di Hatim Kanaaneh,
Mondoweiss, 19 dicembre 2020.
Diversamente dall’autore di questa biografia accademica [Tamir Sorek: L’ottimista: una biografia sociale di Tawfiq Zayyad, v. oltre] che non aveva mai incontrato Tawfiq Zayyad e aveva saputo di lui soltanto dalla stampa di ispirazione per lo più ebrea sionista, ho conosciuto e rispettato Tawfiq Zayyad fin dai tempi della Nakba. All’epoca di quell’evento che ha cambiato le nostre vite, lui aveva circa il doppio della mia età che era allora undici anni, un uomo che era una promessa letteraria, dotato di una visione del mondo rivoluzionaria, di un nazionalismo palestinese coraggioso, di ideali comunisti e di una voce potente a sostenere tutto ciò nei suoi discorsi pubblici. Eppure questa stella nascente si lasciava avvicinare anche da me e dai miei coetanei. La sua voce penetrante non si poteva ignorare soprattutto grazie alla amplificazione degli altoparlanti, allora un mezzo nuovo.
Nel 1954, nonostante il pugno di ferro imposto dal Governo Militare di Israele su di noi, suoi cittadini palestinesi, con i miei compagni di scuola della terza media in Arrabeh, il mio villaggio natio in Galilea, sotto la guida del mio cugino comunista, Tawfiq Kanaaneh, abbiamo indetto uno sciopero che ebbe un notevole successo per protestare contro la tassa pro capite che era stata imposta a noi ma non alla maggioranza ebrea dei nostri concittadini. Nonostante la rivalsa del governo militare contro le famiglie degli alunni che capeggiarono la ribellione, lo sciopero si estese alle altre scuole arabe e produsse l’abolizione di quella particolare tassa.
Recentemente, rievocando memorie con mio cugino Tawfiq, lui ha ricordato un altro sciopero riuscito che mi ero completamente dimenticato, forse perché era limitato ai contadini locali della Galilea. Tradizionalmente, all’inizio dell’inverno i lavoratori agricoli delle nostre famiglie più povere di terra, avevano sempre cercato lavoro come raccoglitori di olive nei campi degli agricoltori più ricchi, spesso in altri villaggi della Galilea. Con la Nakba e la pulizia etnica di più di 500 comunità palestinesi dalla regione che divenne parte di Israele, deportati verso i campi profughi nei vicini paesi arabi, i funzionari militari governativi di Israele offrirono contratti per lavorare in molti uliveti abbandonati favorendo boss locali e collaborazionisti. Diversamente dalla pratica tradizionale di pagare a giornata i lavoratori agricoli con una porzione fissa del raccolto fatto, questi terzisti cominciarono a ritardare i pagamenti fino alla fine della stagione quando decidevano, retroattivamente, quanto pagare per il lavoro svolto. I comunisti di Arrabeh, compreso mio cugino, indissero uno sciopero, anche qui con successo. Questa importante vittoria era in qualche modo svanita dalla memoria collettiva. Senza dubbio, Tawfiq Zayyad fu l’ispiratore anche di questa azione. Arrabeh celebrò la propria vittoria sulla tassa pro capite con assemblee di massa in cui Tawfiq Zayyad, stella nascente del comunismo e del nazionalismo palestinese, diede prova del carisma e della potenza della sua voce. Ecco come il giornalista israeliano Y. Kinarot riferì questo evento che lanciò Abu el-Amin (“colui che è degno di fiducia” come noi, suoi amici e contemporanei, interpretavamo il suo nome di battaglia) come nostro poeta della resistenza e capo politico. La citazione è da Ma’ariv nel Giugno 1957, intitolata sarcasticamente, “Nasser non è venuto in aiuto di Tawfiq Zayyad”:
Ignorando le regole di Governo Militare che proibiscono l’entrata nelle zone chiuse (cioè : tutte le comunità arabe residenti in Israele) senza un permesso delle autorità della sicurezza (cioè: i funzionari del Governo Militare che di solito non li concedevano) Zayyad era solito “saltare” da un villaggio arabo all’altro liberamente (cioè: procurandosi un passaggio spesso usando strade rurali secondarie) radunando i contadini nella piazza del villaggio e pronunciando focosi discorsi di odio (cioè: appassionate condanne della tassa pro capite dell’apartheid) contro il governo, le autorità e il Governo Militare, finché le forze di sicurezza lo intrappolarono e in uno dei suoi ultimi “colpi” nel 1955 lo arrestarono ad ‘Arraba, il famigerato villaggio arabo (cioè: il tipico villaggio palestinese che osava fare opposizione) nella Galilea centrale. Nel bel mezzo del suo discorso fu caricato sul cellulare della polizia e trasferito al vicino commissariato.
