“Questo è lo scopo del posto di blocco, ricordarti che loro ci sono sempre”

La cosa più preoccupante del posto di blocco “Il Container”, che divide l’una dall’altra due aree palestinesi, è il non sapere quando – o se – si arriverà dall’altra parte.

di Mya Guarnieri Jaradat

+972 Magazine, 6 luglio 2020.

Soldati israeliani controllano i documenti d’identità degli autisti palestinesi mentre ispezionano un veicolo a un posto di blocco nella città di Hebron in Cisgiordania, 23 dicembre 2017. (Wisam Hashlamoun/Flash90)

Quando il servizio di taxi diretto a Betlemme ha lasciato il villaggio di Abu Dis in Cisgiordania ed è apparso il posto di blocco israeliano, gli altri passeggeri, tutti uomini palestinesi, hanno smesso di parlare e si sono allacciati le cinture di sicurezza. L’autista ha spento la radio. Solo pochi istanti prima, la musica, la conversazione e le risate avevano riempito l’aria. Ora c’era il silenzio, a parte il tintinnio dei grani del rosario che oscillavano sullo specchietto retrovisore.

Questo avveniva ogni volta che un servizio taxi si avvicinava al checkpoint “Il Container”; tutti trattenevano il respiro come se si fossero immersi sott’acqua. Ma dopo un’immersione si sa che ci sarà un’emersione. Il problema del “Container” è l’incertezza, non sai mai cosa accadrà. Forse i soldati non guarderanno nemmeno dalla tua parte. Forse ti faranno cenno di andare. Forse ti faranno accostare e ti perquisiranno. Forse finirai in detenzione amministrativa. Chi lo sa?

È l’incertezza che terrorizza, e fu l’incertezza che fece calare il silenzio quel giorno di settembre del 2013. Tutti rimasero fermi. Anche l’autista sembrò ridurre al minimo i suoi movimenti. Tenendo le mani alle dieci e dieci sul volante, si muoveva il meno possibile, giusto quel tanto necessario per guidare il veicolo attraverso il posto di blocco.

Quel giorno, dopo esser rimbalzati sulla prima serie di bande chiodate, un soldato israeliano –in piedi sulla strada, un fucile di traverso sul torace– fece segno all’autista di accostare. Non aveva alcun senso perché, solo cinque minuti prima, avevo superato il posto di blocco andando nella direzione opposta e non avevano fatto accostare nessuno.

Ma ora lo stavano facendo.

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Veduta del Muro di Separazione dal villaggio palestinese di Abu Dis vicino Gerusalemme Est. 26 febbraio 2017. (Miriam Alster/Flash90)

***

Fu sette anni fa. Benché Il Container sia cambiato nella forma, il luogo e la paura che evoca sono gli stessi. Il 23 giugno, Ahmed Erekat è stato ucciso lì dalla polizia di frontiera. Un video dell’incidente mostra la sua auto schiantarsi contro il posto di blocco e colpire uno degli agenti, poi  egli corre fuori e viene ucciso.

A seguito dell’uccisione di Erekat, alcuni organi di stampa hanno chiamato il Container “un checkpoint di Gerusalemme Est“, una definizione tecnicamente corretta ma fuorviante, che di fatto nasconde la violenza del luogo. Leggendo la frase, anch’io potrei erroneamente credere che il posto di blocco stia sulla Linea Verde tra Gerusalemme Est e Ovest dividendo lo Stato di Israele dalla Cisgiordania occupata. Il suggerimento che il Container svolga anche qualche tipo di funzione securitaria aleggia in queste parole.

Ma come sa chiunque abbia attraversato quel checkpoint, il Container di fatto divide un’area palestinese da un’altra. Anche se si trova nella parte di Gerusalemme che Israele ha annesso unilateralmente dopo il 1967, non protegge “Gerusalemme Ovest” né si trova al suo confine. È incastrato nella gola dei Territori Palestinesi, tagliando la continuità dei villaggi ai margini di Gerusalemme.

