La nuova visione della destra israeliana in merito alla supremazia politica degli Ebrei

di Raef Zreik,

+972magazine, 27 ottobre 2020.   

Il successo del progetto di insediamento ha portato a un intreccio tra la popolazione ebraica e quella palestinese, rinnovando il problema che Israele cercò di risolvere con le espulsioni del 1948. Adesso la priorità della destra è la segregazione.

La polizia di frontiera israeliana sorveglia i coloni schierati su un tetto nel quartiere ebraico di Netiv Ha’avot a Gush Etzion, 12 giugno 2018 (Yonatan Sindel / Flash90)

Molti analisti ritengono che, nel corso degli ultimi dieci anni, all’interno della corrente dominante della destra israeliana, sia emerso un nuovo orientamento: attualmente, al centro della trattazione della destra, prevale l’argomento “nazione”, che ha sopravanzato l’argomento “terra”. Il dibattito sulla territorialità relativo alla Grande Israele –ovvero quel progetto per cui lo Stato di Israele dovrebbe controllare l’intero territorio compreso tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo– si è indebolito a spese di un discorso nazionalista ed etnocentrico. E, sebbene non sia stata la destra dei coloni ad avviare questa narrazione, essa l’ha sostenuta con insistenza nel corso degli ultimi anni.

Tale orientamento si è manifestato con il progredire di una legislazione antidemocratica, con l’istigazione contro i cittadini palestinesi di Israele e contro le organizzazioni e gli attivisti di sinistra, e attraverso l’enfatizzazione dell’idea dello “Stato ebraico”. Una serie di organizzazioni di destra –incluso l’Institute for Sionist Strategy (2005), Im Tirzu (2006), The Jewish Statesmanship Center (2007), My Israel (2010), Kohelet Forum (2012) e altre che sono nate sulla scia della Seconda Intifada e del “disimpegno” da Gaza– hanno contribuito a questo mutamento. Il culmine di questo processo è stato l’approvazione alla Knesset, nel luglio del 2018, della Legge sullo Stato-Nazione degli Ebrei.

Alcuni esponenti della sinistra non-sionista, così come alcuni rappresentanti della destra israeliana, affermano che non ci sia nulla di sostanzialmente nuovo in questo approccio o persino nella legge stessa sullo Stato-Nazione

degli Ebrei: la legge non fa altro che sancire i principi del sionismo e i valori della Dichiarazione di Indipendenza. In questo c’è del vero: il sionismo, così come inteso dai suoi esponenti sin dal suo esordio, è un movimento creato per promuovere gli interessi del popolo ebraico, radunando gli Ebrei della diaspora, attraverso la negazione dell’esilio, l’Hebrew labor (Conquista del lavoro), “riscattando” la terra e colonizzandola.

Tutte le istituzioni nazionali sono, come suggerisce il loro stesso nome, nazionali e non internazionali o universali. Il progetto sionista è affidato a un gruppo etnico-religioso ben definito, collocato in un punto preciso, nello spazio e nel tempo. In questo, ovviamente, il sionismo non è straordinario: l’impegno dei movimenti nazionalisti, in generale, è limitato e definito a priori, e quindi l’esclusione, l’emarginazione e la separazione dall’Altro (per non parlare dell’espulsione di quello stesso “Altro”) sono ad essi intrinseci e ne rappresentano degli effetti secondari. Per un gruppo etnico-religioso-nazionale, l’autodeterminazione è potenzialmente l’equivalente, nel migliore dei casi, di discriminazione ed esclusione o, nella peggiore delle ipotesi, di espulsione e pulizia etnica. Se c’è qualcosa di singolare nel sionismo, è che la combinazione di tutti questi fattori si sia protratta per un lungo periodo di tempo.