Tamir Sorek, autore de “L’ottimista: una biografia sociale di Tawfiq Zayyad” (Stanford University Press, Kindle Edition, 2020) ricorda che la nota visita di Zayyad a Arrabeh ebbe luogo il 24 aprile del 1954, quando si celebrava la liberazione dalla prigione di quattro attivisti politici del villaggio. Zayyad aveva indetto una rivolta e uno sciopero studentesco contro le tasse e fu arrestato e messo agli arresti domiciliari dal tramonto all’alba con la proibizione di lasciare Nazaret per sei mesi. Dal momento di questo arresto fino a quando Zayyad divenne membro della Knesset nel 1974, ricorda Sorek, il governo militare e la polizia esercitarono spesso restrizioni della sua libertà di movimento.
Nell’introduzione, Sorek accusa gli “studiosi orientalisti” israeliani di lavorare più o meno ufficialmente per i servizi di sicurezza. Si autoassolve da questo sospetto affermando “Non c’è modo di aggirare facilmente questo dilemma, perciò avviso il lettore che questo libro non può pretendere di essere più di quanto non sia in realtà: una presentazione empatica di una figura emblematica della politica e della cultura palestinese da parte di uno studioso ebreo israeliano”.
Con questo lascia aperta e in attesa di risposta la domanda chiave su dove si situi lui nel sionismo. Nessuno dei suoi dotti amici che ho contattato sembra essere sicuro circa la sua posizione ufficiale su questa questione. Perciò devo richiamarmi alla sua rivendicata identità “ebrea israeliana”. Da questo punto di vista sarebbe insultante per lo studioso se dovessi ritenere che non sia consapevole dei limiti tipici della stampa “ebrea israeliana” nel propagare una visione negativa dei Palestinesi in generale e dei loro leader in particolare. Per illustrare questa faziosità, nella citazione qui sopra ho aggiunto dei “cioè” tra parentesi con la mia traduzione di alcune delle frasi usate nell’originale del testo del giornalista. La mia conclusione, a questo punto, dovrebbe essere ovvia: non penso che Tamir Sorek derida intenzionalmente Tawfiq Zayyad. Piuttosto, Sorek non esercita alcun sospetto sulle fonti “ebree israeliane” a cui attinge per dare i tocchi finali al ritratto del suo soggetto.
Sorek contende giustamente al giornalista citato la data degli avvenimenti, ma lascia in piedi tutte le implicite allusioni senza nessun commento o obiezione.
Ci si può chiedere: che cosa induce i media pubblici e i funzionari “ebrei israeliani” a condividere una visione così faziosa? Questa è la madre di tutte le domande sul nostro caso. La nostra sola esistenza era, ed è ancora, indesiderabile e impensabile agli occhi del medio ebreo israeliano. La questione era, ed è ancora, l’attaccamento alla nostra tradizionale fonte di sopravvivenza, la terra agricola che era sempre stata una parte essenziale della nostra identità e una fonte di orgoglio. Agli occhi della maggioranza dei nostri concittadini tutta questa faccenda era ed è ancora un difetto innato della nostra rivendicazione al diritto di cittadinanza, di uguaglianza e dei diritti umani in Israele.
Negli anni ’70, dopo essere tornato dagli Stati Uniti ad Arrabeh, mio villaggio nativo, come suo primo medico, la potente voce dall’altoparlante di Zahi Khateeb, il giovane fabbro di Arrabeh che annunciava la maggior parte degli eventi organizzati dal locale Partito Comunista, ebbe su di me un effetto mistico e gioioso. Ora penso di sapere perché mi rallegravo ogni volta che sentivo gli annunci di Zahi, spesso senza capirne il contenuto: deve essere stato il magico effetto della voce di Abu el-Amin su di me. Arrabeh è stato il luogo in cui la sua capacità di comando ha preso forma con il conseguente arresto, come riportato più sopra senza commenti, obiezioni o spiegazioni.
Più tardi ho letto del resoconto fatto da Zayyad delle ripetute sessioni di tortura da parte della polizia nella città di Tiberiade. Zayyad ha raccontato di come veniva appeso per le braccia e per le gambe alla finestra della cella e picchiato finché perdeva conoscenza. Zayyad chiamava questa tortura “crocefissione”, simile alle torture inflitte dalle autorità del mandato britannico ai Palestinesi ribelli nella rivolta che durò dal 1936 al ’39. Ogni volta che si rianimava, sputava in faccia ai suoi torturatori che lo picchiavano di nuovo fino a fargli perdere i sensi. Non c’è da stupirsi che i suoi parenti raccontino che per tutta la vita aveva un rifiuto fisico di andare a Tiberiade.
