Per Israele “pace” ha sempre significato evitare uno stato palestinese

Ago 28, 2020 | Riflessioni

di Jonathan Ofir
Mondoweiss, 18 agosto 2020

26 marzo 1979, Washington, D. C., USA — Il presidente egiziano Anwar as-Sadat, il presidente USA Jimmy Carter e il primo ministro israeliano Menachem Begin si stringono le mani per gli Accordi di Camp David, un trattato di pace firmato da Sadat e Begin. © CORBIS

In questi giorni si discute ampiamente di come il presunto accordo di “pace” tra Emirati Arabi Uniti e Israele rappresenti una marginalizzazione dei Palestinesi, un accordo inteso principalmente a ingraziarsi gli USA e Israele per motivi di sicurezza ed economici. Il supposto gesto di “sospensione” della pianificata annessione è dubbio e Netanyahu ha chiaramente affermato che non significa affatto un annullamento del piano. I Palestinesi lo rifiutano perché sono stati usati come una semplice foglia di fico.

Ma come e in quale modo i precedenti accordi di pace avrebbero dovuto far progredire la causa palestinese? Nel 1977, il presidente egiziano Anwar Sadat, prima degli accordi di pace del 1978, dichiarò alla Knesset:

“Non sono venuto qui per un accordo separato tra Egitto e Israele. Questo non fa parte della politica egiziana. Il problema non quello dell’Egitto e di Israele. Qualsiasi pace separata tra Egitto e Israele, o tra qualsiasi Stato arabo antagonista e Israele, non porterà una pace permanente basata sulla giustizia in tutta la regione. Piuttosto, anche se la pace tra tutti gli Stati antagonisti e Israele fosse raggiunta, in assenza di una giusta soluzione del problema palestinese non ci sarà mai quella pace giusta e duratura su cui il mondo intero oggi insiste”.

Parole tonanti. Ma il risultato è stato comunque una “pace separata”.

A dicembre di quell’anno, il primo ministro israeliano Menachem Begin tenne un discorso alla Knesset dichiarando un presunto “Piano di autonomia” per i Palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sulla scia di quell’invito alla pace. L'”autonomia” era essenzialmente sempre stata il modello che Israele, nella migliore delle ipotesi, intendeva per i Palestinesi. Mentre la comunità internazionale pensava in prospettiva a uno “stato” palestinese, questo non fu mai il modello che Israele avrebbe permesso.

Il discorso di Begin dimostrò la contraddizione tra questo modello e la “pace”. Questa la sua promessa:

“Con la realizzazione della pace proporremo l’introduzione di un’autonomia amministrativa per gli Arabi residenti in Giudea, Samaria e la Striscia di Gaza… L’amministrazione del governo militare in Giudea, Samaria e la Striscia di Gaza sarà abolita”.

C’era però un problema. I Palestinesi erano come i Nazisti:

“Non ci sogniamo nemmeno la possibilità –se dovessimo ritirare le nostre forze militari da Giudea, Samaria e Gaza– di abbandonare queste zone al controllo di quell’organizzazione assassina chiamata OLP… Questa è la peggiore organizzazione assassina della storia, dopo le organizzazioni armate naziste”. 

Quindi:

“Si sappia che chiunque desideri un accordo con noi deve accettare la nostra decisione che l’IDF sarà dispiegato in Giudea, Samaria e Gaza. E ci saranno anche altri accordi sulla sicurezza, in modo che noi possiamo dare a tutti i residenti, Ebrei e Arabi, in Eretz Yisrael [la Grande Israele] una vita sicura, che vuol dire sicurezza per tutti… Noi abbiamo il diritto di richiedere la sovranità su tutte queste aree di Eretz Yisrael. Questa è la nostra terra e appartiene di diritto alla nazione ebraica. Desideriamo un accordo e la pace”.

Begin sapeva che c’era una contraddizione:

“Sappiamo che ci sono almeno altre due richieste di sovranità su queste aree. Se c’è un desiderio reciproco di raggiungere un accordo e promuovere la pace, come si ottiene?”

