Grande eccitazione per i festeggiamenti dell’accordo Israele-Emirati Arabi-Bahrain sul prato della Casa Bianca, ma nessuna speranza per la pace, per i Palestinesi o per il Medio Oriente.
di Daniel Levy
The American Prospect,17 settembre 2020.
Tre dei conflitti più distruttivi e devastanti di questo secolo si stanno combattendo in Medio Oriente – in Siria, in Yemen e in Libia. Alla Casa Bianca si tiene una cerimonia per festeggiare un trattato di pace che segna, nelle parole del Presidente Trump, “l’alba di un nuovo Medio Oriente”. C’è quindi qualche speranza per Siria, Yemen o Libia? Spiacente, non c’è nulla per voi (sebbene gli Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti e Israele siano tutti attivi in queste tre aree di conflitto).
A partire dalla sua fondazione, Israele ha combattuto in almeno sei guerre nelle quali erano coinvolti vari paesi arabi, oltre ad almeno altre cinque se si includono le due campagne contro le intifade palestinesi e le intensificazioni periodiche degli scontri con Gaza con la devastazione connessa. Questi conflitti hanno portato complessivamente a decine di migliaia di vittime.
Le solenni firme del trattato di martedì hanno almeno sopito qualcuno di quei conflitti? Ehm, mi dispiace deludervi, ma no, nulla.
Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) e il Bahrain hanno firmato ora i cosiddetti “Accordi di Abramo” sul prato della Casa Bianca, impegnandosi a regolarizzare e ad ampliare i rapporti reciproci con Israele, andando ben oltre i limitati scambi che Israele ha attualmente in corso con l’Egitto e la Giordania. Ma gli EAU e il Bahrain non sono mai stati in guerra con Israele, né hanno mai avuto seri contrasti con Israele; non ci sono dispute territoriali o di altra natura irrisolte, e le loro capitali sono rispettivamente a 1260 miglia ed a 1000 miglia da Gerusalemme.
Sì, sono due stati arabi, ma sono anche stati arabi che hanno avuto collaborazioni durature e profonde con Israele e sono allineati dal punto di vista geopolitico. Sostenere che questa affermazione sia sbrigativa vuol dire fingere ignoranza. Vuol dire classificare erroneamente una realtà esistente come una svolta verso una nuova realtà. E, ancora più importante, vuol dire usare in maniera inappropriata l’idea stessa di pace e di risoluzione dei conflitti, applicandola ad uno sviluppo che non porta ad avanzamenti in nessuna di queste aree.
È insopportabile che Donald Trump sia stato in grado di impacchettare e vendere come “pace” l’avanzamento di relazioni bilaterali tra paesi che non sono coinvolti in alcun conflitto; che poi alcuni leader democratici abbiano ripetuto a pappagallo questa storia è preoccupante.
Migliorare il dialogo ed i rapporti tra paesi è in generale positivo e dovrebbe essere incoraggiato. Israele, gli EAU ed il Bahrain sono certamente liberi di farlo. Ma, oltre all’importanza eccessiva che è stata data ad un evento con conseguenze così limitate, dovrebbe preoccupare il modo in cui i protagonisti principali intendono usare questi nuovi rapporti.
In un’area piena di conflitti, in alcuni dei quali sono coinvolti i firmatari dell’accordo di martedì (in misura minore il Bahrain), questi nuovi accordi non portano alcun progresso nella direzione della pace in alcun conflitto.
Gli EAU e Israele negli ultimi anni hanno compiuto attacchi militari, supportato o guidato colpi di stato o controrivoluzioni e ostacolato transizioni democratiche nel territorio di almeno dieci altri stati riconosciuti come membri della Lega Araba (Yemen, Libia, Iraq, Siria, Libano, Egitto, Palestina, Sudan e Tunisia, oltre allo stesso Bahrain e probabilmente al Qatar). In nessuno di questi casi gli EAU ed Israele si trovano in schieramenti opposti. Nessuna di queste situazioni trarrà beneficio dagli accordi firmati.
