Tutti allineati: Perché la Seconda Intifada è stato un momento di svolta per i media israeliani

di Meron Rapoport

+972magazine, 7 ottobre 2020.

Lavorando per un importante giornale israeliano durante la rivolta, ho visto in prima persona come i media si sono trasformati in un portavoce della propaganda governativa.

Un giornalista televisivo documenta le proteste nella Cisgiordania occupata durante la Seconda Intifada, 8 ottobre 2000. (Oded Baliti/GPO)

Durante i giorni della Seconda Intifada lavoravo a Yedioth Ahronoth, a quei tempi il giornale più popolare e influente d’Israele. Con oltre 400.000 copie che circolavano quotidianamente, sia i giornalisti che gli editori di Yedioth andavano in giro con la sensazione di essere “il giornale del paese”, che stava plasmando il consenso israeliano sulle questioni più pressanti.

Come capo dei reporter e successivamente come capo redattore, ho assistito da vicino al funzionamento del meccanismo di costruzione del consenso di Yedioth. È stato in quei giorni che ho visto anche come il giornale stesse cambiando direzione escludendo o distorcendo completamente le voci dei Palestinesi nei media. Dopo gli anni di Oslo, gli Israeliani cominciavano ad apprendere che c’era un solo schieramento in questo conflitto, ed era il loro.

Prima della Seconda Intifada, il giornalismo tradizionale israeliano poteva essere visto come una strada a due corsie con ampi margini. Si poteva guidare lungo i margini e ancora in qualche modo restare parte della corrente generale. Durante l’intifada, invece, i media si sono trasformati improvvisamente in una strada a senso unico senza margini. Chiunque si sia spostato ai margini, come me, è stato cacciato.

La Seconda Intifada è scoppiata con le proteste contro la passeggiata di Ariel Sharon al Monte del Tempio/Haram al-Sharif il 28 settembre 2000, e dopo che le forze di sicurezza israeliane uccisero almeno quattro fedeli palestinesi il giorno successivo.

Quelle morti sono state seguite da altre decine in tutta la Cisgiordania e Gaza, ma molti Israeliani ebrei ne hanno sentito parlare solo due giorni dopo. Migliaia di persone tornavano a casa dalle loro vacanze del Rosh Hashana (festività ebraica) nel nord di Israele quando scoprirono che le principali strade del Paese erano bloccate a causa delle manifestazioni di solidarietà dei Palestinesi cittadini di Israele.

La rabbia era palpabile. Ricordo uno dei maggiori redattori del giornale, che è stato poi promosso ad una posizione ancora più alta, che raccontò ai nostri colleghi della redazione come aveva dovuto fare una deviazione di 125 miglia attraverso la Valle del Giordano per arrivare a Tel Aviv. E i titoli riflettevano questa realtà: gli ingorghi sono stati oggetto di molta attenzione nei media, mentre i giornali dedicavano molto meno spazio al fatto che 13 Palestinesi –12 dei quali cittadini israeliani– erano stati uccisi dalla polizia durante le proteste, in quelli che spesso vengono chiamati omicidi dell’ottobre 2000.

Un ufficiale di polizia israeliano a cavallo si lancia su dei cittadini palestinesi durate una protesta avvenuta nei primi giorni della Seconda Intifada, 20 ottobre 2020 (Flash90)

Dal mio punto di vista c’è stato un evento specifico che ha simboleggiato il cambiamento di direzione. Nel marzo 2002 un carro armato israeliano ha cannoneggiato un camioncino nel centro di Ramallah, presumibilmente per uccidere un Palestinese “ricercato”. Una donna palestinese e i suoi tre figli che erano nel veicolo sono stati uccisi, così come altri due bambini in un’altra auto. Lo stesso giorno, il capo della Mezzaluna Rossa (Croce Rossa musulmana) e un autista di ambulanza palestinese sono stati uccisi dai soldati israeliani a Jenin.

In entrambi i casi il portavoce dell’esercito israeliano (IDF) ha ammesso che le uccisioni erano state un “errore”. Poiché l’IDF si è scusato per le “lesioni causate agli innocenti” in entrambi gli incidenti, ho chiesto, come capo della redazione, che Yedioth pubblicasse i nomi, l’età e la residenza delle vittime. Il giorno dopo il giornale è stato inondato di telefonate di persone arrabbiate.

Quando sono stato licenziato un anno e mezzo più tardi, l’incidente è stato ricordato durante un incontro di mediazione come prova del mio “orientamento politico di sinistra”, cosa che era inaccettabile per il giornale.