In effetti, la segregazione sottesa alla supremazia politica ebraica in Israele è stata praticata da sempre: attraverso lo Yishuv (il movimento per gli insediamenti ebraici prima della fondazione dello Stato); nei rapporti di lavoro; nell’Histadrut (il più grande sindacato dei lavoratori di Israele); nei continui insediamenti sul territorio dopo la costituzione dello Stato; e indubbiamente nel regime militare che si è imposto dopo la sua fondazione, in cui Israele ha instaurato 20 anni di un sistema giuridico separato e discriminatorio a danno dei cittadini palestinesi, comprese leggi Jim Crow [leggi di segregazione razziale degli Stati Uniti, NdT], restrizioni sulla circolazione e sugli alloggi e altre limitazioni sulla falsariga dell’apartheid sudafricano, che sono terminate solo nel 1966. Poi è arrivato il progetto di insediamento nei territori occupati dopo il 1967. Pertanto, l’argomentazione contro gli oppositori della legge sullo Stato – Nazione degli Ebrei, proposta dalla destra e ripresa dalla sinistra antisionista, è un’argomentazione che fa riferimento alla continuità e alla coerenza: i governi di destra stanno semplicemente proseguendo sulla strada segnata dai padri fondatori.

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, parla con il ministro della Difesa israeliano nonché leader del partito Yamina, Naftali Bennett, durante un incontro con i capi dei partiti della destra, 4 marzo 2020 (Yonatan Sindel / Flash90)

Sebbene ci sia del vero in queste affermazioni, esse non spiegano perché la Legge sullo Stato Nazione sia stata promulgata 70 anni dopo la costituzione dello Stato invece che immediatamente dopo. Inoltre non spiegano perché la narrativa nazionalista, culminata nella Legge sullo Stato-Nazione, potrebbe segnare una novità all’interno di una lunga storia e di una lunga pratica sionista.

Consacrazione legale dei privilegi ebraici

La spiegazione più diffusa per il progredire di questo nuovo orientamento è che anni di occupazione hanno indebolito i valori liberali in Israele, e i governi nazionalisti di destra sono più forti che mai. Come tale, la destra ora è in grado di mettere in atto la sua ideologia etnocentrica e anti-liberale e di indebolire il carattere democratico delle istituzioni dello Stato.

Un’altra interpretazione sostiene che le argomentazioni nazionaliste servano a puntellare un nuovo progetto elettorale guidato dai partiti politici di destra. Secondo questo punto di vista, la narrazione nazionalista è nata dal crollo dell’ideologia della Grande Israele negli anni ’90, quando la maggioranza della popolazione ebraica arrivò a sostenere un compromesso territoriale. L’evacuazione degli insediamenti della Striscia di Gaza nel 2005 ha causato una grave crisi ideologica nella destra dei coloni (anche se il progetto di insediamento ha continuato a svilupparsi). In questa realtà, il discorso nazionalista ha cominciato a sostituire la logora ideologia massimalista territoriale; con questo discorso, la destra sta tentando di formare una nuova base ideologica per un vasto raggruppamento politico, mentre attacca la legittimità della sinistra e dei cittadini palestinesi di Israele attraverso una continua pratica di istigazione.

La logica è semplice: se non è più efficace parlare della terra indivisibile (come appartenente agli Ebrei), parliamo invece della nazione indivisibile ed evidenziamo i nemici esterni ed interni. Secondo questa interpretazione, l’ondata di leggi antidemocratiche, in particolare la Legge sullo Stato-Nazione ebraico, funziona da propaganda che rafforza la saldatura dell’ala destra attorno a un’agenda etnocentrica. In altre parole, l’energia messianico-nazionalista è diretta verso l’interno piuttosto che verso l’esterno.

C’è un’altra spiegazione per la Legge sullo Stato-Nazione, che attribuisce responsabilità ai Future Vision Documents [documenti scritti da leader palestinesi su un futuro senza discriminazioni, NdT]. Uno di questi documenti, pubblicato nel dicembre 2006 da eminenti cittadini palestinesi di Israele, chiede allo Stato di Israele di liberarsi della sua identità ebraica e diventare “uno Stato di tutti i suoi cittadini”. Gli altri documenti, pubblicati da vari organismi che rappresentano i cittadini palestinesi di Israele, seguono linee più o meno simili. Questi documenti, si sostiene, hanno innalzato l’asticella delle richieste dei cittadini palestinesi e la Legge sullo Stato-Nazione rappresenta una risposta sionista ad esse.