Begin propose di lasciare “aperta” la questione dell’autonomia palestinese. Agli “Arabi” sarebbe dovuta bastare al massimo l'”autonomia amministrativa” e gli Ebrei di “Eretz Yisrael”, compresi quindi i coloni dei Territori Occupati, avrebbero avuto una “autentica sicurezza”. Vale a dire:

“Se queste richieste contradditorie dovessero rimanere, e se non ci dovesse essere risposta alla loro rotta di collisione, un accordo tra le parti sarebbe impossibile. E per questa ragione, al fine di facilitare un accordo e fare la pace, c’è solo una via possibile. Una via e una sola: accettare di decidere che la questione della sovranità rimanga aperta e occuparsi della gente, delle loro identità. Vale a dire, autonomia amministrativa per gli Arabi di Eretz Yisrael e un’autentica sicurezza per gli Ebrei di Eretz Yisrael. Questo è il contenuto di giustizia della proposta. E in questo spirito la proposta è stata accettata anche all’estero…”

Questo è il modello alla Jim Crow [leggi di segregazione razziale negli Stati Uniti del secolo scorso] su cui Israele ha lavorato da allora in poi. Ogni qualvolta si pensava alla “soluzione a due Stati”, Israele stava dicendo “Autonomia”.

Nel 1994, la Giordania e Israele firmarono un trattato di pace. Il trattato annullava qualsiasi pretesa della Giordania sulla Cisgiordania, di cui aveva preso il controllo nel 1948 e che aveva amministrato fino al 1967. Il testo dell’accordo recitava che “qualsiasi modifica di questa linea [di confine, cioè il fiume Giordano] non dovrà pregiudicare lo status del territorio”. La storia di questo accordo è un po’ complessa. Tra la fine del 1947 e il 1948, l’Agenzia Ebraica concluse un accordo segreto con re Abdullah. Dice lo storico Avi Shlaim: “In cambio della promessa di Abdullah di non entrare nella zona assegnata dall’ONU allo Stato ebraico, l’Agenzia Ebraica accettò l’annessione da parte della Transgiordania della maggior parte della zona riservata allo Stato arabo”. Durante la guerra del 1948 questo divenne ancora più complesso, non di meno Shlaim sintetizza: “Il quadro che emerge non è quello familiare di Israele che si erge da solo contro la potenza congiunta dell’intero mondo arabo, quanto piuttosto quello di una considerevole convergenza tra gli interessi di Israele e quelli della Transgiordania contro gli altri membri della coalizione araba e soprattutto contro i Palestinesi”. Si giunge al 1967, Israele prende il controllo di quel territorio. Nell’accordo di pace del 1994 la Giordania quindi dichiarava di non avanzare pretese sulla Cisgiordania e che il confine passava lungo la riva est del fiume Giordano. Poiché questo era un accordo tra la Giordania e Israele, la rinuncia alla rivendicazione della Cisgiordania poteva essere interpretata come se la Giordania implicitamente la dichiarasse territorio israeliano, ma l’espressione “senza pregiudicare” suggeriva che era aperta la possibilità di essere accettata come territorio palestinese da accordi tra Israele e i Palestinesi.

Questi erano gli anni di Oslo, e l’idea dal punto di vista israeliano era ancora quella della “autonomia” (non di uno stato). Shimon Peres, che all’epoca era ministro degli esteri, si opponeva con veemenza a uno Stato palestinese, benché si comportasse in modo da apparire favorevole. L’ex ministro del lavoro Shlomo Ben-Ami ha scritto nel suo libro Scars of War, Wounds of Peace [Cicatrici di guerra, ferite di pace] : ” nel 1997 –cioè quattro anni dopo l’inizio del processo di Oslo, quando, in qualità di presidente del Comitato affari esteri del Partito Laburista, proposi per la prima volta che il partito appoggiasse l’idea di uno Stato palestinese– fu Shimon Peres quello che con più veemenza si oppose all’idea”.

