Perché chiamare Israele uno stato di apartheid non è sufficiente

di Lana Tatour,

18 gennaio 2021. 

Il rapporto di B’Tselem che evidenzia il carattere di apartheid di Israele è uno sviluppo ben accetto, ma questa conclusione non può essere disgiunta dall’oppressivo colonialismo di insediamento dello stato.

Una donna palestinese è in piedi accanto a un cartello di protesta che recita “Gli Arabi sono esclusi, questa è Via dell’Apartheid”, Hebron, 28 gennaio 2020 (AFP)

B’Tselem, un importante gruppo per i diritti umani in Israele, ha recentemente pubblicato un rapporto in cui si conclude che Israele è uno stato di apartheid, con un regime di supremazia ebraica che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

Il rapporto ritiene che Israele soddisfi la definizione di apartheid secondo il diritto internazionale, che definisce l’apartheid come “atti inumani commessi allo scopo di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale di persone su qualsiasi altro gruppo razziale di persone e di opprimerle sistematicamente”.

Il rapporto ha ricevuto un’ampia attenzione dai media internazionali ed è stato descritto come uno “spartiacque“. Ma è uno spartiacque solo per B’Tselem che ha usato il termine “apartheid” per la prima volta nei suoi trent’anni di storia e per una comunità internazionale così infatuata dalle voci israeliane. Per i Palestinesi, niente di tutto questo è una novità.

Dominare i Palestinesi

B’Tselem non è il primo gruppo per i diritti umani a definire Israele un regime di apartheid. Nel 2009, studiosi palestinesi e sudafricani pubblicarono un esauriente rapporto che stabiliva che Israele stava commettendo il crimine di apartheid. Due organizzazioni palestinesi per i diritti umani, Adalah e Al-Haq, facevano parte di questa iniziativa.

Due relatori speciali dell’ONU sui diritti umani in Palestina giunsero a una conclusione simile. Nel 2007, John Dugard stabilì che “certi elementi dell’occupazione costituiscono forme di colonialismo e di apartheid”. E, alcuni anni fa, Richard Falk è stato co-autore [con Virginia Tilley, NdT] di un rapporto in cui constatava che Israele aveva instaurato “un regime di apartheid che opprime e domina il popolo palestinese nel suo insieme”. Il segretario generale dell’ONU prese subito le distanze dal rapporto, ordinandone la rimozione dal sito web dell’ONU [all’epoca, 2017, il segretario generale era già António Guterres, da poco insediatosi; la sua richiesta provocò le dimissioni di Rima Khalaf, sottosegretaria generale dell’ONU e segretaria esecutiva dell’ESCWA, che aveva commissionato il rapporto, NdT].

Cosa tipica del razzismo occidentale, gli Israeliani sono considerati più affidabili e stimati e i loro contributi più validi di quelli dei Palestinesi che fanno esperienza di apartheid, colonizzazione e occupazione ogni giorno.

Comunque, il rapporto di B’Tselem è un gradito sviluppo. Come l’accademico Rafeef Ziadah fa notare, arriva “nonostante un’orchestrata campagna di silenzio, che tenta di impedire il dibattito prima ancora che inizi. In questo senso, è rilevante che un’organizzazione israeliana per i diritti umani abbia dichiarato quel che i Palestinesi affermano da anni”.

Mentre non è una novità inquadrare lo stato di Israele in una cornice di apartheid, il concetto si sta facendo strada nella più ampia dimensione di quello che in realtà è un unico Stato dal Giordano al mare. Mentre il paradigma dell’occupazione è costruito sul falso presupposto della temporaneità e sostiene una distinzione tra i territori del 1948 e quelli del 1967, l’inquadramento basato sull’apartheid riconosce che Israele è il potere che governa realmente tra il fiume e il mare, dove mette in atto un regime razziale.

Crimine contro l’umanità

Secondo il diritto internazionale, l’apartheid è un crimine contro l’umanità e l’evidenza dimostra chiaramente che Israele è un regime di apartheid. Ovunque nel territorio tra il fiume e il mare, i suoi sistemi politico e giuridico sono tutti volti ad assicurare la supremazia razziale e il dominio ebraico. In mezzo alla pandemia di Covid-19, Israele si è rifiutato di vaccinare i milioni di Palestinesi che vivono sotto il suo controllo, mentre vaccinava gli Israeliani, compresi i coloni ebrei, nella Cisgiordania occupata.

Ma la Palestina non può essere intesa semplicemente in termini di apartheid, poiché questo offre solo una comprensione limitata e parziale della situazione. Israele è uno stato fondato sul colonialismo di insediamento, che pratica sia apartheid sia occupazione permanente.

