Haaretz, 15 ottobre 2020.
“Secondo la letteratura medica, è nella categoria della morte clinica”, mi ha detto il medico. “La morte sta arrivando, è solo una questione di quando”, ha detto l’avvocata Ahlam Hadad all’inizio del suo intervento davanti all’Alta Corte di Giustizia.
La persona “clinicamente morta” è il suo cliente, Maher Akhras, 49 anni, del villaggio di Silat al-Dhahr nel distretto di Jenin in Cisgiordania. È in sciopero della fame da quasi 80 giorni per protestare contro la sua detenzione amministrativa e ora giace morente nel Kaplan Hospital di Rehovot. Il 12 ottobre, per la seconda volta, la corte ha respinto la sua richiesta di essere dimesso dall’ospedale, dove è tenuto contro la sua volontà.
Ho assistito alla lunga udienza nella vasta, imponente aula di tribunale, sforzandomi di cogliere tutti i dettagli eruditi sulla precisa posizione legale di una persona i cui giorni sono contati se non viene immediatamente rilasciata. Ho una copia del verbale e la sua lettura mi ha confermato ancora una volta quel che già sapevo quando mi sono seduta lì: non c’è giustizia qui, solo un travisamento della giustizia.
E ho perso ogni speranza. Non speranza di carità o di un grido che alla fine si levi verso il cielo, dentro o fuori le mura di questa imponente aula, “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene” (Isaia 5:20). Ma ho perso speranza per l’intero sistema giudiziario, militare e civile israeliano, che tiene i Palestinesi nella sua morsa e li chiude in trappola nelle loro città e villaggi, che li priva delle loro terre, li manda a marcire in prigione a decine di migliaia sulla base di leggi e regolamenti che un potere occupante non ha l’autorità di decretare: l’intero sistema è il male, l’incarnazione del male.
Ma, citando il poeta Meir Wieseltier, come può un tale grido provenire da persone “per le quali la verità in casa è come un cadavere in casa”?
Quel poco che è stato raccontato da Haaretz a proposito di Akhras (che potrebbe non essere tra i vivi al momento della pubblicazione di questo pezzo) si può leggere nell’articolo informativo di Hagar Shezaf “Con la sua detenzione amministrativa bloccata, un Palestinese continua lo sciopero della fame in ospedale” (Haaretz.com, 30 settembre). Due settimane critiche sono passate da allora.
Per me, la tragedia di quell’uomo –e che possa egli ancora vivere– serve come un esempio. Un esempio della tragedia e il crimine che va avanti da 53 anni con il patrocinio del sistema giudiziario israeliano. La gente dice: È stato arrestato in detenzione amministrativa. Ma in tutti questi anni una moltitudine di Palestinesi sono stati arrestati e messi in detenzione amministrativa, senza processo. Lo Shin Bet e l’esercito sono gli accusatori e gli arbitri e non si sa di cosa o perché. Eppure, i difensori dei diritti umani si aggrappano ancora a una realtà che è interamente falsa. Dicono: la detenzione amministrativa non soddisfa i criteri di una corte di giustizia in una democrazia. E io chiedo: Cosa ha a che fare una corte di giustizia con i Palestinesi che per decenni sono nati e morti sotto un regime militare?
In tribunale è stato detto che, secondo informazioni riservate dell’intelligence, Makhras è coinvolto in “attività organizzative che mettono a repentaglio la sicurezza dell’area”. Ho presenziato a decine di processi militari – non solo per detenuti amministrativi – in cui veniva fatta la stessa dichiarazione, sia che le informazioni fossero riservate o non riservate, sia che i detenuti confessassero volontariamente per raggiungere un “patteggiamento”, sia che la confessione venisse loro estorta con la tortura. È tutto scritto e documentato, ma pochi Israeliani lo vogliono sapere.
A parte una manciata di donne israeliane (e nessun uomo, come è successo anche ieri in tribunale), le aule di tribunale sono prive di spettatori. E io chiedo: Queste sentenze, questi arresti di massa basati su lunghi elenchi di informatori, cosa hanno a che fare con la sicurezza regionale? Non sono state uccise qui migliaia di persone – civili e soldati, donne e uomini, vecchi e bambini – in tutti questi anni? Sono i tribunali e le ridicole udienze che vi hanno luogo sul destino dei Palestinesi la cosa che porrà fine a questo bagno di sangue?