Il capo della Joint List, Ayman Odeh, presenta la lista del partito al comitato elettorale della Knesset prima delle elezioni nazionali. Gerusalemme, 15 gennaio 2020 (Olivier Fitoussi / Flash90)

Si tratta di spiegazioni significative, ma insufficienti. Esse non sono in grado di affrontare la profondità strutturale del sionismo come movimento di insediamento, per il quale la Legge sullo Stato-Nazione degli Ebrei segna una nuova fase. Il nuovo discorso nazionalista/etno-religioso, e in particolare, la nuova legge che è stata promossa con insistenza per molti anni, non sono meramente una riproposizione della storia o la sua diretta continuazione. Non si tratta semplicemente dell’espressione di tendenze antiliberali ed etnocentriche rese possibili dal rafforzamento della destra, o di una semplice reazione ai Future Vision Documents dei Palestinesi. E non intendono solamente creare ulteriori pregiudizi politici o ridefinire i limiti della legittimità politica.

Piuttosto, costituiscono una novità nell’ambito del progetto politico della destra israeliana, venendo incontro all’esigenza di sancire attivamente e legalmente i privilegi ebraici, nonostante il fatto che questi esistano comunque, e di dare loro una nuova struttura costituzionale e una rinnovata solidità. Questo sforzo ha mobilitato con successo una parte significativa della popolazione ebraico-israeliana.

Durante il periodo del Mandato britannico, così come durante il governo militare israeliano esercitato sui cittadini palestinesi di Israele, la separazione tra la popolazione ebraica e quella araba era “naturale” – un effetto secondario del fatto che l’insediamento ebraico si fosse sviluppato, fin dal principio, come una società chiusa, con un ordine politico separato dal suo contesto originario. Nei primi anni di Israele, non c’era bisogno di “attuare la separazione” perché essa esisteva già. Questo era lo status quo e non occorreva nessuna legge per proclamarlo. Ad oggi, ci sono infinite politiche di emarginazione che agiscono in concomitanza e, nel corso degli anni, non è stato necessario puntare su un principio tassativo che facesse da fondamento. Ad esempio, nel 1965 la Corte Suprema ha confermato l’interdizione del movimento palestinese Al Ard dalla partecipazione alle elezioni, sebbene nessuna legge autorizzi il Comitato elettorale centrale israeliano a farlo. La natura ebraica dello Stato era considerata indiscutibile e non richiedeva una attestazione legale.

Oggi, tuttavia, i vecchi strumenti che servivano a conservare la supremazia politica ebraica non sono più sufficienti e c’è bisogno di una separazione attiva e di una fattiva legittimazione. La marginalizzazione non è più il risultato della storia; piuttosto, deve essere inscritta nel corpo politico dal diritto e dalle azioni politiche e deve essere imposta.

Per capire cosa è cambiato e perché ora è necessaria una separazione attiva, dobbiamo esaminare l’evoluzione del concetto stesso di emarginazione, che ha costituito la base del privilegio ebraico nella politica israeliana.

L’illusione del paradigma dei due Stati

Nei suoi primi decenni, lo Stato ebraico si sforzò di contenere all’interno dei suoi confini i Palestinesi che ne diventavano cittadini. In un primo momento, lo Stato cercò di sbarazzarsene, prima con le espulsioni e poi impedendone il rientro. Queste azioni sono continuate fino alla fine degli anni Cinquanta; ricordiamo, per esempio, il massacro di Kufr Qasem del 1956. Dovettero trascorrere un centinaio di anni di conflitto tra il progetto di colonizzazione sionista e i Palestinesi prima che si pensasse veramente alla possibilità di una risoluzione, sotto forma degli accordi di Oslo. In un certo senso, questo processo era già iniziato con le sconfitte palestinesi nelle guerre del 1948 e del 1967. È continuato con la successiva relativa sconfitta di Israele nella guerra dello Yom Kippur del 1973, che ha dimostrato i limiti del potere militare israeliano, e la prima Intifada, iniziata alla fine degli anni ’80, che ha messo in discussione l’immagine di superiorità morale che Israele aveva di se stessa. Questi eventi hanno preparato il terreno per un accordo, o almeno così si pensava. Per un breve periodo, dall’inizio degli anni ’90 fino all’inizio dell’era Netanyahu nel 2009, è sembrato possibile parlare del diritto all’autodeterminazione per entrambi i popoli, e la soluzione dei due Stati sembrava essere a portata di mano.

