B’Tselem, 16 novembre 2020.
Due settimane fa, il 3 novembre, Israele ha compiuto una delle più grandi operazioni di demolizione degli ultimi dieci anni. Khirbet Humsah, un’intera comunità palestinese nella valle del Giordano settentrionale, è stata demolita in poche ore. Settantaquattro persone sono rimaste senza casa, 41 delle quali bambini. Decine di strutture, case di abitazione e mezzi di sussistenza, sono stati distrutti.
Humsah non è l’unico caso. Per anni Israele ha preso di mira dozzine di comunità palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata. È una politica criminale di trasferimento forzato. Israele sta trasformando la vita di queste comunità in un incubo continuo, per costringerle ad arrendersi e ad andarsene. Un incubo di anni senza acqua corrente o connessione alla rete elettrica, di demolizioni di case, di dover abbandonare ripetutamente la tua casa in modo che le truppe israeliane possano esercitarsi sulla tua terra, di violenza continua da parte dei coloni sostenuti dalle forze di sicurezza israeliane.
A volte tutta questa violenza di stato organizzata si condensa in poche ore buie, come è successo a Humsah. Ma che ci vogliano anni o poche ore, è sempre un crimine di guerra.
L’Unione Europea ha risposto definendo tutto questo una “tendenza deplorevole” e affermando che “tali sviluppi costituiscono un ostacolo alla soluzione dei due Stati”.
Vorrei essere chiaro: Israele sa, da decenni di esperienza, che la cosa peggiore con cui dovrà fare i conti sono queste insignificanti espressioni di preoccupazione. I bulldozer israeliani in viaggio per demolire la prossima casa di un Palestinese indifeso stanno avanzando su strade lastricate di una retorica così vuota. Ogni volta che vengono usati degli eufemismi invece di chiamare i crimini con il loro nome, Israele è incoraggiato a continuare le sue politiche di oppressione, espropriazione e violenza contro i Palestinesi. L’acquiescenza internazionale, imbellettata con discorsi privi di significato su una “soluzione a due stati”, puntella la realtà intrinsecamente antidemocratica “a uno stato” in cui viviamo.
Tutti sanno –nelle capitali europee e in questo Parlamento– che più e più dichiarazioni non fermeranno la prossima demolizione. Quando le righe delle dichiarazioni non contengono nulla, Israele non deve nemmeno leggere tra l’una e l’altra per capire che ha avuto un semaforo verde per continuare a opprimere i Palestinesi. Senza conseguenze reali, quella luce verde continuerà a brillare.
Humsah non è stato il primo. E finché l’impunità è la norma, non sarà l’ultimo. Ovunque nella Valle del Giordano, le comunità palestinesi affrontano situazioni simili, mentre intanto Israele ha stabilito sempre più numerosi insediamenti. A Gerusalemme, le famiglie palestinesi sono costrette a lasciare le loro case in modo che i coloni ebrei vi si possano trasferire. Pochi chilometri a Est, la comunità di Khan al-Ahmar sta aspettando il suo turno. Sulle colline a Sud di Hebron, le comunità palestinesi temono, dopo 20 anni di lotta per rimanere sulla loro terra, l’imminente sentenza dell’Alta Corte di Giustizia israeliana. Un tribunale così giusto che non si è mai pronunciato contro il regime di pianificazione kafkiano di Israele in Cisgiordania, un regime su misura per vietare lo sviluppo palestinese mentre rilasciava permessi per costruire ed espandere gli insediamenti israeliani. Legittimando tutto questo, la più alta corte israeliana funziona da elemento chiave per favorire politiche palesemente illegali intese a trasferire con la forza i Palestinesi.
Tutto questo sta accadendo da decenni e continua anche dopo che Israele ha recentemente accantonato –almeno per il momento– il suo piano di annettere formalmente parti della Cisgiordania. De jure o de facto, qualunque fosse lo status formale della terra palestinese, non ha mai impedito a Israele di promuovere i suoi interessi a scapito dei diritti dei Palestinesi. Chiaramente, se Israele avesse a cuore il diritto internazionale o il rispetto dei diritti umani, non avrebbe costruito più di 250 insediamenti in cui vivono già circa 600.000 Israeliani.
L’Europa ha davvero bisogno di un annuncio di annessione de jure per vedere la realtà per quello che è? Quanti anni di occupazione prolungata, quante dichiarazioni esplicite da parte di leader israeliani, quanti progetti infrastrutturali, quanti coloni ci vogliono perché l’Europa si renda conto della realtà del controllo permanente di Israele su tutto e tutti tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo ? Un secolo di occupazione? Un milione di coloni? Cosa sta aspettando l’UE?
Le conseguenze per le violazioni dei diritti umani potrebbero essere messe in atto mediante la politica estera europea, utilizzando efficacemente la notevole influenza dell’Europa. Evidentemente, la decisione di non farlo è una scelta politica. Mina l’impegno dell’Europa nei confronti dei diritti umani e indebolisce l’ordine internazionale fondato sulla legge. Normalizza l’oppressione e disumanizza i Palestinesi, perché –a quanto pare– nessuno deve essere ritenuto responsabile del loro permanente asservimento. Nemmeno quando un’intera comunità viene rasa al suolo, né quando centinaia di manifestanti vengono colpiti con proiettili veri lungo la recinzione di Gaza, né quando dozzine di famiglie sono state sterminate nelle loro case nel massiccio attacco a Gaza del 2014. Non ora, né mai.
L’Europa ha responsabilità internazionali. È il più importante attore internazionale impegnato, nella sua stessa ragion d’essere, per la democrazia e lo stato di diritto. Gravi violazioni sistematiche dei diritti umani sono in corso da anni, in pieno giorno, a due passi dall’Europa. Allora Europa, metti da parte la vuota retorica. Guarda la realtà per quello che è. Difendi i valori universali consacrati in legge all’indomani della seconda guerra mondiale. Proteggi i diritti dei Palestinesi. Il momento è adesso.
Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina