effect (ovvero la paura di sanzioni, ndr) sul personale universitario e sugli studenti che vogliono legittimamente criticare l’oppressione israeliana dei palestinesi o studiare il conflitto israelo-palestinese”.
Gli studiosi firmatari scrivono da una prospettiva “storica e politica profondamente informata dai molteplici genocidi dei tempi moderni, e soprattutto dall’Olocausto”, si legge, in cui “molti (di noi) hanno perso membri delle proprie famiglie estese”. Per cui si dicono “turbati” dalla lettera del Segretario anche sul piano personale. Da antirazzisti si sono battuti, aggiungono, anche “nei confronti delle prolungate politiche di occupazione, espropriazione, segregazione e discriminazione di Israele dirette verso la popolazione palestinese”.
Ecco, “segregazione” è una parola forte nel contesto Ihra, ma il tiro si alza quando The Guardian pubblica una lettera di eccezionale durezza che titola: “Siamo la più importante organizzazione israeliana per i diritti umani e vi diciamo che questo è apartheid”. La firma è di Hagai El-Ad, Direttore esecutivo di B’Tselem, ONG israeliana che documenta da oltre 30 anni le violazioni dei diritti umani dell’esercito di Israele. Il pezzo fa il giro del mondo: Cnn, Cbs, Le Figaro, El Pais, media arabi e israeliani. Nell’articolo si arriva a dire che “non c’è un solo centimetro quadrato nel territorio controllato da Israele in cui un palestinese e un ebreo siano uguali”.
La legge israeliana tratta diversamente ebrei e palestinesi e, si rileva nel Report di B’Tselem intitolato A regime of Jewish supremacy from the Jordan River to the Mediterranean Sea: This is apartheid, sono 65 le leggi discriminatorie, fino a quella sullo Stato-Nazione che istituzionalizza la discriminazione.
Si è così venuto a creare un paradosso: una critica così dura (“Israele è un regime di apartheid”) difficilmente può essere considerata antisemita, come sarebbe invece logico secondo i termini Ihra, dato che l’ONG israeliana gode di un’autorevolezza conquistata sul campo in decenni di lavoro (interviene al Consiglio di Sicurezza Onu, è citata nei rapporti del Dipartimento di Stato Usa). E infatti l’accusa di antisemitismo non c’è stata.
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