Il concetto di “due Stati per due popoli”, che è penetrato nella coscienza collettiva israeliana come una soluzione al conflitto ottimale, realistica e attuabile, ha creato un’illusione di separazione tra le due popolazioni, come se fossero entità politiche distinte. Sebbene questa separazione sarebbe dovuta essere attuata pienamente in una non meglio determinata epoca futura e venisse ripetutamente rinviata, gli Israeliani ritenevano che il paradigma dei due Stati implicasse che i Palestinesi nei territori occupati fossero “laggiù”, dall’altra parte del confine, sulla buona strada per avere il loro Stato indipendente, con un inno, una bandiera e prigioni indipendenti, al di fuori della “nostra” responsabilità (cioè del collettivo nazionale ebraico-israeliano). La decisione di Israele di limitare la libertà di movimento dei Palestinesi tra i Territori e Israele durante la Prima Intifada e l’istituzione dell’Autorità Palestinese, ai sensi degli accordi di Oslo, hanno contribuito a questa pratica di separazione.

Con l’impegno di salvaguardare una maggioranza ebraica all’interno dei confini del ’67 –anche se attraverso una soluzione in divenire e non ancora pienamente attuata– risultò più agevole per Israele muoversi, per quanto lentamente e con esitazione, lungo un percorso progressista nel suo atteggiamento nei confronti dei cittadini palestinesi. Questa tendenza si è espressa nella “rivoluzione costituzionale” e nelle politiche del governo Rabin dall’inizio alla metà degli anni ’90. Tali politiche hanno rafforzato la solidità dell’elemento “democratico” all’interno dell’equazione “ebraico e democratico” e hanno iniziato a promuovere la condizione dei Palestinesi come cittadini con uguali diritti, anche se solo in maniera retorica.

Uno degli effetti di questa tendenza fu la sentenza Ka’adan, emessa dalla Corte Suprema nel 2000, che stabiliva come la concessione di terreni riservata esclusivamente agli Ebrei costituisse una discriminazione illegale. Si trattava di una sentenza inadeguata nella sostanza: insufficiente, tardiva, che non fu attuata e che non modificò le politiche fondiarie di Israele. Tuttavia, era un segnale, per quanto debole, della possibilità di apportare cambiamenti –sebbene minoritari– in differenti situazioni future. Ma anche questo, per molti Ebrei israeliani, era inaccettabile.

Una marcia di cittadini palestinesi di Israele per commemorare l’uccisione di 13 manifestanti da parte della polizia nell’ottobre 2000.  Sakhnin, 1 ottobre 2015. (Omar Sameer/Activestills.org)

Questo periodo, che era di parziale ottimismo per i cittadini palestinesi e per i diritti umani e civili in Israele, continuò fino all’inizio del 21° secolo quando, durante il governo di Ehud Barak, si scatenò la Seconda Intifada e nell’ottobre 2000 la polizia israeliana uccise 13 cittadini palestinesi che stavano manifestando. Questo fatto segnò una nuova rottura rispetto alla posizione dei Palestinesi nella società israeliana. Qualche anno dopo, con Netanyahu al comando, si sviluppò la  tendenza di aizzare continuamente contro i i cittadini palestinesi d’Israele e ogni cauto ottimismo si dissolse.

Dalla separazione alla segregazione

Dopo che il raggiungimento di un accordo permanente attraverso i Trattati di Oslo era fallito, sopraggiunse il collasso del Summit di Camp David nel 2000 e la dichiarazione di Barak che non c’era “nessun partner per la pace”. Poi ci fu il disimpegno da Gaza nel 2005, seguito dalla insurrezione di Hamas nella Striscia, il nuovo mandato di  Netanyahu come Primo Ministro nel 2009 e l’ascesa del suo governo di destra durante il decennio successivo. Il paradigma dei due Stati si stava progressivamente indebolendo e si potrebbe dire che non abbia mai avuto speranza di realizzarsi.