Una stampa sotto condizionamenti

La Seconda Intifada è stata dunque uno spartiacque nell’atteggiamento dei principali media israeliani nei confronti del conflitto? È stato questo il momento in cui l’informazione si è trasformata in una strada a senso unico, oppure i media israeliani sono sempre stati così? La Seconda Intifada ha prodotto un cambiamento in peggio o magari in meglio, come hanno affermato alcuni ricercatori?

Nel suo libro “Giornali sotto influenza”, pubblicato nel 2001 al culmine della Seconda Intifada, il Prof. Daniel Dor, che insegna comunicazione all’Università di Tel Aviv, ha analizzato il modo in cui i più grandi mezzi d’informazione israeliani hanno coperto i primi mesi della rivolta.

Un fotografo riprende dei manifestanti palestinesi durante la Seconda Intifada vicino alla Porta dei Leoni a Gerusalemme, 6 ottobre 2000. (Oded Baliti/GPO)

“Il ritratto della stampa israeliana, come emerge da questo libro, è quello di una stampa sotto condizionamenti”, ha scritto Dor nell’introduzione. “Una stampa che opera sotto l’influenza della paura, l’influenza della rabbia, l’influenza dell’odio, e l’influenza dell’ignoranza, e soprattutto sotto l’influenza del massiccio sistema di propaganda che il Primo Ministro Ehud Barak e i membri delle istituzioni di difesa hanno portato avanti per tutto il mese [di ottobre 2000] e anche successivamente.

“Sotto l’influenza congiunta di tutti questi fattori, la stampa israeliana ha fornito ai suoi lettori un’immagine monodimensionale, distorta, errata del corso degli eventi – un’immagine che, pur allineandosi agli obiettivi di propaganda di Ehud Barak, alimentava i sentimenti collettivi di angoscia dei lettori e che difficilmente rifletteva la realtà così com’era”.

In una telefonata verso la fine del mese scorso, Dor non ha ritrattato le affermazioni fatte 20 anni fa. Egli, tuttavia, crede che lo spartiacque sia arrivato anche prima. Invece dell’ottobre cita il luglio 2000 come il momento in cui tutto è cambiato, ovvero quando Ehud Barak ha lasciato il vertice di Camp David incolpando il presidente dell’OLP Yasser Arafat del fallimento dei colloqui di pace. È allora che la tesi “non c’è un partner” di Barak ha preso vita.

Fino ad allora, dice Dor, “c’era consenso generale sul fatto che il dibattito sulla questione dei territori occupati fosse tra la sinistra sionista e la destra sionista”, ma dopo la dichiarazione di Barak, quella storia è finita. “La dichiarazione “non c’è un partner”  di Barak ha avuto un effetto decisivo” continua Dor. “Ha creato un senso di unità tra il popolo che non esisteva da decenni”.

Il Primo Ministro israeliano Ehud Barak, il Presidente degli stati Uniti Bill Clinton ed il Capo dell’OLP Yasser Arafat all’apertura del Summit di Camp David negli Stati Uniti, 11 luglio 2000. (Avi Ohayon/GPO)

Se un primo ministro di destra fosse tornato dal vertice con una tale dichiarazione, sostiene Dor, la sinistra lo avrebbe criticato per aver rovinato le prospettive di pace. Ma quando una tale dichiarazione è arrivata da un Primo Ministro di “sinistra”, ha avuto un effetto diverso, in particolare sui giornalisti.

“C’era una sensazione generale nelle redazioni che ciò a cui eravamo abituati fosse sbagliato,” dice, “che fossimo troppo di sinistra, e che credessimo in Arafat e sostenessimo gli Accordi di Oslo. Era arrivato il momento di allinearsi con la politica [del governo]”.

Un primo esempio dell’impatto sulla sinistra sionista della tesi “non c’è un partner” di Barak, prosegue Dor, è stato un articolo dell’ex giornalista di Haaretz Ari Shavit intitolato “La Rivoluzione Copernicana di Barak“, pubblicato verso la fine dell’ottobre 2000. Secondo Shavit, con l’inizio della Seconda Intifada tutti gli Israeliani “hanno dovuto guardare dritto negli occhi la stessa crudele realtà che Ehud Barak aveva rivelato. Quella incarnata da Yasser Arafat. La prima conclusione della rivoluzione copernicana di Barak è che non ci può essere una soluzione al conflitto israelo-palestinese”. Questo articolo, sostiene Dor, ha avuto un enorme impatto sui redattori dei maggiori giornali israeliani.