Nonostante la crocefissione, la laicità di Zayyad non incoraggiò le occasionali allusioni da parte degli amici che lo paragonavano al suo conterraneo nazareno, Gesù Cristo. Tuttavia, l’autore insiste a lungo sulla analogia religiosa tra la devozione del suo soggetto al comunismo e le credenze e i dogmi religiosi musulmani. Mi pare un’ interpretazione ingenua della realtà del nostro eroe. Tuttavia è una questione che lascia spazio a qualche sospetto. Posso immaginare gli amici di Zayyad che accusano questo colpo basso che giustificherebbe l’accusa di somigliare ai suoi peggiori nemici, i membri del Movimento Islamico, nella pratica di una devozione cieca, con l’unica differenza dell’identità della divinità adorata, Marx o Allah.
La storia dei passaggi illegali di Zayyad da un villaggio all’altro della Galilea fa parte del secondo capitolo del libro intitolato “Fermezza/Sumud“. Il leggendario coraggio fisico e morale di Zayyad è espresso da questa parola più di qualsiasi altra in qualsiasi lingua, la lotta della nostra comunità – di noi Palestinesi, sia che si sia cittadini di Israele che residenti dei territori occupati o membri della diaspora palestinese. Per i non iniziati, aggiungo: con la nostra lotta e le nostre sofferenze quotidiane come individui, come Abuel Amin o come comunità come i casi di Nazaret e di Arrabeh, abbiamo creato un marchio unico dell’arma dei deboli, comune a tutte la minoranze indigene sottomesse del mondo; l’abbiamo fatta conoscere in tutto il mondo come “Sumud” (fermezza). Aggiungete a questo tema generale i doni unici di Abu-el-Amin come uno dei suoi simboli, sia in prigione che nelle manifestazioni pubbliche o nel parlamento di Israele. Pensiamo che il nome di Abu el -Amin bastasse a mettere in luce il nostro ottimismo e la fiducia nella sua e nella nostra lotta contro l’ingiustizia e in difesa dei nostri diritti, la sua “Sumud” (fermezza) con il suo leggendario talento letterario e la sua fiducia ottimistica nella vittoria finale nella lotta delle classi lavoratrici, la sua vibrante protesta contro l’ingiustizia e la sua ferma posizione contro l’avanzare del fascismo nella destra israeliana rappresentata nel parlamento israeliano da personaggi come Sahba’am Ze’evi. “Sumud “, la fermezza era ed è il modo in cui esprimiamo la nostra speranza in un futuro migliore e più giusto e Abu el-amin è stato il suo simbolo in carne ed ossa.
La visione di un comunismo utopico di Zayyad combinata con i suoi doni di poeta, il suo grande senso dell’umorismo e la familiarità con il carattere del suo pubblico, lo hanno fatto avanzare fino a diventare “il primo sindaco comunista nel Medio Oriente e un membro del parlamento per lungo tempo.” Egli non ha mai mostrato paura e non ha mai esitato a esprimere il suo parere con forza, spesso mettendo in ridicolo i suoi oppositori per la gioia dei suoi sostenitori. In queste occasioni ricordo non solo che mi ha convinto come assertore del nazionalismo e difensore della pace, anche se non sono mai stato partecipe della sua profonda fede comunista, ma anche di avermi molto divertito.
Per tornare al paragrafo sopra citato: quando ho letto questa prima e unica biografia accademica in inglese dell’eroe che abbiamo tutti ammirato, ho contattato alcune delle persone che l’autore citava tra le sue fonti di informazione. Senza eccezione, tutti lodavano la precisione e l’accuratezza nella ricerca di fonti di prima mano. In certe cose Sorek era andato al di là delle loro aspettative con citazioni ripetute di testimonianze orali di vecchi alleati di Zayyad che non aderivano più al comunismo. Tuttavia, l’autore non ha mai contattato nessuno della mezza dozzina di persone ancora in vita e perfettamente consapevoli che parteciparono all’organizzazione dell’evento in “‘Arraba, il famigerato villaggio arabo della Galilea centrale”. Forse è stato dissuaso dalla notorietà del villaggio, mi chiedo?