Affermano che il detenuto è membro di una “organizzazione illegale”. Lo stesso è stato detto durante il suo sciopero della fame. Egli nega e la sua avvocata cerca di provarlo. Ha dichiarato che non è membro di alcuna organizzazione. E io chiedo: Cosa c’entra la legalità con la criminalizzazione di centinaia di organizzazioni palestinesi, la maggior parte delle quali sono organizzazioni civili? Sostengono il terrore, incitano al terrore nei social media, essi dicono. (Vedi il caso di Dareen Tatour e la sua poesia “Resisti, mio popolo”.) Proprio questi sono i terroristi, dicono, lanciano pietre, accoltellano, minacciano con le forbici.
E io pongo la domanda più importante di tutte: Quale diritto ha lo Stato di Israele, le sue leggi e i suoi tribunali di definire cosa siano il terrorismo e l’incitamento al terrorismo e a distinguere tra il terrorismo e la resistenza, tra il terrorismo e una rivolta popolare? Non solo le guerre di Israele e le operazioni militari in Libano e Gaza –nelle quali la maggioranza delle migliaia di vittime furono civili– sono state guerre di terrore, ma la sua intera politica in Cisgiordania è una politica di terrore. Perché sì, se il terrore è guerra contro civili innocenti, allora le punizioni collettive, l’appropriazione di terre, la demolizione di case, scuole e intere aree, dal Negev al sud delle Colline di Hebron e ai quartieri di Gerusalemme, l’arresto di centinaia di migliaia di persone (più di un milione dal 1967) e la continua negazione dei diritti umani e civili sotto un’amministrazione militare, sono tutti atti di terrore.
Recentemente la poesia “Be’emet”, scritta da Meir Wieseltier nel 1968, è stata qui pubblicata e ha ottenuto un nuovo successo quando è stata messa in musica da Adam Horovitz. In questi giorni, Wieseltier ha detto, “Vivo in mezzo al mio popolo. Non parlo dall’interno dei sogni, parlo dall’interno della realtà… Quello fu l’anno in cui la ferocia delle bugie politiche che deriva dalla brama di territorio iniziò a crescere”.
Il giorno dopo –che coincidenza– è stato qui pubblicato un pezzo di Shaul Arieli “Continua la marcia della follia nelle colonie“, Haaretz, 15 ottobre) che, in una prosa elegante, tratta della medesima verità. Arieli, un ricercatore esperto del conflitto israelo-palestinese, apre con la notizia che il Primo Ministro “ha ordinato la convocazione della suprema commissione di pianificazione dell’Amministrazione Civile, allo scopo di approvare un vasto piano di costruzioni” ammontante a 4.500 unità abitative in decine di località della Cisgiordania.
Arieli prosegue offrendo un meticoloso resoconto di come il progetto delle colonie è progredito sin dalla firma degli Accordi di Oslo, concludendo che è vera l’affermazione dei Palestinesi che ogni governo israeliano dopo Oslo ha intrapreso azioni per aumentare la quantità di territorio annesso a Israele a loro spese o, “peggio ancora, creare una realtà che sarà percepita dall’opinione pubblica israeliana come una realtà che non consente alcuna soluzione a due Stati a un prezzo ragionevole per il paese”. Conclude: “La politica di espansione delle colonie in Giudea e Samaria è stata e rimane terribilmente costosa per lo Stato di Israele riguardo alla sua sicurezza, la sua economia e la sua stessa società “.
Questa è la verità del poeta e la verità del ricercatore, ed esiste ormai da due generazioni. Il suo fetore può far ammalare molte persone, ma esse non sanno o non osano fare qualcosa al riguardo. Persino gli avvocati, ebrei e arabi allo stesso modo, cooperano con il sistema giudiziario che ha autorizzato tutte queste cose: le colonie innanzitutto, ma anche l’intero sistema di discriminazione che è stato affinato nel corso del tempo in un perfetto sistema di apartheid.
Non di meno, questi avvocati, che sicuramente vedono il loro lavoro (che è abbastanza degradante, va detto) come una difesa dei diritti umani, continuano a discutere nei tribunali militari e civili israeliani per il diritto dei Palestinesi a vivere nelle loro case, possedere le loro terre e non stare in prigione. Come se il sistema giudiziario di un paese che ha reso milioni di persone soggette al suo dominio militare fosse fatto per proteggerli. Come se il conflitto tra due popoli fosse affare del sistema giudiziario israeliano.
Questa settimana, una parte dell’udienza che riguarda il caso di Akhras si è tenuta a porte chiuse, al più alto livello di questo sistema. Lo Shin Bet e i funzionari dell’intelligence, che sono ugualmente parte di questo sistema, hanno apparentemente persuaso i giudici che lo scioperante della fame in punto di morte è un pericolo per la sicurezza regionale e quindi hanno respinto la petizione per il suo rilascio.
Traduzione di Elisabetta Valento – Assopace Palestina