Checkpoint, divieti di accesso e perquisizioni: reportage dalla città in cui 40mila palestinesi non sono liberi di muoversi. E dove organizzazioni dal basso rispondono con la non-violenza all’espansione della presenza militare israeliana
Altreconomia 225, 1 Aprile 2020
I Giovani Contro gli Insediamenti di cui si parla nell’articolo è il gruppo che i partecipanti ai nostri viaggi di conoscenza incontrano sempre. È con loro che ogni anno, nell’anniversario del massacro compiuto il 25 febbraio del 1994 nella moschea di Abramo e Tomba dei Patriarchi da Baruch Goldstein, colono, portiamo avanti la campagna Open Shuhada Street. I giovani di YAS vengono in Italia con AssopacePalestina per testimoniare la loro condizione di vita quotidiana. (AssopacePalestina)
Arrivare fino alla sede dello Youth Against Settlements di Hebron da piazza Tarq Ben Zid non è facile. Il primo ostacolo da superare è una grigia postazione militare installata all’inizio di Shuhada Street dove i soldati israeliani di turno controllano i passaporti di chiunque voglia attraversare la vecchia via del mercato. Da qui fino allo YAS, l’organizzazione nata nel 2006 per contrastare l’espansione delle colonie israeliane attraverso la non-violenza e la resistenza dal basso, la presenza dei militari è costante. Proseguendo verso Ovest ci si imbatte in un edificio grigio il cui ingresso è protetto da soldati, telecamere e alti cancelli. Si tratta della vecchia stazione degli autobus, trasformata anni prima in una caserma per i militari posti a guardia degli 800 coloni che vivono nell’area.
Oltrepassato l’edificio sotto lo sguardo attento dei suoi occupanti resta un ultimo ostacolo da superare: il militare che dall’alto della sua postazione controlla l’accesso alla scalinata che conduce allo YAS. Una volta ottenuto il suo via libera è possibile attraversare lo stretto e cigolante cancello che blocca l’accesso ai gradini e arrivare così in un verdeggiante campo di ulivi. È qui che si trova la sede dello YAS, un bianco edificio su cui sventola una bandiera della Palestina.
Ma per i Palestinesi, che rappresentano la quasi totalità della popolazione di Hebron, raggiungere la sede dell’organizzazione è ancora più complicato. Shuhada Street è per loro zona off-limits dal 1997, anno in cui Israele e l’Autorità nazionale palestinese firmarono il “Protocollo di Hebron” dividendo la città in due parti per evitare contrasti tra le comunità. Da quel giorno, gli Ebrei vivono unicamente nel centro storico, zona in cui la libertà di movimento dei Palestinesi è limitata a poche strade controllate dai militari israeliani.
“Viviamo in una situazione di apartheid. Sono un Palestinese che non ha diritto a muoversi liberamente nella propria città e che deve rispettare la legge militare israeliana. Israele si comporta da democrazia e afferma di rispettare i diritti umani, ma la realtà è ben diversa”. Seduto all’ombra del vecchio ulivo che si staglia al centro del giardino, Issa Amro spiega come funziona Youth Against Settlements, organizzazione da lui stesso fondata. “Facciamo largo uso dei media; documentiamo le violazioni dei diritti umani anche grazie all’aiuto delle famiglie che vivono vicino alle colonie e alle quali abbiamo dato delle telecamere; cerchiamo di opporci in sede legale all’amministrazione israeliana; portiamo avanti campagne internazionali come quella per riaprire Shuhada Street; aiutiamo le famiglie riparando i danni causati da coloni o soldati alle abitazioni o al sistema idrico e fognario; recuperiamo spazi pubblici inutilizzati, come la nostra stessa sede. Questo posto in precedenza era un avamposto militare, ma quando i soldati lo hanno abbandonato nel 2006 noi ne abbiamo preso possesso e lo abbiamo riconvertito”. Opporsi all’occupazione israeliana però ha un prezzo, come sa bene Issa Amro. “I coloni minacciano noi e le famiglie che collaborano con lo YAS. Io stesso sono stato attaccato verbalmente e fisicamente, e sono stato arrestato più volte dai soldati israeliani”. Arrendersi però non è un’opzione: “È nostro dovere di Palestinesi resistere all’occupazione israeliana. Il cambiamento che desideriamo non arriverà da solo”.
Meno di 30 anni fa la vita a Hebron era diversa. A raccontare la storia della città è Bassam, guida turistica locale: “Tutto è cambiato il 25 febbraio 1994 quando il colono Baruch Goldestein aprì il fuoco contro i musulmani riunitisi in preghiera in occasione del Ramadan, uccidendone 29 e ferendone altri 100”. I segni della sparatoria sono ancora visibili sul muro della Tomba dei Patriarchi, uno dei luoghi più sacri di tutta la Cisgiordania. Mentre parla, Bassam guida il gruppo di turisti all’interno della moschea. I passi sono attutiti dal tappeto rosso che ricopre il pavimento. “Da quel momento in poi Hebron non è stata più la stessa”, afferma.