Anche tenendo conto della presa di distanza dall’approccio comune degli orientalisti israeliani di osservanza allo Shin Bet, Tamir Sorek non mette in dubbio il discorso dominante che insinua malevolenza nei confronti della lotta di Zayyad contro l’apartheid praticata dal governo militare ai tempi, e lascia passare, senza obiezioni, e senza nessuna seppur lieve critica, la propaganda dei media sionisti sul suo soggetto, Tawfiq Zayyad, con i suoi “discorsi di odio” e il “famigerato” villaggio che lo ospitava, Arraba, il mio ‘Arrabeh’. Trovo inaccettabile questa sotterranea vena di discredito nei confronti del lavoro politico e letterario di Tawfiq Zayyad tacendo sui suoi detrattori.
E ancora: per persone come me che ai tempi erano là, la questione principale era nuda e cruda: i Sionisti prendevano di mira la nostra unica fonte di sopravvivenza, la nostra terra agricola. Forse non avrei notato la disonestà e la dannosità di tutto ciò se avessi avuto una chiara ammissione da parte dell’autore, della sua adesione al sionismo, una mentalità che è addirittura una nota di carattere qualificante per i lettori palestinesi della mia età. Questo sospetto da parte mia e di quelli della mia generazione non si applica a qualifiche identitarie come “ebreo” e “israeliano”, nonostante che quest’ultimo aggettivo implicasse sempre un certo grado di inimicizia nei nostri confronti, soprattutto con l’attuale occupazione di tutta la Palestina storica in atto dal 1967.
Un altro esempio dell’accettazione acritica da parte di Sorek dell’ingannevole posizione tipica dei media israeliani è la sua apparente assoluzione di David Ben-Gurion sulla questione della pulizia etnica di Nazaret nel 1948. Jonathan Cook ha già smascherato tali pretese di innocenza. Tuttavia Sorek si attiene alla narrazione sionista dell’innocenza accreditando la spiegazione della decisione di Ben-Gurion come dettata da sagacia politica in difesa dell’importanza di Nazaret per la comunità cristiana. Nascosto nelle pieghe di questa narrazione c’è il fatto che Ben-Gurion aveva già emesso l’ordine orale di evacuare tutti i residenti nella città. Solo quando il comandante ebreo canadese della forza di invasione della Hagana, Ben Dunkelma, richiese un ordine scritto, Ben-Gurion archiviò il suo precedente ordine di evacuazione. In realtà sembra che egli avesse già cominciato a progettare una strategia alternativa per smantellare demograficamente e amministrativamente la città di Nazaret. Negli anni ’50 proseguì questa politica creando la moderna città e snodo amministrativo di Nazaret del Nord, ora chiamata Nof Hagalil sulle terre confiscate della città e dei vicini villaggi palestinesi.
Ecco un altro esempio dell’adesione acritica dell’autore alle fonti ufficiali israeliane e di nuovo un esempio delle mie domande: Sorek racconta con leggerezza la partecipazione di Zayyad a una missione di alcune centinaia di lavoratori da Nazaret per collaborare nella raccolta delle arance a Jaffa. Ci furono notizie di conflitti tra quei lavoratori stranieri e i rifugiati palestinesi che si erano raccolti a Jaffa. La ragione si dice sia stato l’uso di alcool da parte di quegli uomini. Ma una lettura attenta e un controllo delle note, permettono di scoprire che questa diceria era stata propagata dall’ufficio del Ministero degli Affari delle Minoranze, la struttura centrale parallela del Governo Militare creata per opprimere e sminuire noi, i Palestinesi rimasti in Israele. Tamir Sorek è consapevole del potenziale tendenzioso di queste fonti israeliane. Tuttavia, sembra apprezzare la derisione del personaggio di Zayyad “le sue caricature divertenti e pittoresche” e di farle passare acriticamente e persino con qualche apprezzamento:
Un autore (israeliano) (già vice del consigliere sulle questioni arabe del primo ministro) Uri Standel gli diede (a Zayyad) il pittoresco appellativo di “poeta velenoso” e il poeta Haim Guri si riferiva a lui come “una insopportabile mescolanza di Gesù, Stalin e Arafat.” Il giornalista Yehushu’a Bitsur aggiungeva “I suoi occhi brillano del fuoco dell’odio”
Quindi Sorek propone una blanda difesa del suo soggetto:
La paura collettiva di Zayyad rifletteva la profonda ansia sionista indipendente dalle parole e dai comportamenti di Zayyad. Nello stesso tempo Zayyad provocava queste reazioni ansiose più che qualsiasi altro membro del suo partito. Questa paura di Zayyad è sorprendente dato che lui si presentava coerentemente come cittadino di uno stato che richiedeva una riforma e come leader di una minoranza nazionale che reclamava diritti all’interno di uno schema di cittadinanza.