Il Container è quel che viene definito come un “posto di blocco interno“, un modo per tenere uno stivale sul collo dei Palestinesi e un promemoria sempre presente del fatto che, non importa quanto tu sia lontano da Israele, Israele ti guarda incessantemente, sempre coinvolto in ogni aspetto della tua vita quotidiana.

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Palestinesi passano attraverso un posto di blocco israeliano per assistere alle preghiere del Venerdì alla moschea Al-Aqsa a Gerusalemme, vicino alla città di Betlemme in Cisgiordania, il 24 maggio 2019. (Wisam Hashlamoun/Flash90)

“Questo è lo scopo del Container”, mi dice mio marito palestinese, “ricordarti che loro sono sempre lì”. L’ironia, aggiunge, è che molto prima che ci fosse un posto di blocco nella zona, era una strada che i Palestinesi prendevano quando volevano evitare i soldati o la polizia israeliani.

Anche il nome apparentemente sinistro ha una storia inaspettata. Prima che l’esercito si installasse lì, c’era un container che un uomo del posto usava come piccolo dukkan (negozio), per vendere bevande e spuntini ai viaggiatori su quel tratto di strada altrimenti vuoto che correva sopra a Wadi al-Nar.

***

Quel giorno di settembre del 2013, il giovane soldato –un ciuffo di qualcosa, l’uniforme troppo grande e arrotolata ai gomiti, il tessuto verde oliva che sembrava accumularsi intorno al suo corpo– si avvicinò al taxi, aprì la porta scorrevole, squadrò ciascuno e chiese i documenti d’identità. Gli uomini, tutti abbastanza vecchi da essere suoi genitori, obbligati dal ragazzo, presero la loro carta verde d’identità e la passarono a uno dei passeggeri, che le ammucchiò tutte e le consegnò al ragazzo-soldato. E lui le esaminò tutte, una per una.

Quando ebbe finito, diede istruzioni all’autista e ai passeggeri di chiudere i finestrini. Poi chiuse la porta, e questo fu tutto. Nessuna spiegazione. Se ne andò via, lasciandoci a cuocere sotto al sole per quasi un’ora. 

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La polizia di frontiera a un posto di blocco all’uscita del quartiere Sur Baher di Gerusalemme Est, controlla tutti i Palestinesi che vogliono passare, 16 ottobre 2015. (Hadas Parush/Flash90)

Un altro soldato finalmente aprì la porta, senza alcuna spiegazione, gettò i documenti d’identità sul pianale del veicolo come se si liberasse di una piccola cosa insignificante, un po’ di spazzatura. Come se per lui non valesse la pena restituirli ai passeggeri riconoscendo che erano esseri umani.

Con quel suo movimento del polso, eravamo liberi di andare.

Appena l’autista uscì fuori dal Container, superando un’altra serie di bande chiodate, i finestrini si aprirono, la musica partì e la conversazione riprese. Quando arrivammo a Betlemme, tentai di pagare ma l’autista rifiutò i miei soldi. Senza di me nell’auto, una donna bianca con un passaporto americano, le cose sarebbe potute andate molto peggio, disse.

***

Quel giorno, per molti versi, fu un momento davvero tipico del Container. E anche se io portavo un immenso privilegio a quel servizio di taxi, la paura di cosa potesse accadere consumava tutti noi. Il silenzio assoluto mentre ci avvicinavamo al posto di blocco. La totale imprevedibilità. La mancanza di spiegazioni per ciò che stava avvenendo. Non sapere quando –o per i passeggeri palestinesi, se– si sarebbe arrivati all’altro lato del posto di blocco. Il fatto che tutti noi non eravamo sulla strada verso o da Israele, ma verso o da una zona palestinese a un’altra.

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A un anziano viene negato l’accesso alla preghiera a Gerusalemme presso il nuovo posto di blocco Hazeytim ad Abu Dis, un villaggio della Cisgiordania vicino a Gerusalemme, 6 marzo 2006. (Melanie Fidler/Flash90)

Il posto di blocco si trova sull’unica strada che connette il nord della Cisgiordania al sud. Se sei un Palestinese con un documento di identità verde, che significa che tu non puoi attraversare Gerusalemme, e vuoi arrivare da Betlemme a Abu Dis o a Ramallah, devi passare per il Container. Se l’esercito chiude il Container, la Cisgiordania è di fatto tagliata in due.

