Il dibattito israeliano sull’apartheid: rompere lo specchio o modificare la realtà?

di: Oren Yiftachel

Haaretz, 5 marzo 2021. 

Una manifestazione contro l’annessione della Cisgiordania a Tel Aviv, l’anno scorso. Ofer Vaknin.

Il “documento sull’apartheid” di B’Tselem, pubblicato a gennaio e, poco dopo, la decisione della Corte Penale Internazionale di indagare sui potenziali crimini di guerra di Israele nei Territori Occupati hanno suscitato molto dibattito sulla natura del regime israeliano. Mercoledì scorso l’argomento è stato anche al centro di una conferenza online di Haaretz sulla democrazia.

Tuttavia, nonostante questo importante dibattito, la maggioranza delle reazioni ebraico-israeliane ha preferito rompere lo specchio piuttosto che pensare a modificare la realtà. Con l’arrivo delle elezioni, questa realtà deve essere affrontata direttamente, arrivando alla domanda “E allora che facciamo?” a cui cercherò di rispondere più avanti.

È da notare che l’argomento dell’apartheid è già stato sollevato da tempo nei circoli accademici. Il rapporto di B’Tselem è però la prima volta che un’organizzazione della nostra società civile ha pubblicato un’analisi sistematica del regime estendendola all’intera area sotto il controllo di Israele, dal fiume Giordano al mare. Naturalmente, l’unico modo per caratterizzare un’entità è includere tutte le sue parti, sebbene la maggior parte delle organizzazioni e dei leader si siano astenuti per decenni dal farlo. Dopo cinque decenni di dominio coloniale e insediamento permanente, la scusa dell'”occupazione temporanea” è ormai priva di significato.

Sui fatti non c’è alcun dubbio: Israele è il potere sovrano diretto nel 90 per cento del territorio tra il fiume Giordano e il mare (i confini del ’67 più l’Area C). Inoltre, controlla indirettamente, ma piuttosto strettamente, il restante 10 per cento in cui 5 milioni di Palestinesi sono fortemente concentrati in enclavi controllate. In tutto questo settore sono applicate leggi, regolamenti o pratiche governative che attuano il principio della supremazia ebraica.

Il rapporto di B’Tselem dimostra come, attraverso un processo coerente di colonizzazione violenta e apparentemente legale su entrambi i lati della Linea Verde, si sia cristallizzata una gerarchia di cittadinanze, che ricorda il vecchio sistema sudafricano di “bianchi” (cittadini a pieno titolo), “colorati” (cittadini parziali) e “neri” (soggetti senza cittadinanza). I loro equivalenti in Israele/Palestina sono: ebrei (cittadini a pieno titolo in tutto il territorio), arabi palestinesi in Israele (cittadinanza parziale) e sudditi palestinesi senza cittadinanza nei territori occupati.

Tuttavia, è importante sottolineare che, nel discorso politico e legale internazionale, l’apartheid è arrivato a significare un tipo generale di regime e non necessariamente una copia esatta del Sud Africa. In effetti, ci sono anche differenze fondamentali tra i due casi: in Sud Africa, i bianchi ammontavano solo al 20 per cento della popolazione, mentre qui gli ebrei sono circa la metà. A differenza del Sud Africa, in Israele/Palestina ci sono due movimenti nazionali riconosciuti a livello internazionale e due futuri stati secondo il diritto internazionale.

L’argomento di B’Tselem può certamente essere messo in discussione e dibattuto. In particolare, molte reazioni pertinenti sono arrivate da diverse parti del mondo. Ma la cosa importante è che ha ottenuto il sostegno di molte organizzazioni della società civile palestinese, cosa da non dare per scontata in questo momento di profonda separazione e boicottaggio reciproco.

Eppure, negli ambienti ebraici, le risposte del centro-destra sono state in gran parte pavloviane, in particolare la reazione isterica del ministro dell’Istruzione Yoav Gallant che ha bandito i rappresentanti di B’Tselem dalle scuole. A lui ha fatto eco la risposta altrettanto isterica di Netanyahu che ha accusato la Corte dell’Aia di “puro antisemitismo”.