Gli accordi di Abramo vanno intesi come un richiamo e una formalizzazione di realtà esistenti nell’area piuttosto che come un cambiamento. Da questo punto di vista, le ripercussioni di questi accordo sono minime. Ma nella misura in cui fossero più sostanziali, il loro impatto sarebbe probabilmente negativo, in quanto potrebbe nel complesso approfondire le spaccature ed i conflitti nell’area ed anche peggiorare l’atteggiamento di Israele nei confronti dei Palestinesi.
I rapporti di Israele con alcuni paesi del Golfo non sono un fatto recente. C’era una presenza del Golfo già nell’avvio dei colloqui arabo-israeliani del 1991 a Madrid, e gli accordi di Oslo tra Israele e l’OLP vi aggiunsero ulteriore importanza. Negli anni Novanta, i paesi del Golfo facevano parte di gruppi di lavoro regionali ed ospitavano delegazioni ufficiali israeliane.
Israele e gli Emirati hanno portato avanti un insieme di relazioni particolarmente strette, sebbene in gran parte segrete. Tali rapporti ebbero episodica visibilità in occasione di crisi regionali, in particolare dopo che nel 2011 le rivolte portarono Israele e gli EAU (così come il Bahrain ed altri) a far parte dello stesso fronte controrivoluzionario, che in particolare ha sostenuto o addirittura aiutato a progettare il colpo di stato del 2013 in Egitto.
Israele ha venduto direttamente attrezzature militari agli EAU per almeno un decennio ed è stato parte attiva nel fornire alla leadership degli EAU strumenti di spionaggio di ultima generazione (attivamente utilizzati sia contro i dissidenti interni che contro avversari esterni). I due paesi hanno fatto esercitazioni militari congiunte già nel 2016 e negli ultimi due anni, prima della formalizzazione del loro rapporto, ed almeno tre ministri del governo di Israele del partito Likud di Netanyahu hanno intrapreso visite ufficiali pubbliche negli EAU.
Quindi gli accordi firmati di recente non dovrebbero sorprendere nessuno, men che meno i Palestinesi. L’accusa che si sente spesso di un tradimento da parte degli Arabi può essere frutto di un’angoscia autentica, ma sottintende una condizione pre-esistente di solidarietà tra Arabi finalizzata al conseguimento dei diritti dei Palestinesi.
Una strategia pan-araba nei confronti della Palestina è sempre stata esile, crollando definitivamente almeno quarant’anni fa, quando il paese più importante in prima linea, l’Egitto, riuscì a raggiungere da solo un accordo di pace con Israele.
Da allora, e con maggiore intensità dopo l’11 settembre ed anche dopo il 2011, il principale modus operandi per un gruppo di paesi arabi è stato quello di nascondersi dietro un consenso retorico nella Lega Araba, pur perseguendo allo stesso tempo accordi bilaterali su misura con Israele.
Quando è stato chiaro che il fronte arabo non aveva intenzione o non era capace di rappresentare una minaccia sufficiente per spingere Israele a concedere libertà ai Palestinesi, si è usata un’altra tattica. Questa è consistita nell’offrire come incentivo a Israele una normalizzazione dei rapporti in cambio della fine dell’occupazione, come stabilito in definitiva nell’Iniziativa di Pace Araba adottata nel marzo 2002. La reazione di Israele a quell’iniziativa ha dimostrato che la normalizzazione non rappresentava un incentivo sufficiente perché Israele fosse disposto a pagare un prezzo in termini di diritti e libertà per i Palestinesi.
Questi nuovi accordi Israele-Golfo appaiono senza dubbio come un atto che indebolisce i Palestinesi e nascondono la minaccia di interferire in maniera più subdola negli affari interni palestinesi. Ma se, senza accorgersene, aiutassero a seppellire la fiacca politica araba degli ultimi anni, potrebbero contribuire a promuovere in futuro strategie politiche palestinesi più efficaci.
