Le condanne a cui non seguono provvedimenti sono musica per le orecchie del governo israeliano. Per porre fine all’occupazione, la comunità internazionale deve cambiare strategia
di Susie Becher
+972 Magazine, 5 giugno 2020
Non è chiaro se il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu procederà il 1 luglio o poco dopo con l’annessione unilaterale di grandi aree della Cisgiordania occupata. È anche troppo presto per poter dire quale risposta concreta verrà data all’annessione a livello regionale e internazionale.
Nel caso si trattasse di sanzioni, l’Unione Europea è vincolata alla necessità di ottenere il consenso di tutti i 27 Stati membri; questo non impedisce però necessariamente ai singoli Paesi europei di seguire ciascuno una propria strada. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU avrà le mani legate a causa del veto statunitense, ma se il democratico Joe Biden – che lascia ben sperare – vincesse le elezioni di novembre, potrebbe delinearsi un cambiamento.
Qualche segnale che stavolta il presidente palestinese Mahmoud Abbas faccia sul serio c’è, dopo la sua dichiarazione di fine maggio in cui afferma di stare rinunciando a tutti gli accordi con Israele e Stati Uniti, coordinamento della sicurezza compreso. Il re giordano Abdullah dal canto suo ha ammonito che l’annessione potrebbe portare a sospendere il trattato di pace stipulato fra Giordania e Israele nel 1994; ma se agirà in tal senso dipenderà da un lato da quanta pressione eserciteranno gli Stati Uniti e dall’altro dall’eventuale verificarsi di disordini nel suo regno.
Nonostante l’incertezza, l’opposizione internazionale all’annessione sta certamente guadagnando terreno. Con il sostegno di paesi come Svezia, Lussemburgo, Irlanda, Spagna e Belgio, la Francia sta conducendo una campagna volta a dissuadere Israele minacciando azioni punitive.
Di conseguenza Netanyahu dovrà scegliere: o essere glorificato come il primo ministro che ha realizzato il sogno della destra di una Eretz Yisrael (la Grande Terra di Israele) che si stende dal fiume al mare (nonostante la presenza qua e là di alcuni indesiderati bantustan palestinesi) oppure passare alla storia come il primo ministro che ha precipitato Israele nella crisi con gli alleati arabi e la comunità internazionale. Potrebbe decidere che i rischi sono troppo grandi e trovare, al suo solito in maniera inimitabile, il modo di capovolgere la propria decisione, per non procedere senza tuttavia perdere il sostegno della propria base. La questione principale è: cosa avverrà allora?
Anche chi ha minacciato sanzioni in risposta all’annessione dovrà, a tal punto, fare una scelta. Fondamentale sarà non ricompensare Israele accettando lo status quo. Al contrario: essendo emerso che la comunità internazionale ha un peso e che, se determinata, può indurre Israele a retrocedere, l’Europa dovrebbe poggiare su questa evidenza e proseguire in collaborazione con altri alleati per garantire la fine dell’occupazione.
Per questo è necessario adottare il metodo del bastone e della carota.
Il bastone è la piena attuazione della politica di differenziazione, fissata dalla risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che nell’ambito dei rapporti commerciali invita tutti i paesi a distinguere tra lo Stato di Israele e i suoi insediamenti nei territori palestinesi occupati. Conformemente a tale provvedimento, la banca dati delle Nazioni Unite relativa alle società che commerciano con gli insediamenti deve essere in continuo aggiornamento e i risultati dovrebbero essere resi pubblici a intervalli regolari. La politica dell’Unione Europea, che richiede l’etichettatura della merce prodotta negli insediamenti, dovrebbe essere rigorosamente perseguita da tutti gli Stati membri.
Infine, l’Europa dovrebbe anche rendere noto che non distinguerà più tra annessione di fatto e di diritto e che ricorrerà alle sanzioni se Israele procedesse con l’annessione strisciante – quale lo sviluppo dell’area E1 a nord-est di Gerusalemme – che assesterebbe un colpo letale alla possibilità di esistenza di uno Stato palestinese dotato di contiguità territoriale e dunque sostenibile.
Con tali mosse non solo si opporrebbe un semaforo rosso al governo israeliano ma si incrementerebbe anche la consapevolezza dell’opinione pubblica del paese quanto al fatto che Israele sarà considerato responsabile di aver intrapreso un’occupazione illegale.
Quindi arriva la carota. Sebbene nel piano “Peace to prosperity” a cura dell’amministrazione Trump abbondino i riferimenti allo “Stato di Palestina”, l’introduzione chiarisce che i poteri sovrani del cosiddetto Stato saranno limitati in tutte le aree che interessano la sicurezza di Israele – e in tal senso si tratta sostanzialmente di una proposta di autonomia e non della creazione di uno Stato. Questo piano dunque è ben lungi dal realizzare le aspirazioni nazionali del popolo palestinese e quindi non può costituire la base di negoziati di pace: l’Europa deve respingerlo nella sua interezza.
L’Europa dovrebbe dunque prendere l’iniziativa e convocare una conferenza internazionale per avviare un processo di pace multilaterale basato sull’Iniziativa di pace araba, ripartendo da dove si erano interrotti i negoziati Ehud Olmert-Abbas nel 2008. Deve sostituire il paradigma del “pagare ma non giocare” per assumere il ruolo del mediatore attivo piuttosto che quello del facilitatore, e deve stabilire un calendario preciso per la conclusione dei negoziati e la firma di un accordo di pace.
Per oltre mezzo secolo Israele ha progressivamente aumentato la stretta sui territori palestinesi occupati, incurante delle infinite condanne internazionali e delle molteplici risoluzioni delle Nazioni Unite. Ammonire del fatto che l’espansione dell’occupazione mina la soluzione di due Stati, alle orecchie del governo Netanyahu non suona come deterrente ma come musica: il suo obiettivo è infatti proprio quello di impedire a uno Stato palestinese sostenibile ogni possibilità di esistenza.
La comunità internazionale deve prendere atto che la diplomazia delle dichiarazioni ha fallito e che è necessario cambiare strategia, sia che l’annessione unilaterale vada avanti oppure no.
Susie Becher è caporedattrice del Palestine-Israel Journal e fa parte del Policy Working Group.
Traduzione di Cristina Alziati – AssopacePalestina