di Jonathan Ofir,
Mondoweiss, 9 marzo 2021.
Molti pensano che ci sarà una tornata elettorale in Israele questa primavera (il 23 marzo). Ma questa è solo metà della storia, perché di fatto ci saranno due tornate elettorali: una nel cosiddetto “Israele vero e proprio” e una nei Territori Palestinesi che Israele ha occupato negli ultimi 53 anni (22 maggio: elezioni generali palestinesi).
La domanda è: quali sono le vere elezioni? La risposta è: nessuna. Sono entrambe finzione.
Appena due mesi fa, la nota ONG israeliana per i diritti umani B’Tselem ha pubblicato un rapporto intitolato “Un regime di supremazia ebraica dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo: questo è apartheid”.
Questo è stato considerato un momento di svolta per gli Israeliani, ma quelli che hanno seguito questo argomento avevano visto un’analisi del tutto simile in un rapporto molto più lungo commissionato nel 2017 da un’agenzia ONU, scritto dai professori Richard Falk e Virginia Tilley, su come Israele ha praticato apartheid sin dall’inizio e lo ha mascherato come una “democrazia ebraica”.
Bisogna soffermarsi un momento per interiorizzare veramente questo concetto: che Israele, dal fiume al mare, è uno stato di apartheid.
Perché, quando questo concetto è stato ben digerito, appare chiaro il significato degli atti rituali (come le elezioni) compiuti sotto quel paradigma e al massimo li si considera come secondari.
Questo è ciò che Nathan Thrall chiama la “illusione dei regimi separati” nel suo magistrale recente saggio nella London Review of Books. Non ci sono vere e proprie doppie elezioni qui, poiché il regime unico di apartheid non cambia, dal fiume al mare.
Nelle elezioni “israeliane”, di cui mi occupo regolarmente, ci sono i presunti drammi sull’incognita se ancora una volta sarà eletto o no Netanyahu (ho messo “israeliane” tra virgolette perché anche le altre, le elezioni palestinesi, si svolgeranno sotto il controllo di Israele, cosa a cui tornerò). Il dramma principale è se Netanyahu sarà sostituito da questo o quel “liberale”, sia esso Benny Gantz che si vantava di poter riportare Gaza all'”età della pietra”, o Yair Lapid il cui “principio” è “il massimo numero di Ebrei sul massimo di terra col massimo di sicurezza e con il minimo di Palestinesi”, o Gideon Sa’ar la cui “Nuova Speranza” [NdT, partito fondato l’8 dicembre 2020 dall’ex ministro e parlamentare del Likud Gideon Sa’ar] è per la “realizzazione dei diritti naturali e storici del popolo ebraico nella Terra di Israele” (tra i quali “insediamento… in Giudea e Samaria”) o Naftali Bennett che si vanta di aver “ucciso molti Arabi”, che egli considera “una spina nel fianco”.
Anche se Netanyahu venisse spodestato in queste prossime elezioni, una possibile coalizione senza di lui sarebbe costituita soprattutto da queste forze ultra-nazionaliste e suprematiste ebraiche. Ci si può dimenticare che i partiti che rappresentano i Palestinesi possano far parte di qualsiasi formazione di governo: non è mai accaduto e non c’è alcuna possibilità che accada ora.
Quindi queste sono le finte elezioni “israeliane”. Molto rumore e una caratteristica costante, più chiara che mai: supremazia ebraica e apartheid, queste le cose che non saranno messe in dubbio.
Poi ci sono le elezioni palestinesi. Ma la Palestina è uno stato sotto occupazione, atomizzato in enclave che costituiscono bantustan e ghetti.
Non possiamo chiamarle libere elezioni, perché Israele vi interferisce attraverso l’intimidazione dei rappresentati giudicati troppo radicali per i suoi gusti colonialisti. Così la legislatrice palestinese Khalida Jarrar è stata condannata a due anni di prigione, malgrado non ci fossero prove contro di lei; è sufficiente che il partito di cui fa parte, il FPLP, aspiri a uno stato laico e democratico per fare di lei una terrorista. La giornalista Amira Hass di Haaretz la scorsa settimana ha riferito di come i servizi di sicurezza israeliani premano affinché gli attivisti di Hamas non si candidino alle elezioni palestinesi:
Nelle ultime settimane il servizio di sicurezza Shin Bet ha minacciato gli attivisti politici della Cisgiordania che sostengono Hamas di punirli con la detenzione per un certo numero di anni se si candidano alle elezioni. In alcuni casi, i coordinatori dello Shin Bet hanno fatto telefonate agli attivisti, avvertendoli che candidarsi per la legislatura potrebbe comportare la separazione dalle loro famiglie per un periodo prolungato. In altri casi, i coordinatori sono andati a casa degli attivisti a tarda notte, con una scorta dell’esercito israeliano, per consegnare il messaggio di persona.
E se Hamas vince come avvenuto nelle ultime elezioni del 2006? Allora Israele tenterà di capovolgere i risultati con mezzi violenti, come fece con il tentato colpo di stato che Hamas intercettò; forse userà anche gli agenti di Fatah e gli Stati Uniti come fece allora, perché le “elezioni” possono avere un solo risultato: quello che è favorevole ai colonizzatori. Se Hamas insiste a mantenere il potere, allora Israele mette l’enclave sotto assedio, come è avvenuto negli ultimi 14 anni.
Forse anche i Palestinesi esagerano quando parlano della loro “indipendenza” in queste elezioni. Cosa sono delle elezioni in cui non si può decidere, in cui il risultato è così condizionato e controllato dal tuo occupante?
Le fazioni rivali di Fatah e Hamas di tanto in tanto hanno fatto tentativi di unità nazionale. Ciò è sempre stato visto come una minaccia da Israele, che cerca di dividere e governare. Nell’aprile 2014 Hamas e Fatah giunsero a un accordo di unità, nel quale Hamas aveva caratteristiche vicine a quelle che avrebbero consentito alla comunità internazionale, rappresentata dal Quartetto (ONU, UE, USA, Russia), di trattare con esso. Ma Israele insolentemente disse “No”. Netanyahu dichiarò che Abbas doveva “scegliere tra la pace e Hamas”, e guidò il conto alla rovescia per l’assalto senza precedenti a Gaza, quello di cui Gantz si vantava.
Amira Hass accenna al desiderio di far rivivere tale unità:
Hamas e Fatah hanno giurato di voler porre fine alla divisione politica e ai doppi governi degli ultimi 14 anni. Una soluzione che si sta delineando è l’istituzione di un governo di unità nazionale, indipendentemente dai risultati delle elezioni […]. Se ciò avverrà, resta da vedere se Israele lascerà sopravvivere una soluzione così elegante.
E questa è la notizia. Non ci sono altre notizie sotto il cocente sole dello stato di apartheid.
È chiaro che la gente vuole fare qualcosa per il cambiamento, anche in questo paradigma impossibile di apartheid. E qualcosa in qualche modo deve essere fatto. Ma questa realtà complessiva che incombe su tutto deve essere compresa, messa a fuoco, interiorizzata.
Israele è uno stato di apartheid dal fiume al mare. Le elezioni in una tale realtà sono rilevanti solo se conducono a un cambiamento di questo paradigma, ma è improbabile che qualsiasi cambiamento prodotto da questi meccanismi elettorali possa davvero far progredire le cose.
Sappiamo che una vera risposta a questo apartheid c’è: Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.
Traduzione di Elisabetta Valento – AssoPacePalestina
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