Lo sgretolarsi dell’idea dei due Stati mentre la Green Line diventava sempre più sbiadita portò ad una singola entità geo-politica de facto, nella quale entrambe le popolazioni erano in una qualche misura mescolate. La netta distinzione fra i Palestinesi “là” e gli Ebrei israeliani “qua” divenne vaga. In precedenza, la soluzione dei due Stati aveva creato l’illusione di una separazione in due entità indipendenti e aveva tolto i Palestinesi dalla responsabilità politica israeliana; ora diminuiva anche questa rasserenante sensazione. Prima, si poteva affermare che i Palestinesi nei Territori andavano verso un loro Stato separato e indipendente; ora è diventato chiaro che i Territori fanno parte di un grande Israele de facto, e così è per i Palestinesi.

Oggi due gruppi hanno un ruolo prominente tra il Giordano e il Mar Mediterraneo: i cittadini palestinesi di Israele e i coloni ebrei nei Territori Occupati. I cittadini palestinesi che sono rimasti nonostante la Nakba, hanno vissuto per anni ai margini della politica israeliana che ha tollerato la loro presenza marginale; per un certo periodo la separazione non era istituzionalizzata. Negli ultimi 20 anni, comunque, i Palestinesi hanno guadagnato potere nella Knesset, sulla scena politica e nell’economia. Sono stati in grado di usare gli strumenti legali per le loro battaglie, ciò che è un importante sebbene limitato successo.

In questa situazione, uno Stato che garantisce uno status privilegiato agli Ebrei non è più considerato come un fenomeno ovvio. I coloni ebrei, da parte loro, hanno rafforzato la loro presenza nei territori occupati e non sono più abitanti marginali o temporanei. Più la loro presenza nei territori occupati è percepita come normale, più essi fanno sì che i territori confluiscano in Israele, creando una nuova unità geografica.

Tutto ciò sembrerebbe la realizzazione del sogno dei coloni dell’ala conservatrice: la visione di un unico grande Israele unito, de facto se non de jure. Ma la destra israeliana ha dovuto pagare un prezzo significativo per questo successo: in questo spazio unificato (unificato solo per gli Ebrei, perché i Palestinesi non vi possono circolare liberamente), la maggioranza ebraica non è più ovvia. Il progetto delle colonie ripropone il problema che il sionismo risolse mediante l’espulsione nel 1948.

Ora spetta alla destra dei coloni dare una risposta alla mescolanza di popolazioni che minaccia lo Stato israeliano e offrire una prospettiva positiva per gli anni avvenire. Espellere i Palestinesi dai Territori non è più un’opzione che possa essere discussa apertamente; neppure può essere offerta ai Palestinesi la piena cittadinanza (anche se questa possibilità viene sbandierata per ragioni di propaganda). La prima opzione è insostenibile a causa della pressione internazionale, la seconda per via degli Ebrei. Siamo bloccati nella situazione che c’era durante il mandato britannico: un’entità geopolitica con due popolazioni mescolate al suo interno. Questa volta però non siamo sotto il mandato britannico, bensì sotto la legge israeliana.

Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu rende una dichiarazione alla stampa sull’applicazione della sovranità israeliana sulla Valle del Giordano e sulle colonie ebraiche. Ramat Gan, 10 settembre 2019. (Hadas Parush/Flash90)

Tutto ciò aiuta a chiarire il ruolo del nuovo discorso nazionalista/etno-religioso: è un discorso di segregazione. Secondo l’idea sionista prevalente in Israele, la legittimazione del privilegio ebraico all’interno dei confini del ’67 era in gran parte basata sull’esistenza di una maggioranza ebraica, creata dall’espulsione, dalla fuga e dalla preclusione al ritorno per i Palestinesi. Era, inoltre, basata su un ordine politico con caratteristiche democratiche, sebbene ancora limitate, discriminatorie e diseguali.

