Questo non fermerà i piani di annessione di Israele, ma sarebbe un passo vitale nella giusta direzione in un momento pericoloso
di Sam Bahour
The Guardian, 12 luglio 2020
A gennaio, quando l’amministrazione Trump ha svelato formalmente il tanto atteso piano di pace per il conflitto israelo-palestinese –noto come “affare del secolo”– non c’era ombra di Palestinesi, che non erano stati invitati alla conferenza stampa della Casa Bianca. Il presidente Trump ha condiviso il palcoscenico con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e i due hanno illustrato euforici il documento di 181 pagine che dovrebbe servire come tabella di marcia per una soluzione a due stati, mentre è in realtà un “documento di resa” che nega i diritti palestinesi e riconosce le pretese di Israele sui suoi insediamenti illegali.
Il mondo era scioccato. L’Europa era sbalordita. Gli Stati Uniti chiedevano pubblicamente l’annessione di gran parte della Cisgiordania.
L’accordo ha messo in dubbio la percezione europea che gli Stati Uniti siano un arbitro all’altezza del compito che si sono assunti. Storicamente, gli Stati Uniti hanno monopolizzato il processo di risoluzione dei conflitti nella regione, legittimandolo con l’affermazione di sostenere la soluzione a due stati condivisa internazionalmente e basata sui confini del 1967. Finché gli Stati Uniti hanno preteso a parole di mirare a una “pace giusta e duratura basata su una visione di due stati”, l’Europa è stata ben contenta di ritirarsi in un ruolo di retroguardia nella risoluzione del conflitto, pompando miliardi di euro di aiuti nei territori palestinesi per mantenerli economicamente in vita, mentre evitava qualsiasi responsabilità di leadership.
L’accordo del secolo ha messo l’UE e i suoi stati membri in una posizione difficile. L’UE potrebbe o rivedere le sue politiche per adeguarle a quelle avanzate dagli Stati Uniti, o esprimere obiezioni alla soluzione USA. Il nuovo governo di Israele ha fissato una data –1 luglio– per l’inizio dell’annessione. Quando questa notizia si è diffusa, l’Europa ha cominciato a parlare apertamente di sanzioni.
Nel periodo precedente al 1° luglio, i parlamenti di Belgio, Paesi Bassi e Germania hanno approvato risoluzioni che prevedevano azioni punitive in caso di annessione. Josep Borrell, capo della politica estera dell’UE, ha parlato di “conseguenze significative” per le relazioni UE-Israele se l’annessione fosse andata avanti. L’UE è il principale partner commerciale di Israele, con scambi totali pari a circa 36,2 miliardi di euro (32,4 miliardi di sterline) nel 2017. La minaccia di sanzioni economiche avrebbe presumibilmente un peso molto maggiore rispetto a ipotetici discorsi di boicottaggi accademici e diplomatici. Tuttavia, le sanzioni a livello di Unione Europea continuano a essere “fuori dal tavolo” per molteplici ragioni. Un’indagine Reuters ha rivelato che “non esiste una chiara strategia dell’UE su come fermare il piano di Israele o come rispondere in modo significativo se l’annessione dovesse andare avanti”.
La data di inizio fissata da Netanyahu per l’annessione è passata e il problema, per ora, è stato messo da parte. Si può presumere che l’UE sia sollevata. Potrebbe anche esserci speranza, per quanto tenue, che le elezioni presidenziali statunitensi di novembre possano vedere spodestato Trump e il suo campo annessionista, riportando la politica americana in armonia con l’opinione internazionale. La Palestina continuerà ad essere occupata, la costruzione degli insediamenti continuerà e la vita quotidiana continuerà ad essere sempre più insopportabile per le comunità palestinesi recintate e isolate. Ma l’UE si sentirà tranquilla sapendo che gli Stati Uniti sono impegnati nella soluzione a due stati e “ci stanno lavorando”.
Quindi, se accettiamo che, a livello di UE, l’Europa è impotente, cosa possono fare i singoli Stati membri, data l’urgenza della situazione che abbiamo di fronte?
La risposta è semplice: riconoscere uno stato palestinese indipendente, prima che avvenga l’annessione israeliana. Gli stati dell’UE non passerebbero alla storia, ma almeno si unirebbero alla maggior parte del mondo, compresa la Svezia, il primo stato membro dell’UE a riconoscere la Palestina.
Nel dicembre 2019, il ministro degli Esteri lussemburghese, Jean Asselborn, ha scritto una lettera a Borrell affermando che era giunto il momento di riconoscere uno stato palestinese. Una tale mossa, ha affermato, “non sarebbe né un favore, né un assegno in bianco, ma un semplice riconoscimento del diritto del popolo palestinese ad avere il suo stato. Non sarebbe in alcun modo un’azione contro Israele”.
Il riconoscimento è una questione puramente bilaterale, da stato a stato, che non richiede approvazione o unità a livello UE. Riconoscere la Palestina offre agli Stati membri dell’UE la possibilità di sottolineare il loro impegno nei confronti della soluzione a due stati come unica soluzione praticabile, contrastando i piani di annessione di Israele, dimostrando chiaramente di aderire al diritto internazionale –per non parlare del diritto dell’UE– e non alla “legge della giungla” di una prolungata occupazione militare.
Il riconoscimento della Palestina non è un atto così controverso come le sanzioni, sebbene le sanzioni rimangano lo strumento ultimo necessario per mettere Israele in linea col diritto internazionale. Il riconoscimento bilaterale può essere approvato e ratificato dai singoli parlamenti di ogni stato. Nulla cambierà sul terreno e l’occupazione continuerà il giorno dopo il riconoscimento, ma legalmente il gioco sarà radicalmente cambiato.
Riconoscendo uno stato palestinese, i futuri tentativi israeliani di annessione potranno essere trattati dai paesi dell’UE come la conquista di un altro paese con la forza, e non semplicemente un’estensione della sovranità da parte dell’occupante militare sul territorio occupato, come proclama Israele. Potrebbe essere un passo troppo piccolo o troppo tardivo, ma almeno sarebbe un passo nella giusta direzione.
Sam Bahour è un consulente commerciale palestinese-americano di Ramallah/Al-Bireh nella Palestina occupata. È consulente politico di Al-Shabaka, la rete politica palestinese.
Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina