Attivisti che lasciano la battaglia: non deboli, ma nemmeno eroi

di Michael Warschawski

The Alternative Information Center (AIC), 3 luglio 2020

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Per essere chiari: non voglio giudicare quelli che decidono di lasciare il paese e risiedere all’estero. Questa è una decisione personale, proprio come la decisione di osservare i comandamenti religiosi, essere vegetariano o, per quanto strano possa sembrare, andare in vacanza nella città di Eilat. Capisco coloro che scelgono di andarsene e crescere la loro famiglia lontano dalla sporcizia coloniale e razzista “made in Israel”. Una confessione: diversi anni fa, durante uno degli attacchi omicidi di Israele alla Striscia di Gaza, ho spinto mia figlia a partire con la sua famiglia per recarsi all’estero, in un posto meno inquinato. Mi rattristava il pensiero di essere strappato dai miei nipoti, ma ho pensato che fosse meglio per loro stare lontano da questo brutto posto. Non ho mai considerato coloro che scelgono di lasciare il paese come un “mucchio di deboli” (come disse Yitzhak Rabin, per coloro che l’avessero dimenticato).

Quasi tutti i motivi espressi dagli intervistati nell’articolo “Persa ogni speranza di cambiamento, attivisti e studiosi di primo piano si lasciano Israele alle spalle“ (Haaretz, 23 maggio 2020) sono chiari, logici e persino convincenti per me. Tutti tranne uno: che questa decisione sia una continuazione della lotta che avevano intrapreso prima della loro partenza. No, amici, no! Anche se alcuni di voi continuano nel nuovo paese a lottare per la giustizia e i diritti, anche per quelli della vostra vecchia patria, questa non è una continuazione della lotta ma un’uscita da essa. Un’uscita che non è difficile da capire, dato il crollo quasi totale di tutto ciò che desideriamo costruire e visto l’offuscamento di una vera visione politica. Un’uscita con cui è facile identificarsi se si hanno bambini che crescono nella società razzista israeliana. Ma questa è un’uscita, non una continuazione della lotta per cambiare la nostra società e costruire un’alternativa.

Forse qui non c’è davvero alcuna possibilità, ma allora dovremmo ammettere la nostra sconfitta nella lotta per cambiare la società e la politica. Ammettiamo che così facendo scegliamo di abbandonare la nave che affonda, lasciando i Palestinesi, in questi tempi difficili, con un semplice augurio di buona fortuna. La verità è che, a parte brevi periodi, i Palestinesi non non hanno mai creduto veramente di potersi fidare di noi. E voi, gli eroi di Haaretz, dimostrate quanto avessero ragione.

Ma non dite che la vostra partenza, la vostra defezione, è un atto politico, una lotta con altri mezzi. Defezione? Davvero una parola aspra quando rivolta ad amici con cui ho lottato per anni. Ma la ripeto: ci sono milioni di Israeliani che non possono scegliere come voi. Non hanno un secondo passaporto, nessuna formazione che garantisca loro un lavoro all’estero. Sono condannati a rimanere sulla nave e voi, miei cari amici, siete fuggiti sulle poche scialuppe di salvataggio disponibili. Come ho detto, non vi giudico, ma non accetto che la vostra decisione personale sia una scelta ideologica.

E ora, due parole sulla mia scelta personale. Per quanto strano possa sembrare, detto da uno che è stato condannato per “sostegno a organizzazioni terroristiche”, la società israeliana è il mio unico ambiente naturale. Il posto puzza, ma solo qui mi sento a casa. Inoltre, mi sento responsabile per il mio popolo e voglio, dal profondo del cuore, che possiamo vivere qui come esseri umani liberi, non come oppressori coloniali o come minoranza oppressa. Infine, credo che la situazione sia reversibile e che la mia società possa riprendersi. Come attivista politico che è testimone di una unità nazionale quasi completa in Israele tra le guerre del 1967 e del 1973, ma anche del movimento contro la guerra al Libano che in seguito si è trasformato in un movimento di massa contro l’occupazione, so che gli umori possono essere invertiti, anche se ci vuole tempo.

Inoltre, se la società israeliana è condannata ad affondare nell’abisso, sceglierò di affondare con essa, se non altro perché non ho una società alternativa. Non mi considero affatto un eroe (anche se sono forse un po’ romantico, come dice mia figlia), ma le parole di uno dei miei eroi mi risuonano nel profondo. Marek Edelman, un comandante della rivolta nel Ghetto di Varsavia, affrontò il tema dell’eroismo, affermando che se uno decideva di non lasciare sua madre che veniva portata in treno ad Auschwitz non era un eroe da meno di quelli che prendevano le armi. In quel senso, e solo in quel senso, voglio essere un eroe e scelgo di non lasciare la mia famiglia e il mio popolo, anche quando l’abisso è davanti a noi.

Tradotto dal mio blog in ebraico (07/02/2020), [e poi dalla versione inglese a cura di AssopacePalestina].

Michael Warschawski

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