Anche in presenza dello sgretolamento del paradigma dei due Stati, dello sbiadire della Green Line e dei continui sforzi di estendere lo Stato ebraico sulla totalità del Grande Israele, la destra dei coloni sente il bisogno di definire i privilegi ebraici, questa volta all’interno di un regime palesemente non democratico fra il fiume e il mare che sarebbe basato su una minoranza ebraica. L’espulsione del 1948, che era una soluzione al problema demografico, non è più praticabile e quindi sorge il bisogno di stabilire un novello regime di apartheid. La legge sullo Stato-Nazione degli Ebrei rappresenta il cuore di questo tentativo.

A differenza del classico discorso sul Grande Israele, che era incentrato sul concetto di ”unire” due regimi divisi in due territori separati –Israele e i territori occupati– il nuovo discorso è un tentativo di spingere verso la segregazione legale di due popoli mescolati all’interno della stessa cornice territoriale. Quindi, questo discorso e la legislazione che lo accompagna non sono solo una risposta al crollo dell’ideologia del Grande Israele, ma anche un tentativo di competere con l’enorme successo del progetto degli insediamenti, che ha dato origine ad un’entità territoriale unificata. La segregazione ispirata dalla legge non è una divisione fra “qui” e “là” bensì fra “noi” e “loro” – fra Ebrei e Palestinesi, non importa dove vivano fra il Mediterraneo e il Giordano. Non è basata sul dividere il territorio in due parti, bensì sul dividere due popoli all’interno di uno stesso territorio.

È vero che il paradigma dei due Stati è anche un paradigma di separazione, ma di separazione tra due distinte strutture politiche. L’apartheid, invece, divide popolazioni che condividono un territorio all’interno di una sovranità politica onnicomprensiva. Agendo all’interno di un’unica entità, tale separazione è chirurgica, ovvero violenta e distruttiva.

La legge dello Stato-Nazione ebraico, la realizzazione su vasta scala del nuovo discorso nazionalistico, è differente da ogni altra iniziativa legislativa perché collega due tipi di segregazione: la divisione fra Ebrei e cittadini palestinesi di Israele e la divisione nei territori occupati fra i coloni ebrei, che sono cittadini, e i Palestinesi, che non sono cittadini ma vivono nello stesso territorio. In quanto tale, la questione di uno Stato ebraico democratico e del Grande Israele –la questione interna e quella esterna– diventano due aspetti dello stesso progetto: legittimare i privilegi degli Ebrei sui Palestinesi tra il fiume e il mare.

Un unico regime dittatoriale

Nel gennaio 2020, poco più di un mese prima della terza elezione israeliana nell’arco di un anno,  Donald Trump e Benjamin Netanyahu svelano il loro piano di annessione. Visto che si tratta di uno scostamento significativo dalla strategia di Netanyahu –una strategia che, per definizione, non mira a terminare il conflitto– il piano si adatta alla tesi delineata sopra?

Nonostante il fatto che il piano provenga da due sfrontati conservatori con una mentalità coloniale, i suoi dettagli vengono ripresi da quelli dell’area di centro-sinistra degli anni di Oslo. In ultima analisi, il piano parla di uno “Stato palestinese” e di non sradicare neanche un singolo Palestinese e considera la Cisgiordania e Gaza come un’unica entità. Parla di sovranità, per quanto incompleta e imperfetta, per un’entità palestinese.

In realtà il piano parla abbastanza chiaramente di apartheid. Esso propone una separazione geografica fra il territorio israeliano e il territorio sotto l’Autorità Palestinese; tuttavia occorre distinguere qui fra segregazione entro una unità e separazione di due Stati indipendenti. La segregazione implica che ci sia una singola struttura amministrativa, legale, costituzionale e concettuale che diversifica fra differenti gruppi all’interno di un’unica unità territoriale e politica. La separazione, dall’altro lato, implica due entità politiche indipendenti che operano indipendentemente ed esistono in spazi politici e geografici separati. Il piano di Trump ufficialmente parla di separazione e di uno Stato palestinese, ma, nei fatti, rappresenta qualcosa che sembra piuttosto una segregazione sotto un unico regime.

