di: Bernard Avishai e Sam Bahour,
The New York Times, 12 febbraio 2021.
Politici ed esperti non dovrebbero mettere in dubbio la soluzione dei due stati. Ma dovrebbero finalmente considerarne una versione plausibile
Donald Trump ha lasciato all’amministrazione Biden una miriade di crisi internazionali, nessuna delle quali è più evidente di quella tra Israele e l’Autorità Palestinese.
Trump ha smantellato le relazioni con il fronte palestinese e ha dato il via libera ad un governo israeliano estremista ad agire a suo piacimento, approvando le pretese esclusive di Israele su Gerusalemme e i suoi continui progetti di insediamenti. Gli accordi di normalizzazione di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, tralasciando ogni altra considerazione, sono stati presentati come un modo per prevenire il riconoscimento giuridico dell’annessione da parte di Israele di territori al di fuori di Gerusalemme in cui vivono i Palestinesi.
Come per sfidare l’amministrazione del presidente Biden, a novembre il governo di Benjamin Netanyahu ha aperto gli appalti per la costruzione di 1.257 unità nella Gerusalemme Est araba, e l’ONU ha riferito che la violenza dei coloni ha raggiunto l’apice la scorsa primavera, durante i primi giorni della pandemia. Un sondaggio effettuato l’anno scorso tra i Palestinesi dal Palestinian Center for Policy and Survey evidenzia un aumento di coloro che sostengono la lotta armata.
Di fronte a una situazione diventata così esplosiva, il fatto che a novembre Biden abbia vagamente ribadito la soluzione dei due stati ha fatto tirare un respiro di sollievo, tanto da indurre il presidente dei Palestinesi, Mahmoud Abbas, a rinnovare, dopo sei mesi di boicottaggio, la cooperazione su economia e sicurezza con Israele. L’ambasciatore ad interim degli Stati Uniti all’ONU, Richard Mills, ha detto recentemente al Consiglio di Sicurezza, in tono colloquiale, che entrambe le parti devono evitare “azioni unilaterali” che renderebbero più difficile quella soluzione.
Ma le tensioni non saranno dissolte da un presidente americano che ripropone senza convinzione gli slogan del passato. Il processo di pace di Oslo, iniziato nel 1993, proponeva due stati separati da un confine netto, ed è questo ciò che il presidente Biden e l’inerzia generale sembrano sostenere. Eppure i negoziati per arrivare a questa soluzione sono finiti nel nulla più e più volte, per ragioni che finalmente richiedono un momento di verità: per vivere e prosperare, Israele e Palestina devono piuttosto giungere sia all’indipendenza che all’interdipendenza: due stati che condividono ciò che deve essere condiviso, e separano solo ciò che si può separare.
In una parola, una confederazione. Biden dovrebbe favorire questo risultato finale.
Intendiamoci. I Palestinesi vogliono che il loro stato, già riconosciuto da oltre il 70% degli stati membri dell’ONU, sia libero dall’occupazione militare; vogliono giustizia per i profughi. Gli Israeliani, in cambio, vorranno poter difendere i loro risultati in ambito economico e di sicurezza, e che il loro stato venga riconosciuto da tutti nella regione. Ciascuna parte vorrà preservare la sua identità nazionale, politica e culturale. Ma gli stati perseguono i loro interessi e trattano i loro affari in una rete di norme internazionali e meccanismi di mediazione, specialmente quando si tratta di stati così intrecciati l’uno con l’altro.
Da Beersheba a sud fino al confine settentrionale con il Libano, il paese abitato da Israeliani e Palestinesi rappresenta nel suo insieme un territorio e una popolazione più o meno equiparabili all’area urbana allargata di Los Angeles: circa 20.000 chilometri quadrati, che ospitano 14 milioni di persone. La distanza tra Herzliya, la zona ad alta tecnologia di Israele, e Nablus (uno dei due centri industriali palestinesi e sede della borsa palestinese) è di circa 25 miglia, più o meno la distanza tra Santa Monica e Long Beach in California o tra la North Shore di Chicago e Schaumburg nell’Illinois. Israeliani e Palestinesi devono condividere una capitale, l’infrastruttura urbana e dei trasporti e l’ecosistema economico.