Una lotta palestinese incentrata sui diritti e sull’uguaglianza potrebbe avere successo mentre il progetto tecnocratico di Oslo finalizzato alla nascita di uno stato è fallito. Mentre è difficile che questo nuovo corso sia gradito ai regimi dell’area che son contrari a tali valori universali, l’idea di giustizia, libertà ed uguaglianza suona gradita alle orecchie del popolo arabo esattamente come ovunque sulla Terra, Palestinesi inclusi. La collusione di Israele con i regimi autoritari arabi porta con sé la negazione della liberazione dei Palestinesi sotto occupazione o nei campi profughi, insieme all’oppressione per ampie fasce della popolazione araba a cui sono negate le proprie libertà. Come il movimento Black Lives Matter sta dimostrando in America, i sistemi basati e arroccati sull’ingiustizia sono inevitabilmente destinati alla contestazione radicale e alla rivolta. Questo vale sia per il Medio Oriente che per la realtà israelo-palestinese.
L’attuale leadership palestinese è senza dubbio divisa e priva di visione e di strategia; ma questo non deve essere interpretato come un’accettazione da parte dei Palestinesi di una condizione permanente che li rende un popolo di seconda classe. La resilienza palestinese è reale, cosa che rende l’annientamento da parte di Israele dell’opzione dei due stati una scommessa molto rischiosa.
Il rinvio da parte di Israele dell’annessione de jure della Cisgiordania, in cambio della regolarizzazione dei rapporti con gli Emirati, non è menzionato come impegno nel trattato. Gli accordi non fanno alcun riferimento al protrarsi del controllo e dell’occupazione permanente de facto da parte di Israele, all’applicazione separata e disuguale delle leggi ed alla negazione dei diritti fondamentali dei Palestinesi. Manca semplicemente qualunque ipotesi che Israele faccia qualcosa per il miglioramento della situazione palestinese. La storia non conferma l’idea che paesi arabi in rapporti di pace con Israele siano in condizioni migliori per esercitare pressioni riguardo alla situazione della Palestina, né per esercitare pressioni affinché i Palestinesi firmino un trattato per la propria subordinazione permanente.
Un vantaggio di questo accordo che viene sbandierato all’interno di Israele è il rafforzamento della capacità di Israele di non arrivare mai a compromessi con i Palestinesi. Si progetta (anche nel testo degli accordi firmati dagli EAU) di procedere con il piano Trump del gennaio 2020, un piano che spicca per come denigra i Palestinesi e per come cerca di regolarizzare il progetto di apartheid. Ecco dunque il risultato di questi accordi: gli estremisti israeliani sono ulteriormente rafforzati.
L’affermazione di Netanyahu che “pace in cambio di pace” abbia sostituito “terra in cambio di pace” non è credibile, ma è anche una potente trovata propagandistica, ormai difficile da rimuovere dalla narrazione israeliana. “Terra in cambio di pace” guidò il primo accordo tra Israele ed Egitto e, in parte, anche la pace tra Israele e Giordania.
Gli Israeliani potrebbero, con l’andar del tempo, scoprire che l’alternativa a “terra in cambio di pace” con i Palestinesi non è “pace in cambio di pace” ma “uguaglianza in cambio di pace”.
Un aspetto fondamentale degli accordi è che essi garantiscono, e anzi sono basati su, vendite sempre più importanti di armamenti di offesa, principalmente da parte degli Stati Uniti, alle potenze regionali coinvolte. Oltre a rafforzare il complesso militare-industrale, ciò porterà inevitabilmente all’aumento dell’appetito di armamenti nell’area e potenzialmente all’intenzione di utilizzarli.
Gli accordi rischiano di accelerare l’idea che si vince distruggendo gli altri e potrebbero quindi causare un peggioramento in un’area già piena di conflitti, invece di rafforzare la risoluzione diplomatica delle divergenze e la pacificazione. L’unico scenario in cui tutto ciò potrebbe favorire la risoluzione dei vari conflitti regionali è quello di una vittoria decisiva da parte di un fronte Israele/Emirati/Sauditi, sostenuto dagli Stati Uniti. È estremamente improbabile che tale fronte abbia la meglio e comporterebbe comunque guerra e spargimenti di sangue su ancor più vasta scala, con il diretto coinvolgimento degli Americani.