Coloni ebrei mascherati partecipano alla tradizionale parata annuale per i festeggiamenti ebraici del Purim nell’insediamento di Hebron nella Cisgiordania occupata, 1 marzo 2018. (Hadas Parush/Flash90)

Mettendo da parte per un momento il fatto che il piano proposto era essenzialmente una strategia al servizio di Netanyahu e di Trump che potrebbe benissimo essere storia nel prossimo futuro, si può vedere che poggia sui principi base del nuovo discorso nazionalista/etno-religioso. Con lo svanire della Green Line e il ritorno della minaccia demografica, la logica della separazione dai Palestinesi è stata abbandonata e rimpiazzata con la logica di un regime di segregazione. Si tratta di un regime nel quale un gruppo chiaramente domina sull’altro e nel quale la dominazione è completa e permanente, piuttosto che temporanea e basata sulla sicurezza, ed è mantenuta dal sistema legale e rinforzata da uno Stato violento e potente.

Questa logica dominante e il fatto che il piano è programmato per la segregazione diviene chiaro se si guarda la mappa inclusa nella proposta. L’entità palestinese è circondata da tutte le parti dalla sovranità israeliana: in aria e sul suolo, da nord, da sud, da est e da ovest. La segregazione basata sull’etnia, sulla religione e sulla nazionalità, piuttosto che sul territorio, è complementare con altri due aspetti del piano che rispecchiano la scomparsa della Green Line:  il trattamento dei coloni e dei cittadini palestinesi in Israele.

Gli accordi di Oslo, nonostante i loro molti difetti, almeno approcciavano la cittadinanza palestinese come un dato di fatto e gli insediamenti ebraici come un problema che richiedeva una soluzione. Invece, il piano attuale scarta la logica territoriale e tratta la cittadinanza dei Palestinesi come un problema da risolvere e lo status dei coloni come un dato di fatto immutabile. Questo spostamento offre inoltre la possibilità di un cambiamento dei confini interni dello Stato unico, che si estende e si restringe secondo necessità, in base a considerazioni di tipo etnico e non territoriale. Ovviamente gli accordi di Oslo e il piano attuale condividono certe caratteristiche: ma questo articolo evidenzia le loro differenze per poter identificare l’innovazione che si ispira alla legge dello Stato-Nazione degli Ebrei.

In sostanza, le differenze fra il discorso dei coloni delineato sopra e il piano di Trump sono terminologiche, principalmente riguardo all’uso dell’espressione “Stato palestinese”. Ciò può essere riassunto come segue: all’inizio, il paradigma dei due Stati giustificava la realtà esistente della segregazione –ovvero, l’apartheid– attraverso continui passi (anche se per lo più immaginati) verso una separazione negoziata politicamente. Questo è stato rimpiazzato nel decennio passato dalla strategia di Netanyahu nella gestione del conflitto, che era caratterizzata da una realtà di segregazione giustificata dal discorso etno-nazionalista.

Per concludere, il piano Trump-Netanyahu ha offerto un’altra variazione sullo stesso tema: presentare la segregazione come fosse separazione. È un ulteriore esempio dei differenti modi per negare l’esistenza di un unico regime dittatoriale fra il fiume e il mare, con privilegi e supremazia da parte di un gruppo su un altro gruppo. Offre una novità solo nel fatto che si scosta dal paradigma della gestione del conflitto, al fine di imporre una visione israelo-americana a senso unico per “terminare” il conflitto o piuttosto per eliminarlo senza però risolverlo.

Il dottor Raef Zreik è un giurista e ricercatore, esperto in Filosofia politica e Filosofia del diritto, professore ordinario in Diritto della proprietà e Giurisprudenza presso l’ ONO Academic College, direttore accademico associato presso il Centro Minerva per gli Studi umanistici dell’Università di Tel Aviv e ricercatore associato senior presso l’Istituto Van Leer di Gerusalemme.

https://www.972mag.com/israeli-right-jewish-supremacy-segregation/

Traduzione di Daniela Marrapese e Gigliola Albertano – AssopacePalestina

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