Anche se lo fanno perché vi sono costrette, le parti condividono già la moneta, la rete elettrica ed informatica, le autostrade ed altro. Possono cose del genere essere “separate” in uno spazio così piccolo? Dai grattacieli commerciali di Ramallah si vede la skyline di Tel Aviv, dall’Università Ebraica l’intera valle del Giordano.
Già in base soltanto a questi fatti, la separazione totale è un non senso. Invero, l’originaria proposta di divisione del 1947, la risoluzione 181 dell’ONU, prevedeva un’unione economica e una commissione esterna neutrale come luogo di incontro per la cooperazione delle due parti. Quella confederazione, che era accettabile per Israele ma non per i Palestinesi, era prevista per due popolazioni che erano un decimo di quanto sono adesso. Il modello è stato poi sviluppato, tra gli altri anche da noi, nel periodo post-Oslo. Mai come oggi l’intera sua logica è apparsa così chiara.
Vivere gomito a gomito circoscrive l’ambito della sicurezza. L’aeroporto israeliano Ben Gurion è a circa 12 chilometri dal confine con la Cisgiordania, la linea dell’armistizio del 1949; gli aerei che atterrano ci passano praticamente sopra. L’aeroporto palestinese di Gerusalemme, che Israele ha chiuso, imporrà agli aerei di passare entro lo spazio aereo israeliano. I falchi della sicurezza hanno perfettamente ragione a sostenere che un singolo razzo a spalla potrebbe bloccare per mesi il commercio internazionale di Israeliani e Palestinesi, così come il turismo; circa un terzo dei Palestinesi sostiene Hamas, e molti di loro restano contrari a qualunque forma di pace.
Allo stesso modo, molti Ebrei israeliani vedono la terra d’Israele come il loro patrimonio divino; nella dozzina di yeshiva (scuole ebraiche) sorte nello spiazzo di fronte al Muro del Pianto –a poche centinaia di metri dalla Moschea di Al-Aqsa e dalla Cupola della Roccia– si sentono spesso agghiaccianti esortazioni a ripulire il sito e costruire il terzo tempio. Una pianificazione della sicurezza a cui contribuisse ciascuno dei due stati sovrani faciliterebbe la cooperazione formale sulla sicurezza, marginalizzando gli estremisti di entrambe le parti e aumentando il prestigio morale di un centro di cooperazione.
Istituzioni confederali consentirebbero di dividere la sovranità su Gerusalemme con un confine solo tratteggiato, tenendo effettivamente la città aperta a tutti. Col tempo, quella linea tratteggiata potrebbe essere applicata lungo l’intero confine tra i due paesi. Questo permetterebbe la continuità di un mercato comune –che includa idealmente la Giordania, dove vive molta della borghesia palestinese– per rendere possibili investimenti transfrontalieri e lo scambio di capitale intellettuale attraverso partnership imprenditoriali. Ogni anno attualmente oltre 1.500 Palestinesi si laureano come ingegneri informatici; le società globali di Tel Aviv potrebbero fornire loro una sorta di scuola di perfezionamento. I Palestinesi hanno una conoscenza approfondita dei mercati in Giordania e nei paesi del Golfo, e sarebbero in grado di offrire servizi e collaborazione alle imprese israeliane che sperano di aprirvi attività. Ciascuna parte deve sviluppare le sue città e smetterla di rimpiangere le comunità agricole del passato. Per nessuno dei due popoli l’agricoltura rappresenta più del 5% del PIL.
Entrate a Nablus e vedrete una mezza dozzina di grosse fabbriche, molto simili a quelle di Hebron, gestite da appaltatori palestinesi che impiegano migliaia di lavoratori palestinesi in settori come la produzione di mobilio, materie plastiche, estrazione, cartiere e vetrerie, tutte integrate in catene di produzione largamente al servizio del mercato israeliano. Il giorno in cui l’esercito israeliano sarà sollevato dall’onere di proteggere gli insediamenti sulle sommità delle colline intorno a Nablus sarà il giorno in cui la Route 5, additata dai Palestinesi come la superstrada dei coloni, potrà essere estesa fino a connettere Tel Aviv alla Valle del Giordano e così diventare una risorsa che entrambi gli stati avranno interesse a sviluppare.