Uniformarsi al consenso generale

Una delle scoperte più interessanti del libro di Dor è stata il divario tra l’effettivo contenuto delle notizie pubblicate sulla stampa nei primi mesi dell’Intifada e i titoli e le foto che li accompagnavano. In molti casi, i giornalisti hanno inviato articoli che dipingevano un quadro complesso della realtà in Israele e nei Territori Occupati; eppure i titoli dati a quegli articoli si concentravano su un elemento della storia che molto spesso presentava i Palestinesi come gli unici colpevoli e gli Israeliani, soprattutto Barak, come quelli in cerca di pace.

Dor si è concentrato sulle notizie piuttosto che su articoli o elementi di opinione, supponendo che le notizie quotidiane siano ciò che plasma le ideologie delle persone. “Si doveva riportare una storia che si adattasse perfettamente al consenso generale”, dice Dor. Ecco perché quando Barak ha dichiarato che non c’era un “partner per la pace” tra i Palestinesi, i titoli sono cambiati di conseguenza per riflettere quel nuovo modo di pensare.

Soldati israeliani che indossano maschere antigas dopo essere arrivati a Ramallah dove i manifestanti palestinesi stavano lanciando gas lacrimogeni durante i primi giorni della Seconda Intifada , 24 ottobre 2000. (Nati Shohat/Flash90)

All’inizio dell’intifada, scrive Dor, i giornalisti delle tre principali testate israeliane – Yedioth, Ma’ariv e Haaretz –sono scesi in campo per chiedere alla gente come fosse scoppiata la rivolta. Nove delle dieci fonti con cui hanno parlato – nello Stato maggiore dell’IDF, nella Direzione dell’Intelligence Militare, nella polizia, nello Shin Bet, e tra i Palestinesi – hanno detto che la rivolta era stata spontanea. L’Ufficio del Primo Ministro fu l’unico ad affermare che l’Intifada era stata orchestrata da Arafat, ma questa fu la versione degli eventi che i titoli di Yedioth, Haaretz e Ma’ariv riportarono.

Yossi Ben-Ari, un ex membro di alto rango del servizio d’intelligence israeliano incaricato di esaminare tutto il materiale di intelligence per scoprire chi “avesse dato l’ordine” di iniziare l’Intifada, ha scritto, in un articolo pubblicato la scorsa settimana su Haaretz, che non ha potuto trovare alcun indizio che Arafat o qualsiasi altro leader palestinese avesse pianificato la rivolta.

In un altro caso, quando alla fine del 2000 si sparse la notizia che l’Autorità Palestinese aveva scarcerato due leader dell’ala militare di Hamas, Yedioth pubblicò un articolo in cui non era chiaro se i leader fossero stati effettivamente rilasciati o se fossero stati trasferiti in un’altra prigione. Il titolo, tuttavia, era inequivocabile: “Gli assassini di massa liberati dalla prigione, Arafat ha dato il via libera al terrorismo.”

Anche questo titolo, sostiene Dor, ha avuto un enorme impatto.

Nel marzo 2002, a seguito dell’annuncio dell’Iniziativa di Pace Araba, che proponeva un accordo di pace completo con Israele in cambio della creazione di uno Stato palestinese, il titolo di prima pagina di Yedioth riportava: “Un messaggio minaccioso da Beirut.”

“Hanno smesso di considerare i Palestinesi come degli esseri umani”

La giornalista israeliana Anat Saragusti era la reporter di Canale 2 nella Striscia di Gaza quando è scoppiata la Seconda Intifada. Oltre ad Amira Hass di Haaretz, Saragusti è stata l’unico giornalista a riferire dalle aree sotto il controllo dell’Autorità Palestinese.

Canale 2 ha iniziato a trasmettere nel novembre 1993, poco dopo la firma degli Accordi di Oslo. Forse adeguandosi all’atmosfera generale di riconciliazione del tempo, i capi del canale televisivo hanno deciso di mandare Saragusti nei Territori Occupati. “Mi muovevo liberamente, i bambini gridavano ‘È quella di Canale 2!'” racconta lei.

Per Saragusti il più grande cambiamento causato dall’Intifada è stato il modo in cui i giornalisti hanno cominciato a prendere l’imbeccata dai militari che li informavano. “Hanno smesso di vedere i Palestinesi come esseri umani. Hanno smesso di scrivere articoli sui matrimoni o sull’educazione speciale [nella società palestinese]. I Palestinesi sono stati raccontati solo attraverso il prisma del conflitto, che stessero minacciando o meno. Una volta che le informazioni hanno iniziato a provenire dai militari, c’è stato sempre meno spazio per la narrazione palestinese; fino a che non è scomparsa del tutto.”