La città, l’unica di tutta la Cisgiordania ad avere insediamenti al suo interno, è stata divisa in due zone: H1 e H2. La prima, amministrata dall’Autorità Nazionale Palestinese, comprende l’80% del territorio cittadino, mentre la seconda corrisponde all’area dove 800 coloni vivono a stretto contatto con 40mila Palestinesi limitati nei loro spostamenti e costretti a passare giornalmente per rigidi controlli di sicurezza. Ad ogni checkpoint gli uomini devono alzare la maglia e l’orlo dei pantaloni, le donne svuotare le borse e farsi controllare dalle soldatesse mentre i bambini sono obbligati a mostrare il contenuto dei loro zaini. Ma i problemi dei Palestinesi non si limitano soltanto ai controlli di sicurezza. “Di recente i coloni hanno occupato un altro edificio lungo la strada che conduce alla Moschea. Tutti qui nel centro storico temono di trovare la loro casa occupata o la porta sigillata, come è successo in Shuhada Street”. Nella ex via del mercato i negozi sono stati chiusi per ordine militare e chi vive sopra le vecchie botteghe è costretto a passare per i tetti e le scale di palazzi vicini per tornare a casa, come raccontano gli abitanti della zona.alloggio ai turisti che vogliono conoscere la storia e la cultura della città. Il suo fondatore è Ayman al Fakhori. “In casa mia non si parlava quasi mai della questione palestinese. Per questo ho capito quanto fosse capillare l’occupazione solo all’università, quando un mio collega non ha potuto sostenere un esame perché i militari non gli hanno permesso di lasciare il campo profughi in cui viveva”. Quel giorno qualcosa è scattato in Ayman. Seduto sul divano dell’associazione con il narghilè in mano, spiega che il suo obiettivo è rendere Hebron un posto migliore attraverso la cultura e il turismo. “Sono stato arrestato 22 volte per il mio lavoro, i coloni e i soldati mi hanno spesso aggredito e minacciato ma credo che la non-violenza sia la strada giusta da percorrere”.
A reclamare il diritto a vivere ad Hebron però è anche Yishai Fleisher, il portavoce dei coloni. Le sue parole risuonano nell’antica sinagoga restaurata che si erge al centro dell’insediamento di Avraham Avinu, la cui entrata è presidiata dai militari e segnalata dalle bandiere blu e bianche dello Stato ebraico. “Hebron è la culla della nostra civiltà. In tanti hanno cercato di mandarci via, ma non ce l’hanno fatta. In futuro spero che la città passi totalmente sotto il controllo di Israele, ma fino a quel momento noi continueremo a restare qui”.
Poco più avanti la via è sbarrata dal checkpoint di Shuhada Street, uno degli ostacoli che i bambini e i ragazzi che vivono nella zona devono superare ogni giorno per arrivare a scuola. Gli episodi di violenza contro gli studenti palestinesi sono numerosi: come riportato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) il 90% ha subito una violenza fisica e verbale da parte di coloni e soldati o è stato arrestato nel tragitto casa-scuola. A compromettere l’accesso all’educazione dei minori sono anche le perquisizioni costanti e i lanci di lacrimogeni contro le strutture scolastiche. Nel 2019 OCHA ha registrato 126 incidenti all’interno o nei pressi delle scuole in cui sono rimasti coinvolti 3.500 studenti.
“I soldati limitano il diritto all’istruzione dei bambini e così facendo danneggiano volontariamente le generazioni future”, spiega Omar Rajabi, manager dello Sharek Center. “Alcuni studenti hanno smesso di andare scuola perché hanno troppa paura, per questo offriamo loro corsi gratuiti”. Il centro sorge a poca distanza da piazza Tarq Ben Zid e si raggiunge dopo aver superato l’ennesimo checkpoint israeliano. Al suo interno ci sono aule, laboratori, una sala conferenze e una biblioteca che occupa quasi interamente il primo piano. Mentre parla, Omar indica gli scatti realizzati dagli studenti del corso di video making e fotografia appesi alle bianche pareti del centro. “I ragazzi usano queste competenze per esprimere sé stessi e per documentare le aggressioni che subiamo nella zona H2”. Anche per Omar e i suoi colleghi svolgere il proprio lavoro non è privo di rischi: “I soldati ci hanno spesso ostacolato, ma noi andiamo avanti comunque”.