Derise perché non rispettano il loro ruolo “tradizionale” e private dell’assistenza psicologica: ecco il trattamento riservato alle prigioniere palestinesi
di Samah Jabr
Middle East Eye, 29 maggio 2020
Nel suo libro A Dying Colonialism, Frantz Fanon descrive la mentalità colonialista dei Francesi in Algeria: “Se vogliamo distruggere la struttura della società algerina, la sua capacità di resistere, prima di tutto dobbiamo conquistare le donne; dobbiamo scovarle dietro al velo sotto cui si nascondono e cercarle nelle case in cui gli uomini le tengono segregate”.
In Palestina l’oppressione israeliana sugli uomini e sulle donne si esprime con impatti diversi. Gli uomini subiscono maggiormente la violenza dell’occupazione perché affollano la sfera pubblica, mentre le donne sono prese di mira in altri modi. L’oppressione e il colonialismo aumentano la disparità di genere preesistente perché la violenza politica promuove un atteggiamento “protettivo” che ostacola la partecipazione delle donne alla vita della comunità.
L’occupazione umilia e scredita la virilità dei palestinesi. Non è strano che un uomo umiliato ad un checkpoint riversi il proprio senso di sconfitta interiore su una persona più debole, spesso una donna che lo aspetta a casa.
Incitare al disprezzo
La diffusa indigenza delle famiglie che vivono sotto l’occupazione, unita alla percezione di un futuro squallido, incoraggiano le ragazze a sposarsi in giovane età e i ragazzi ad abbandonare gli studi.
Alle donne sono riservati anche gli insulti dei politici israeliani, che definiscono i loro uteri bombe demografiche a orologeria di fronte ai picchi di nascite che si registrano in Palestina. Come ci racconta il Lancet, questa idea pregiudica alle partorienti l’accesso agli ospedali, costringendole a dare alla luce i loro bambini nei checkpoint, con conseguenze tragiche in termini di mortalità per neonati e mamme.
Le tattiche basate sul genere sono anche utilizzate contro le attiviste palestinesi, per screditarle privandole della loro femminilità e posizione sociale, e incoraggiando gli uomini a disprezzarle.
Ad esempio, in un post pubblicato su Facebook nel 2018, un portavoce dell’esercito israeliano di occupazione riportò il messaggio che segue sotto l’immagine di una manifestante di Gaza: “La brava donna è una donna rispettabile, la donna che si prende cura della casa e della prole e che dà il buon esempio. Tuttavia, la donna povera che non ha onore non si cura di queste cose, essa agisce contro la sua natura femminile e non si interessa della propria reputazione nella società.”
Commenti sull’onore, la rispettabilità e il ruolo “naturale” delle donne, rinforzano gli stereotipi di genere e dissuadono le donne dall’intraprendere azioni politiche. Alle società e alle famiglie, viene sempre ricordato di segregare la donna nel suo ruolo “tradizionale” per proteggerla da violenze e abusi.
Prigioniere politiche
La disuguaglianza di genere, tuttavia, si manifesta al massimo nelle esperienze delle prigioniere politiche. Lavoro con le ex detenute per fornire supporto psicologico e assistenza legale, e questa professione mi ha insegnato molto sulle tattiche di genere e sui tabù culturali utilizzati dal sistema militare israeliano per fare pressione sulle prigioniere donne e sulla società palestinese in generale.
I decenni di occupazione israeliana hanno visto l’arresto di migliaia di donne palestinesi; al pari degli uomini, le donne vengono incarcerate perché attiviste o detenute per esercitare pressione sulle famiglie degli attivisti. A volte, fratelli, mariti o figli, sono spinti a confessare dalle urla delle donne sottoposte a “interrogatori”.
L’estate scorsa la studentessa universitaria Mais Abu Ghosh, fu torturata per un mese; quando accompagnarono i genitori al luogo dell’interrogatorio, la ragazza era irriconoscibile. Le perquisizioni corporali e lo scambio di assorbenti e carta igienica per passare informazioni sono pratiche all’ordine del giorno a cui molte detenute hanno dovuto sottostare.