D’altra parte, che autorità potrebbe esercitare uno dei due stati senza la cooperazione formale dell’altro? I due stati si rifornirebbero dalla stessa falda acquifera; userebbero gli stessi impianti di desalinizzazione per preservare il mare di Galilea e quindi il Bacino del Mar Morto; e gestirebbero la stessa rete fognaria da Gerusalemme alla Valle del Giordano. Condividerebbero buona parte della rete elettrica e la distribuzione delle frequenze di telecomunicazione necessarie per lo streaming dei dati da mobile, che sono limitate. Condividerebbero normative ambientali in merito alla qualità dell’aria e alla gestione dei rischi per la salute pubblica, specialmente i rischi epidemiologici come il Covid-19. I turisti sarebbero quattro milioni in più all’anno fornendo, su base ricorrente, circa 9 miliardi per il PIL comune dei due paesi. Ma permettere ai turisti di muoversi liberamente richiede un sistema cooperativo di banche e di carte di credito.
Istituzioni confederali potrebbero cominciare ad occuparsi di problemi spinosi come quello dei diritti dei profughi palestinesi e gli interessi, seppure discutibili, dei coloni israeliani; potrebbero accordarsi sul numero dei profughi palestinesi che potrebbero fare ritorno in Israele e quanti Israeliani rispettosi delle leggi potrebbero vivere in Palestina con la residenza permanente, ma senza cittadinanza. Via via che la pace si stabilizzasse, le istituzioni confederali potrebbero consentire il transito di routine attraverso il confine, magari verso una determinata spiaggia, con un semplice segnale radar emesso dall’auto.
Alcuni sostengono che la soluzione dei due stati è, in ogni caso, superata –che i coloni sono troppo numerosi e i Palestinesi troppo frammentati– e che comunque i Palestinesi dovrebbero chiedere l’uguaglianza dei diritti in un unico stato democratico e laico. Ma tutti i ragionamenti a sostegno della non plausibilità della soluzione dei due stati rendono assurdo un futuro con un solo stato: immaginate un singolo potere legislativo che provi a decidere se assegnare 100 milioni di dollari alla costruzione di edilizia residenziale per i profughi palestinesi destinati a rientrare, ma che non stanno ancora contribuendo all’economia, oppure all’espansione del Technion (Israel Institute of Technology) per far evolvere la già florida industria high-tech israeliana. Il PIL israeliano è dieci volte quello palestinese. E in che lingua, se non in un incerto inglese, verrebbe condotto il dibattito?
Ma le istituzioni confederali non pretendono nemmeno che le nazioni cooperanti si piacciano dal primo istante. Nel 1951, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio mise insieme gli odiati tedeschi con i Francesi, i Belgi, gli Olandesi e altri. Le confederazioni prendono forma intorno a interessi di lungo periodo, con ogni nazione che persegue progressi condivisi, insieme alla libera scelta per il suo sviluppo culturale, il proprio passaporto, i suoi propri collegamenti particolari con chi sta fuori dallo stato: un posto al sole insomma. Una separazione netta, per contro, è una falsa promessa e lascia i due stati insufficientemente definiti, lasciando entrambi i popoli avviati soltanto a uno stallo.
Un’amministrazione Biden non idealista, ma solo lungimirante, potrebbe fare la differenza. Potrebbe immediatamente esigere che il governo israeliano rimuova le barriere che impediscono agli imprenditori palestinesi che stanno, per esempio, nel Kuwait o a Dearborn in Michigan, di stabilire ed avviare nuove attività imprenditoriali nelle città della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. L’amministrazione USA dovrebbe incoraggiare un mercato comune tra Israele, la Palestina e la Giordania, e premere per il completamento del gasdotto sponsorizzato dal Quartetto che potrebbe portare elettricità e acqua desalinizzata a Gaza.
La chiave è salvare Israeliani e Palestinesi da superati anacronismi. E salvarsi l’un l’altro.
Bernard Avishai, professore israelo-americano che scrive per diverse riviste, vive a Gerusalemme.
Sam Bahour è un palestinese-americano che vive a Ramallah, in Cisgiordania, ed è un consulente gestionale.
Traduzione di Dora Rizzardo – AssopacePalestina
Non riesco a afferrare la differenza tra la proposta Avishai e quella di Trump, salvo lo scambio di territori, che la prima non prevede.