È interessante che dal re Hussein di Giordania, che all’epoca era un uomo immensamente popolare in Israele (venne invitato a parlare al funerale di Rabin nel 1995), ci si aspettasse una preferenza tra Peres o Netanyahu nelle elezioni del 1996. Hussein all’inizio rimase neutrale, però poi ammise in incontri con gli Israeliani la sua preferenza per Netanyahu, dicendo che “non avrebbe ripetuto il suo errore”.

L’ex capo del Mossad Efraim Halevy nota nel suo libro Man in the Shadows che re Hussein “si dispiaceva dell’ascesa al potere di Shimon Peres, di cui diffidava profondamente… Per Hussein, la rielezione di un primo ministro del Likud, vista l’alternativa, fu un cambiamento gradito”.

Ma, ahimè, Netanyahu non era molto meglio di Peres. Come ora sappiamo, l’Accordo ad interim Oslo 2 sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza alla fine non portò da nessuna parte, solo a un’occupazione senza fine. In una audiocassetta segreta del 2001 (resa nota nel 2016) Netanyahu si vantò con una famiglia di coloni di come avesse dato agli Accordi di Oslo una “interpretazione” che gli avrebbe consentito di fermare la “corsa ai confini del 1967”. “Come lo abbiamo fatto? Le zone definite come militari, ho detto, sono zone di sicurezza. Dal mio punto di vista, la Valle del Giordano è un’area definita militare, giusto?” Nella stessa occasione disse anche: “So cosa è l’America, l’America è una cosa che si può spostare molto facilmente, muovere nella giusta direzione. Non ci sarà d’intralcio”.

Così quando Barack Obama fece l’errore di dire che ci devono essere due Stati lungo i confini del 1967 –nel 2011, dopo aver posto il veto a una risoluzione contro le colonie nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU– Netanyahu e le organizzazioni lobbistiche israeliane lo indebolirono, con Netanyahu che tenne una lezione a Obama nello Studio Ovale su come Israele non avrebbe mai potuto accettare tale confine. E Obama dovette subire.

E il resto di questo è nelle presunte “generose offerte” degli Israeliani, come quella di Ehud Barak nel 2000, quelle di cui gli apologeti di Israele come Alan Dershowitz si vantavano, dicendo che i Palestinesi non perdono l’occasione di perdere un’occasione.

Uno Stato palestinese deve sempre rimanere una finzione per i sionisti. Non è mai stato veramente qualcosa che un governo israeliano fosse intenzionato ad accettare. 

Ecco perché ogni “accordo di pace” che Israele può accettare è sempre basato sul marginalizzare lo Stato palestinese, anche quando l’accordo è con i Palestinesi stessi. Ogni accordo di pace con un altro Stato arabo includerà un qualche pegno per il riconoscimento dei diritti dei Palestinesi, ma non porterà mai all’adempimento di tali diritti.

Così, nel recente accordo con gli Emirati Arabi Uniti, che è una “pace” tra due stati che non sono in guerra e che neanche si contestano territori, il supposto pegno a favore dei Palestinesi è che la programmata annessione di quasi un terzo della Cisgiordania sarà rinviata. I Palestinesi non hanno dubbi che in realtà ciò non significhi nulla e che l’occupazione continuerà. Netanyahu ha promesso che l’annessione è ancora sul tavolo (e noi gli dovremmo credere, anche perché i fatti sul terreno sono l’annessione de facto senza alcuna fine in vista). E l’intera vicenda è avvenuta alle spalle degli stessi Palestinesi, legittimando ulteriormente l’impressione che essi siano mere pedine e foglie di fico nei più grandi disegni imperialisti.

Jonathan Ofir è un musicista israeliano, direttore d’orchestra e blogger/scrittore che risiede in Danimarca.

Traduzione di Elisabetta Valento – Assopace Palestina

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