Immaginare che l’asse guidato dall’Iran o l’asse guidato dalla Turchia guardino agli sviluppi di questa settimana concludendo che convenga loro ritirarsi e cercar di ottenere un trattato di resa tipo Versailles vorrebbe dire essere ingenui o completamente ignoranti delle realtà regionali.
Molto più probabilmente, i partner del Golfo di questi accordi ed il loro alleato saudita stanno cercando una polizza di assicurazione israelo-americana, visto che i loro progetti per l’area si stanno scontrando con l’opposizione guidata dall’Iran e dalla Turchia. Per l’amministrazione Trump, che ha tentato e fallito nell’organizzare una NATO araba, questi accordi possono essere visti come un aiuto per il rafforzamento di un’alleanza militare locale e per la normalizzazione di Israele prima di un’ulteriore giravolta americana di allontanamento dal Medio Oriente. D’altra parte, Israele e gli EAU, in particolare, si stanno muovendo nella consapevolezza di questo impegno vacillante degli Stati Uniti nella regione, probabilmente chiunque sia il nuovo presidente, e sperano di riuscire, insieme, a mantenere l’America nel pantano mediorientale fino al ginocchio.
È interessante il fatto che, nonostante siano stretti in questo nuovo abbraccio, sia gli EAU che Israele danno qualche segnale di voler conservare le proprie ambigue strategie. Gli EAU mantengono canali aperti con i propri potenti vicini dell’Iran. Israele, dal canto suo, mantiene canali di comunicazione con il Qatar. I Quatari hanno contribuito alla effettiva prevenzione di un conflitto con il loro intervento a Gaza, cosa che ha reso Israele in qualche modo dipendente. La nuova collaborazione Israele-Emirati potrebbe trovare tutti d’accordo quando si tratta dell’antipatia condivisa verso la Turchia.
Se l’ostentata pomposità e le cerimonie di questa settimana sul prato della Casa Bianca non riguardavano la pace, di cosa si trattava? Almeno a questo è facile rispondere. A meno di 50 giorni dalle elezioni, il presidente Trump ha potuto segnare una conquista a suo nome e promuoverla oltre ogni limite, con il supporto di un gruppo di attori abbastanza credibili e molto disponibili. Netanyahu è potuto sfuggire ai lockdown del COVID, alle proteste, e ai processi incombenti su di lui per godersi un momento di genuina adulazione dal suo club di tifosi americani formato da conservatori, evangelici seguaci della teologia della storia ed Ebrei di destra, e ricordare intanto ai suoi sostenitori a casa perché è ancora lui il loro uomo.
Perché anche democratici e commentatori stagionati vogliano unirsi al coro di questi imbrogli è dovuto ad una caratteristica persistente, sebbene ora un po’ intaccata, della vita politica americana. Qualunque cosa riguardi Israele è troppo spesso vista ancora con un occhio disposto a concedere eccezioni, cosa che può risultare soffocante oltre che stupefacente. Solo questo modo di vedere può spiegare il desiderio dei democratici di dare a Donald Trump ed a Jared Kushner il via libera verso una pace finta.
Questo è più che spiacevole, in quanto non va a vantaggio né degli interessi di sicurezza nazionale degli Americani né della pace in Medio Oriente (quella vera).
Se qualcuno immagina di avere appena assistito ad una cerimonia, guidata da Trump, di inaugurazione di un nuovo Medio Oriente più pacifico, allora io ho una cura magica per il COVID da vendervi: è basata su una ricetta di ceci, tahin, limone ed olio d’oliva…
Daniel Levy è il presidente del Progetto Stati Uniti/Medio Oriente, con base a New York e a Londra, ed è stato un negoziatore israeliano.
https://prospect.org/world/missing-peace-in-abraham-accords-israel-uae/
Traduzione di Rosaria Brescia –AssopacePalestina