Un soldato israeliano di guardia a un posto di blocco all’entrata principale del campo profughi palestinesi al-Fawwar, 9 luglio 2020 (AFP)

Il discorso sull’apartheid e la Palestina che emerge nei circuiti liberali ha il difetto di non riconoscere il colonialismo di insediamento come la struttura principale dello Stato israeliano. Abbiamo visto tali dinamiche nel recente appello di Peter Beinart per uno stato bi-nazionale, nel quale l’apartheid è riconosciuto, ma non il colonialismo di insediamento sionista/israeliano.

Il dominio razziale è trattato come una caratteristica autonoma dello Stato israeliano, scollegato dall’impresa coloniale di insediamento in Palestina. Anche quando l’apartheid è riconosciuto, non si affronta il sionismo come ideologia e movimento razziale.

Il rapporto di B’Tselem è un perfetto esempio di questo nuovo approccio, che è alla ribalta nella critica liberal progressista di Israele. Il rapporto non menziona la colonizzazione o il colonialismo di insediamento nemmeno una volta. Paradossalmente uno dei membri del consiglio di B’Tselem ha commentato: “Qualsiasi tipo di cambiamento inizia con una corretta lettura della realtà che si cerca di alterare; guardare quella realtà a occhi aperti e chiamarla con il suo nome”.

Evidentemente, per B’Tselem, il colonialismo di insediamento non fa parte di questa realtà.

Comprensione limitata

L’uso dell’apartheid come unica cornice di lettura è in linea con i crescenti tentativi di limitare l’interpretazione della questione della Palestina entro rigide categorie legali. Il diritto internazionale è importante e dovrebbe essere usato a nostro vantaggio. Ma sarebbe pericoloso lasciare il diritto internazionale come la sola guida della nostra comprensione della realtà in Palestina o il fondamento delle nostre rivendicazioni politiche. La questione della Palestina è una questione politica, non una questione meramente legale.

È vero, il colonialismo di insediamento non è illegale secondo il diritto internazionale, ma questo non è un buon motivo per puntare solo sul diritto internazionale per la nostra comprensione della situazione in Palestina. Limitandoci al diritto internazionale, rischiamo di parlare solo del dominio razziale e ignorare quello coloniale. Dobbiamo parlare di entrambi, e dobbiamo riconoscere che il dominio razziale e l’apartheid israeliano sono parte inseparabile della dominazione insita nell’insediamento coloniale.

Questo non vuol dire che dobbiamo abbandonare la cornice dell’apartheid, ma piuttosto che dovremmo essere cauti nelle letture liberali dell’apartheid israeliano. I Palestinesi hanno usato l’analogia dell’apartheid molto prima che esso divenisse un crimine contro l’umanità. Il paragone della Palestina con il Sudafrica dell’apartheid ha una lunga, radicale storia che precede la “recente” scoperta dell’apartheid di alcuni Israeliani. I Palestinesi vedevano il Sudafrica, come la Palestina, come uno stato razziale e colonialista d’insediamento e loro stessi come parte di un più ampio movimento globale anticolonialista, antimperialista e antirazzista.

I Palestinesi da decenni offrono analisi politiche e intellettuali sulla questione della Palestina. Ma anche quando i Palestinesi usano l’apartheid come una cornice per le analisi, ciò non va a scapito della cornice basata sul colonialismo di insediamento, anzi la integra.

Smantellare il colonialismo di insediamento

Le organizzazioni, gli studiosi e gli attivisti israeliani non sono –e non dovrebbero essere– gli arbitri di cosa sia o non sia Israele, o di quale dovrebbe essere la soluzione. La cancellazione del colonialismo di insediamento dal discorso sull’apartheid israeliano rischia di rimuovere la decolonizzazione a favore di progetti liberali di uguaglianza. Configura la Palestina come una questione liberale piuttosto che coloniale.

La decolonizzazione non è una metafora o una parola d’ordine buttata lì senza pensarci. Anche se non può essere facilmente definibile, la decolonizzazione non è di certo un sinonimo di progetti liberali di uguaglianza, anche se sempre più spesso viene usata in tal senso. A differenza dell’uguaglianza liberale, la decolonizzazione richiede lo smantellamento del colonialismo di insediamento, delle sue istituzioni e delle sue logiche. La nostra libertà dipende da essa.

Il punto di vista espresso in questo articolo è dell’autrice e non riflette necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Lana Tatour è un’assistente universitaria di Sviluppo globale alla School of Social Sciences, University of New South Wales (Sydney, Australia).

https://www.middleeasteye.net/opinion/why-calling-israel-apartheid-state-not-enough

Traduzione di Elisabetta Valento – AssoPacePalestina

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