A questo punto, mi pare di essere tanto indeciso sul valore dell’autore di questa biografia, Tamir Sorek, quanto lui stesso lo è sul suo soggetto, Tawfiq Zayyad. Che cosa mi aspettavo da lui, comunque mi chiedo. A suo favore si può dire che Sorek fornisce un eccellente esempio di quel che ci si può aspettare da un ricercatore ammiratore imparziale, nonostante lui stesso venga meno a questa descrizione. Scrive:
“il giornalista David Halevi lo incontrò (Tawfiq Zayyad) in diversi lunghi colloqui e produsse il resoconto giornalistico più dettagliato e sfumato che sia mai stato scritto (in Monitin, 1981)… Il redattore di Monitin, Adam Baruch, aveva il chiaro programma di sfidare l’immagine esistente di Zayyad tra gli Ebrei israeliani. Aggiunse un proprio paragrafo all’intervista (mettendo in ridicolo) la comune immagine di Zayyad in Israele:… il testo di Baruch dovrebbe essere conservato per sempre come una buona parodia della rappresentazione di Zayyad nei media ebrei,.. (in seguito) altri giornalisti scoprirono la differenza tra la caricatura stereotipata di Zayyad e la sua reale personalità e visione politica”
Nella sua ascesa nel partito, Zayyad usò la sua base di Nazaret, compreso il consiglio comunale, come base di potere, sparando messaggi ad Arafat e alla Knesset israeliana. Le sue speranze in una pace tra Israele e la Palestina insieme alla disponibilità di Yitzhak Rabin a concedere alla minoranza palestinese in Israele dei progetti comunitari, condussero ad una collaborazione tra i due, nonostante i passati disaccordi.
Oggi, Ayman Odeh, il capo politico degli Arabi in Israele, sta imitando i prudenti passi di Zayyad nel soppesare la possibilità di appoggiare un partito sionista fuori dalla sua prevista coalizione di governo.
Questo livello di mediazioni politiche, secondo lo stesso Zayyad, lo impegnava tanto da non lasciargli più il tempo per dedicarsi alla sua poesia.
Tuttavia, Sorek propone una spiegazione alternativa e meno lusinghiera, sostenendo che Zayyad parlava in modo diverso a seconda dei diversi tipi di pubblico, mentre la Knesset non forniva un pubblico adatto alla sua poesia.
Questa è la familiare tattica del doppio gioco, soprattutto nella nostra classe intellettuale, come cittadini palestinesi di Israele, e soprattutto in un notevole gruppo dei nostri laureati in scienze sociali dell’università di Haifa, con le contorsioni e i ripensamenti di docenti di arte come Sami Smooha e Arnon Sofet. Una simile affermazione è un colpo basso nei confronti del nostro eroe Zayyad, soprattutto nella sua posizione di principale poeta della resistenza palestinese. Tenendo conto di tutto ciò l’apparente innocenza dell’analisi dell’autore mostra il suo lato distruttivo. E allo stesso modo suona la sua affermazione che il lavoro poetico di Zayyad sia una semplice arma al servizio delle sue ambizioni politiche.
Rischiando di sminuire le mie argomentazioni, lasciatemi affermare la mia disponibilità ad accettare la spiegazione che sostiene che Tamir Sorek fosse ben intenzionato nello scrivere una biografia di Tawfik Zayyad. E di questo gli sono grato. Dove cade è nella incapacità di disfarsi dei pregiudizi tribali dell’ “ebreo israeliano” e della presunta ostilità da parte di tutto ciò che è palestinese.
Il meno che avrebbe potuto fare sarebbe stato visitare Arrabeh e verificare di prima mano quanto sia “famigerato” questo posto. Molto probabilmente avrebbe scoperto che, oggi, Arrabeh è famoso per avere la più alta percentuale di medici per numero di abitanti rispetto ad ogni altra comunità in Israele, araba o ebrea. Alcuni concittadini di Arrabeh mi danno la colpa di aver inaugurato questo fenomeno. Io a mia volta, attribuisco a Abu el-Amin, e ai suoi compagni dirigenti del partito comunista, la responsabilità delle tante borse di studio che hanno procurato ai giovani comunisti per studiare nelle università dell’Unione Sovietica prima della sua dissoluzione.
Traduzione di Gabriella Rossetti – AssopacePalestina