Le risposte di editorialisti di destra come Nave Dromi nell’edizione ebraica di Haaretz e importanti editorialisti come Ari Shavit, Ben-Dror Yemini e Irit Linor in altri giornali sono state dominate da una marea di maledizioni e commenti dispregiativi che accusavano B’Tselem di odio, ipocrisia, antisemitismo e antisionismo, incolpando anche i Palestinesi per le politiche coloniali israeliane. Questi politici e commentatori preferirebbero rompere lo specchio piuttosto che guardare a ciò che riflette.

Al centro-sinistra, la reazione principale è stata quella di distogliere lo sguardo dallo specchio. In questo senso, i pezzi su Haaretz di Zvi Bar’el, Israel Shrenzel e Shaul Arieli, così come le dichiarazioni del laburista Merav Michaeli e di Nitzan Horowitz di Meretz alla Conferenza sulla Democrazia, si sono attenuti alla formula logora di “qui la democrazia, là una temporanea occupazione.” Ma che dire del fatto che in 9 delle ultime 11 elezioni, sono stati i voti dei coloni della Cisgiordania a incoronare il diritto colonialista di governare Israele? Apparentemente, la “democrazia” ora include gli Ebrei nei territori occupati ma non i Palestinesi privi di diritti. In altre parole, questa democrazia non è una democrazia.

Un blocco stradale dell’esercito israeliano in Cisgiordania, l’anno scorso. JAAFAR ASHTIYEH / AFP

Il diritto di voto selettivo è ovviamente solo un aspetto della connessione sempre più profonda tra Israele ebraico e territori palestinesi, in un processo che ho chiamato nella mia ricerca “apartheid strisciante,” che rafforza gradualmente i principi della supremazia ebraica e che “separa e privilegia” in ogni ambito della vita tra il Giordano e il mare. In questo contesto, l’Autorità Palestinese e Hamas controllano solo quegli ambiti della vita che Israele non è interessato a controllare, e come tali diventano anche loro (riluttanti) servitori dell’ordine di apartheid.

La domanda più importante dopo il dibattito è “E adesso che facciamo?” Il rapporto di B’Tselem è un segnale di avvertimento lampeggiante. Cerca di motivare tutte le parti interessate alla democrazia e ai diritti umani affinché riconoscano ciò che si riflette nello specchio in modo così chiaro e comincino a lottare più duramente che mai per fermare l’apartheid e decolonizzare i rapporti tra Ebrei e Palestinesi.

È importante sottolineare che la fine dell’apartheid non porta necessariamente alla soluzione di un unico stato, come dice di solito il dibattito internazionale. Una tale soluzione incontrerebbe profonde difficoltà, dato il diritto all’autodeterminazione riconosciuto sia ai Palestinesi che agli Israeliani, un diritto collettivo a cui è poco probabile che qualcuno voglia mai rinunciare.

Ci sono molte altre possibilità, come l’istituzione di due stati indipendenti e separati (soluzione fallita ripetutamente per 80 anni), o quelli che mi sembrano modelli più appropriati di confederazione e federazione che consentirebbero la sovranità e l’autodeterminazione per entrambi i popoli, pur permettendo libertà di movimento, una capitale unica e un’economia integrata nella patria condivisa. Il movimento congiunto israelo-palestinese per la pace A Land for All promuove questo percorso da diversi anni, con un sostegno modesto ma crescente.

Ma prima, naturalmente, ci sono le elezioni dietro l’angolo, quindi è fondamentale opporsi fermamente all’ampio spettro di partiti, da Kahol Lavan e Likud ai partiti religiosi, che promuovono tutte le gradazioni di apartheid. Il cambiamento di direzione deve iniziare con il sostegno ai (pochissimi) partiti che promuovono la democrazia reale e uguali diritti collettivi e personali per tutti gli abitanti della nostra terra.

Oltre al voto, si può fare molto in tutti i settori della politica e della vita quotidiana per rompere la separazione razzista tra Ebrei e Palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde. Quindi, la grande sfida posta dal rapporto di B’Tselem è resistere all’impulso di rompere lo specchio o di guardare da un’altra parte. Al contrario, quel rapporto spinge tutti gli interessati a guardare coraggiosamente la spiacevole realtà riflessa nello specchio e a iniziare la sua trasformazione: prima avviene, meglio è.

Il Prof. Oren Yiftachel è un coautore del rapporto di B’Tselem menzionato in questo articolo. È membro fondatore del movimento per la pace A Land for All.

https://www.haaretz.com/opinion/.premium-israel-s-apartheid-debate-smash-the-mirror-or-fix-reality-1.9591443

Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina

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