Secondo Saragusti la diminuita copertura della vita palestinese è avvenuta per ragioni fuori dal suo controllo. “Prima dell’Intifada avevo una linea diretta [con i Palestinesi]. Avevo fonti a Gaza e anche i Palestinesi avevano il desiderio di parlare [ai media israeliani]”, dice. Ma ad un certo punto divenne difficile raggiungere la Striscia, sia a causa delle restrizioni dell’esercito, sia perché “cominciavo a sentirmi a disagio, le tensioni aumentavano, Hamas diventava più potente”.

Oggi Saragusti non copre più i territori occupati, ma le è chiaro che la copertura dei media israeliani sui Palestinesi e sull’occupazione è in condizioni molto peggiori rispetto a prima dell’Intifada. “Gli Israeliani non hanno alcun interesse verso i Palestinesi e i Palestinesi non sono interessati a parlare con i media israeliani”.

Il giornalista e scrittore Yigal Sarna lavorava per Yedioth quando è scoppiata la rivolta e, fino alla Seconda Intifada, ha viaggiato spesso per i Territori Occupati scrivendo per l’inserto del giornale. Condivide le affermazioni di Saragusti sul desiderio e la volontà dei Palestinesi di parlare con gli Israeliani prima dell’Intifada. “Mi ricordo che [il leader  palestinese attualmente in carcere] Marwan Barghouti una volta mi disse: “Mi alzo la mattina e guardo verso ovest.”

Poiché Sarna scriveva per gli inserti di Yedioth Ahronoth, non ha subito la stessa pressione dei giornalisti, ma anche lui ha sentito il cambiamento.

“Il nostro rapporto amore-odio con i Palestinesi era finito – aggiunge. “Le bombe sugli autobus hanno cambiato il modo in cui li abbiamo trattati. Sono diventati subumani. I giornali non riuscivano ad affrontare la terribile natura degli attacchi. Avevamo bisogno di trasformare i Palestinesi in mostri”.

Un israeliano ferito riceve le prime cure accanto ai resti di un autobus distrutto dopo che un suicida palestinese si è fatto saltare in aria a Gerusalemme, vicino alla residenza ufficiale del Primo Ministro israeliano Ariel Sharon, 29 gennaio 2004. (Haim Zach/Flash90)

Sarna, che era già un giornalista durante la Prima Intifada iniziata nel 1987, ricorda come i media israeliani fossero aperti alle voci dei Palestinesi. “Era legittimo. C’era molta ipocrisia, ma anche sensi di colpa. Per esempio, una volta ho scritto una storia in prima pagina sull’infanzia di Arafat.”

Sarna ha continuato a viaggiare nei Territori Occupati durante la Seconda Intifada, ma era diventato più difficile “vendere” quelle storie al giornale. “Erano chiaramente insoddisfatti. Noni [Arnon Mozes, l’editore di Yedioth Ahronoth] mi disse: Non essere Gideon Levy”, riferendosi al reporter di Haaretz che ha coperto i Territori Occupati per gran parte della sua carriera.

Come Saragusti, anche Sarna descrive come sia diventato man mano più difficile parlare con la parte palestinese, anche con i rappresentanti di Fatah, con i quali aveva buoni rapporti. “È così tragico. Forse ingannavamo noi stessi, ma abbiamo avuto una relazione toccante con loro.”

Un’informazione orientata alla sicurezza

Oggi, naturalmente, la stampa si concentra su altre questioni. Sarna collega ciò sia all’aumento di una cultura basata sul numero degli ascolti televisivi, sia ai cambiamenti politici che si sono verificati in Israele da allora. Come il governo israeliano, anche l’industria mediatica tradizionale israeliana si sta muovendo verso destra.

Quando contrappongo lo shock del pubblico israeliano per le notizie di soldati israeliani che picchiavano i Palestinesi durante la Prima Intifada all’apatia dei media verso l’uccisione dei Palestinesi durante la Seconda Intifada, Dor versa acqua fredda su tutta la mia tesi romantica.

“Una storia sui soldati che picchiano i Palestinesi è ancora una storia su di noi, sull’effetto che ciò ha su di noi. Non è una storia sui Palestinesi”, risponde.

In questo senso, come mi hanno detto altri giornalisti, la Seconda Intifada potrebbe non aver portato alcun reale cambiamento nei media israeliani. “Ai media non sono mai piaciuti i Palestinesi; i media si preoccupano della sicurezza,” mi ha detto Yossi Ein Dor, ex reporter e presentatore televisivo di Canale 2. “Non capisco perché la cosa ti sorprenda così tanto.”

https://www.972mag.com/israeli-media-second-intifada/

Traduzione di Giulia Dimonopoli – AssopacePalestina

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