Solo pochi mesi prima di quel giorno di settembre, i soldati del Container trascinarono mio marito (allora mio fidanzato) fuori da un taxi e lo perquisirono, senza motivo, senza spiegazioni, mentre da Ramallah veniva a trovarmi a Betlemme. Un’esperienza terrificante, ma era anche questa tipica, aadi, normale. Il genere di cose che fanno riflettere due volte i Palestinesi se i loro piani prevedono di attraversare il Container.

E, di sicuro, le persone evitano quel posto di notte.

Era notte quando, in un’altra occasione, mentre ero sulla strada di ritorno a Betlemme da Ramallah, vidi un uomo sul ciglio della strada, legato e circondato da soldati, la sua auto vuota lì vicino, le porte aperte. Ricordo ancora di aver sentito gli altri passeggeri ansimare, le loro inspirazioni interrotte che si succedevano all’interno del veicolo, mentre, uno a uno, vedevano l’uomo.

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Un agente della polizia di frontiera israeliana perquisisce a un checkpoint un giovane che si recava alla moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme durante il mese di Ramadan, vicino alla città di Betlemme, 31maggio 2019. (Wisam Hashlamoun/Flash90)

Ricordo ancora il suono delle unghie che battevano sui vetri delle finestre. “Guarda, guarda”, dicevano i passeggeri, a bassa voce, quasi un sussurro, come se fossero spaventati che qualcuno li sentisse. Come se avessero troppa paura di sentire se stessi.

***

Solo due mesi dopo quel giorno di settembre, un uomo palestinese, Anas al-Atrash, sarebbe stato ucciso al Container a colpi di pistola, in circostanze misteriose. L’esercito israeliano insistette che al-Atrash aveva un coltello; la sua famiglia disse che egli usciva semplicemente dalla sua auto dopo che lo avevano fatto accostare.

E poi ci sono i momenti della vita di ogni giorno: passare di lì per andare a scuola, o al lavoro, o a un appuntamento, o in visita a una persona cara. La costante intrusione nella tua vita di questo posto di blocco, costruito da occupanti stranieri che in ogni caso non dovrebbero essere qui. Eccoti lì, seduto in un taxi mentre vai a lezione, quando all’improvviso ti fanno accostare e ti chiedono un documento d’identità.

Questa è l’occupazione, una divinità malevola che si inserisce in ogni minimo dettaglio della tua vita, anche il più intimo.

Quel giorno di settembre stavo andando a un matrimonio. Il ritardo fece sì che io perdessi parte dei festeggiamenti. Quanti Palestinesi sono arrivati in ritardo o hanno completamente perso momenti importanti della vita dei loro cari a causa del Container? Quanto tempo ha rubato quel posto?

Questo era ciò che i Palestinesi mi dicevano più e più volte quando vivevo in Cisgiordania. La nostra terra? Quella possiamo riaverla. Ma il nostro tempo non può essere recuperato.

Mya Guarnieri Jaradat è una scrittrice e una giornalista indipendente che risiede nel sud della Florida dopo aver vissuto quasi un decennio in Israele-Palestina. Il suo libro, “The Unchosen: The Lives of Israel’s New Others” (Pluto Press) fu selezionato per il Jewish Quarterly Wingate Prize. Suoi reportage e commenti sono stati pubblicati in The Nation, The NY Times, Haaretz, Le Monde Diplomatique, Al Jazeera English, The Guardian e molti altri giornali. Suoi saggi e romanzi sono apparsi in Slate, Guernica, Jewish Quarterly, Narrative e Il Kenyon Review. Attualmente sta lavorando a un’autobiografia.

https://www.972mag.com/israel-checkpoint-container-abu-dis/

Traduzione di Elisabetta Valento – Assopace Palestina

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