È ora che i leader europei dicano quello che già sanno: la soluzione a due stati è finita

di Hamada Jaber, Ofer Neiman, Angélique Eijpe, e Jaap Hamburger  

Mondoweiss, 18 maggio 2020

Descrizione: Macintosh HD:Users:donatocioli:Desktop:flag-bike1.jpg
Un ciclista palestinese al muro di separazione, nel quartiere di al-Aizaria vicino a Gerusalemme, 1 marzo 2013. Issam Rimawi/Flash90

Per i politici di tipo più autocratico, la pandemia globale COVID-19 sembra essere l’occasione adatta per realizzare i desideri che hanno a lungo accarezzato. In Ungheria, il Primo Ministro Orban ha ottenuto senza sforzo dal parlamento di “governare per decreti”. Negli Stati Uniti, il presidente Trump intende limitare l’immigrazione in modo ancora più rigoroso, “per i prossimi due mesi”.

In Israele, la pandemia, dopo tre elezioni consecutive e ampi sconvolgimenti politici, ha messo insieme i leader di Likud e Blu e Bianco in un “governo di unità nazionale”. Benjamin Netanyahu ha quindi neutralizzato “l’opposizione di principio” di Gantz alla possibilità che lui continuasse con la sua leadership. Il primo ministro israeliano di più lunga durata è autorizzato a guidare il governo per altri 18 mesi e con ogni probabilità troverà il modo di evitare una condanna per le accuse di corruzione. Altrimenti, potrebbe scegliere di rovesciare il governo.

Ma soprattutto, Netanyahu e Gantz credono di poter ora annettere la Valle del Giordano. Questa annessione viene preparata in stretto coordinamento con l’amministrazione americana e nel frattempo ha avuto il via libera dal segretario di Stato americano Mike Pompeo. C’è una certa fretta, perché se Trump dovesse per caso lasciare l’incarico a novembre, a quel punto i fatti compiuti sul terreno dovrebbero essere già completati.

Gantz non si è opposto all’annessione. Durante la campagna elettorale ha dibattuto apertamente con Netanyahu su chi per primo avesse concepito l’idea di annettere la Valle del Giordano. Inoltre non ha mai menzionato una “soluzione a due stati” durante quella stessa campagna. Avrebbe preferito solo che l’annessione fosse eseguita al rallentatore, “in consultazione con la comunità internazionale”.

Gantz crede –forse giustamente– che ci sarà qualche obiezione retorica su quel fronte, come in tutte le svolte di questo tipo negli ultimi settant’anni, ma alla fin dei conti la comunità internazionale non prenderà misure concrete per impedire l’annessione. Netanyahu è più spavaldo: se piace all’America, questo basta. L’UE e il resto della comunità internazionale sono irrilevanti dal suo punto di vista.

L’imminente annessione formale del territorio palestinese è il colpo di grazia per qualsiasi possibile “processo di pace”, basato su una “soluzione a due stati”, cosa che è stata in effetti un mantra illusorio per anni. Ora è tutt’altro che realistico, anzi assurdo, parlare di un “processo di pace” e di una “soluzione a due stati”. È come preparare la gara d’appalto per un omnibus a cavalli, quando in strada ci son già i binari del tram.

La “nuova” realtà è una realtà a stato unico, in cui i diritti sono assegnati alle popolazioni e ai cittadini sulla base dell’etnia o della religione. Comunque si voglia chiamarla –disuguaglianza, discriminazione, apartheid– questa realtà si basa sul rifiuto permanente di uno stato costituzionale e democratico o di qualsiasi cosa che gli assomigli.

Sorge la domanda di quali conclusioni trarranno la comunità internazionale in generale, e in particolare l’UE e il Regno Unito, da questo ultimo drammatico sviluppo. Esiste ora la volontà di affrontare la realtà ed esplorare, formulare e adottare scenari alternativi per una soluzione, lasciando perdere il mantra del negoziato per un accordo a due stati? Molti pensano che un tale cambiamento dovrebbe partire dall’Autorità Palestinese, ma questo non è probabile data la sua dipendenza dal sostegno finanziario occidentale e dall’approvazione israeliana nella pratica, e dato che la sua stessa esistenza si basa sulla finzione del processo di Oslo.

A porte chiuse, politici e diplomatici dell’UE, indipendentemente da differenze nazionali e politiche, riconoscono il fallimento del processo di Oslo e della soluzione a due stati. La formulazione di una soluzione diversa, basata sui concetti fondamentali di parità di diritti per tutti, e di riconoscimento e riparazione delle ingiustizie passate e presenti, è stata tuttavia un passo troppo difficile da compiere per quasi tutti i politici e i partiti europei. La paura di essere etichettati “anti-Israele” o, peggio ancora, “antisemiti” è molto viva in tutta Europa e in particolare nel Regno Unito, dove questa etichettatura ha danneggiato alcuni politici in modo irreparabile.

I politici e i personaggi influenti sapranno fare coraggiosamente un passo avanti e spezzare questo maleficio, rifiutando di insistere con una politica evidentemente fallita e perseguendo invece il concetto fondamentale della parità di diritti per tutti? Se lo faranno, sarà un semplice riconoscimento della realtà dei fatti e anche un passo avanti dal punto di vista morale.

I vecchi mantra del processo di Oslo hanno perso ogni credibilità. Persino Dennis Ross, ex diplomatico americano coinvolto in diversi cicli di negoziati nel processo di Oslo, riconosce ora che una soluzione a uno stato basata sul concetto di parità di diritti per tutti è il risultato più verosimile.

Se i politici europei non se la sentono di parlare direttamente e personalmente, potrebbero adottare un approccio strategico e chiedere la consulenza di esperti indipendenti, ad esempio dall’Istituto dell’Unione Europea per gli Studi sulla Sicurezza o da uno dei tanti altri organi consultivi disponibili. Lasciare agli esperti indipendenti una revisione degli indirizzi generali e utilizzare i loro consigli come base per le scelte politiche.

Inoltre, i parlamentari europei, i leader politici e i partiti potrebbero indagare congiuntamente o indipendentemente su altre possibili soluzioni. Anche se non è facile, sarebbe una cosa razionale dato che praticamente tutti riconoscono il fallimento dell’attuale linea politica.

Va anche notato che esiste già, sia tra i Palestinesi che tra gli Israeliani, un sostanziale consenso a soluzioni alternative basate sulla parità di diritti per tutti e sulla riparazione delle ingiustizie passate e presenti. Per l’UE, non si tratta di sviluppare un nuovo approccio in “splendido isolamento”, ma di portare avanti nuove politiche che hanno già un consenso locale. L’UE e il Regno Unito potrebbero basarsi su tale sostegno e trarne insegnamento.

L’attuale realtà palestinese-israeliana è più che mai scoraggiante. Al tempo stesso, è anche chiaro che un’ulteriore istituzionalizzazione della disuguaglianza è insostenibile. L’apartheid permanente non è una scelta obbligata. Il cambiamento è possibile. Per citare Nelson Mandela, “sembra sempre impossibile fino a quando non è fatto”.

Quale ruolo sceglieranno l’Unione Europea e il Regno Unito? Opteranno per l’accettazione di fatto della situazione attuale, borbottando qualche obiezione, o svilupperanno e avalleranno un approccio alternativo basato sui loro principi democratici di giustizia e pari diritti per tutti? Questa è una scelta politica ma anche una scelta morale.

Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina

Lascia un commento