Le donne incarcerate soffrono soprattutto per la distruzione dei loro legami sociali, spesso relegati alle zone al di fuori dei territori occupati nel ’67. Infatti, nonostante l’Articolo 76 della Quarta Convenzione di Ginevra, ai familiari delle prigioniere spesso non vengono rilasciati i permessi per le visite in carcere.
‘Ho paura’
Alle prigioniere è anche negata l’assistenza psicologica nei momenti di maggiore necessità. Nel gennaio 2018, Israa Jaabis, una madre palestinese di Gerusalemme, accusata di tentato omicidio dopo l’esplosione della sua macchina nei pressi di un checkpoint nel 2015, scrisse una lettera drammatica in cui lamentava che le autorità penitenziarie israeliane le impedivano di vedere suo figlio ed esprimeva la seria necessità di un supporto psicologico.
Scriveva, “Ho paura quando mi guardo allo specchio, immaginate cosa pensano gli altri quando mi vedono,” sottolineando la mancanza di cure psicologiche e mediche nel penitenziario nonostante le regole sancite dalle Nazioni Unite, secondo cui le autorità penitenziarie “devono assicurarsi che [alle prigioniere sia garantito] l’accesso immediato ai servizi di assistenza psicologica specialistica o counselling”.
Le prigioniere subiscono anche le ripercussioni di ciò che accade all’esterno del carcere. Quando un uomo finisce in prigione, molto spesso c’è una donna che si fa in quattro per compensare la sua assenza; quando invece è la donna a finire dietro le sbarre, il suo ruolo di madre è messo in discussione e suo marito viene spinto a cercare una nuova moglie che faccia da “madre per i suoi figli”.
Sebbene non esplicitata, persiste l’idea che una prigioniera sia una donna riprovevole perché ha abbandonato i suoi figli. Un silenzio assordante cala intorno alla possibilità di abusi sessuali durante il periodo di detenzione.
Mentre gli uomini palestinesi sono oggetto di elogi e ammirazione una volta scarcerati, le donne uscite di prigione si trovano ad affrontare lo stigma sociale, hanno difficoltà a trovare un lavoro, a relazionarsi con il partner e ad assumere un ruolo attivo all’interno di una società sempre più “protettiva”.
Violenza strutturale
L’oppressione dei Palestinesi agisce su piani diversi, e usa la violenza strutturale e la repressione politica per minare la libertà e i diritti degli individui. Le donne, specialmente le attiviste e le ex detenute, devono affrontare una serie di battaglie intersezionali nel loro viaggio verso la liberazione.
I movimenti femministi si sono tirati indietro davanti alla battaglia per i diritti delle prigioniere palestinesi, ma sono queste le fonti che abbiamo per far emergere le dimensioni e gli stereotipi di genere dell’occupazione in Palestina e per assicurarci che questi tipi di disuguaglianza e oppressione non siano ignorati.
Ai Palestinesi spetta il ruolo di opporsi a queste dinamiche, che indeboliscono la nostra capacità di resistere all’occupazione e ci rendono maggiormente succubi. Il genere divide il potere. La mancanza di influenza della donna contribuisce al colonialismo e alla creazione di altre relazioni di potere basate sull’etnia e sulla classe sociale.
Una maggiore flessibilità del ruolo di genere aumenterebbe la resilienza dei palestinesi di fronte ai traumi, e permetterebbe alle donne di liberarsi dalle loro prigioni per diventare agenti del cambiamento e della resistenza.
Samah Jabr
Samah Jabr è una psichiatra e psicoterapeuta di Gerusalemme che si occupa di malattie mentali e del benessere della propria comunità.
Le opinioni espresse nel presente articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Eye.
Traduzione di Giulia Incelli – AssopacePalestina