La paura del coronavirus stringe ormai tra le sue grinfie il mondo intero, e né Israele né i Territori Occupati fanno eccezione. Tranne che per una cosa: che i palestinesi della West Bank e della Striscia di Gaza dipendono completamente dal governo israeliano per difendersi dalla pandemia. E che ad oggi Israele si è del tutto sottratta alle sue responsabilità. Sì, perché le autorità israeliane sono convinte che il loro unico dovere sia quello di impedire ai palestinesi di entrare nel vero e proprio Israele (pur prendendo in considerazione anche l’opzione di tagliare via alcuni quartieri di Gerusalemme Est dalla città, sottraendosi anche alla responsabilità di occuparsi dei palestinesi che vi risiedono), coordinarsi con l’Autorità palestinese e rilasciare permessi a qualche entità internazionale per portare attrezzature a Gaza.
Ma è nostro dovere ricordare, e ricordarlo anche agli altri, che Israele ha la responsabilità di tutelare la salute di tutti i 14 milioni di persone che vivono sotto il suo controllo, dal Giordano al Mediterraneo – compresi i palestinesi della West Bank e di Gaza. Una responsabilità che comporta dare risposta ai bisogni d’emergenza, fornire le cure mediche essenziali e le attrezzature necessarie, nonché adottare le misure necessarie ad evitare il diffondersi del contagio. Cosa particolarmente rilevante in quanto lo stato disperato in cui versa il sistema sanitario palestinese è conseguenza diretta di decenni di occupazione israeliana.
Ad oggi, all’interno della striscia di Gaza sono stati rilevati 12 casi di coronavirus. Ora, è evidente che ogni ulteriore diffusione del virus porterebbe a un disastro di orribili proporzioni, dato l’estremo sovraffollamento della Striscia e le devastanti conseguente dei quasi 13 anni di blocco imposto da Israele. Il sistema sanitario di Gaza è collassato ben prima del primo paziente covid-19; la povertà estrema e le insopportabili condizioni di vita hanno avuto un effetto catastrofico sulla salute pubblica anche prima dell’esposizione al virus. Ma è stato Israele a creare la realtà di Gaza, ragion per cui è Israele ad avere la responsabilità della salute dei due milioni di cittadini che vi abitano. E Israele non potrà fingersi innocente se questo scenario da incubo dovesse concretizzarsi, se non avrà fatto fin dall’inizio tutto il necessario per impedirlo.
I primi pazienti affetti da covid-19 nella West Bank sono stati individuati a Betlemme all’inizio di marzo, dopo di che la città è stata messa in quarantena per evitare il diffondersi della malattia. Marwa Ghannam, una coordinatrice dati di B’Tselem che si è trasferita in questa città pochi giorni prima del blocco, condivide con noi le sue impressioni e i suoi sentimenti:
Da un trasloco pieno di speranza alla quarantena
Ho 30 anni, e sono di Haifa. Mi sono trasferita a Betlemme per poter vivere in un grande appartamento da sola. Conoscevo poco la città, circondata da checkpoint e dal Muro di Separazione. Sapevo che avrei dovuto passare un checkpoint per andare a lavorare a Gerusalemme e poi per tornare a casa. Ma dopo sette anni a Gerusalemme ho trovato l’appartamento dei miei sogni in questa affascinante città palestinese, in una vecchia casa di pietra con un sacco di finestre, di sole e di speranza.
Quando mia madre mi diceva che un giorno i checkpoint avrebbero potuto chiudersi, ed io non sarei più stata in grado di andarla a trovare, io la rassicuravo dicendo che la cosa non sarebbe mai accaduta. Scrivendo per lavoro dettagliati rapporti per B’Tselem sui blocchi stradali e la chiusura di villaggi della West Bank, sapevo che la cosa invece sarebbe potuta accadere, ma ad ogni modo mi sforzavo di risparmiare a mia madre quella preoccupazione.
Bene: il 9 marzo del 2020, invece, è accaduto. Una nuova occupazione: quella del virus.
Le direttive del ministero della sanità mi hanno condannata – come tutti gli altri residenti di Betlemme – a quattordici giorni d’isolamento. E così mi sono chiesta: “Quarantena? Perché una quarantena? È da una settimana ormai che il ministero della sanità israeliano ha pubblicato i rapporti epidemiologici relativi ai pazienti di Israele, ma nessuno sta mettendo in quarantena le loro città e comunità!” È stato un vero e proprio shock per me e per gli abitanti di Betlemme e della West Bank. Ma alcuni amici mi hanno detto che, nel 2002, Betlemme era stata completamente sigillata per 40 giorni, quindi si poteva pensare che la gente ci fosse abituata.
E così ho cominciato la mia nuova vita. Lavoro da casa. Mi vedo con gli amici in video chat e parlo con la mia famiglia da lontano, cercando di cancellare la nostalgia. Ormai, per la maggior parte del tempo, il mondo lo posso vedere solo dalla mia finestra, e a volte nella mia immaginazione.
Un giorno, uscendo di casa per fare la spesa, ho sentito un uomo suonare le campane della chiesa in cima al campanile, e da una moschea poco lontana la voce di un muezzin che si univa al coro. Ho raggiunto la mia auto nella città deserta. Pioveva. Nella mia testa, scrivevo la sceneggiatura di un’apocalissi.
Ora i quattordici giorni di quarantena sono finiti, ma i più recenti sviluppi hanno messo in quarantena l’intero paese. E così ho dovuto decidere se fermarmi a Betlemme fino a Dio sa quando o cercare di tornare a casa dei miei genitori, sfidando quarantena e checkpoint.
Ho fatto le valigie, acceso il motore dell’auto e sono tornata dai miei.
Marwa Ghannam, Coordinatrice dei dati di B’Tselem
B’Tselem ha cominciato a prepararsi a questa crisi già da febbraio. Quando le previsioni si sono fatte negative, e le prime restrizioni agli spostamenti sono state imposte in Israele e nei Territori Occupati, tutti noi ci siamo adattati in fretta alla nuova realtà adottando misure di sicurezza per poter proseguire nella nostra opera d’inchiesta e d’informazione: i nostri ricercatori sul campo, ora, stanno svolgendo il loro complicato e delicato lavoro da casa, pubblicando in tutto il mondo gli aggiornamenti relativi alla loro realtà.
Mentre in tutto il mondo le persone affrontano significative restrizioni alla libertà di movimento per la prima volta nella loro vita, per i palestinesi dei Territori Occupati esse sono da lungo tempo la norma, non l’eccezione. Mentre tutti noi aspettiamo con ansia la fine di questa crisi, sappiamo bene che per i palestinesi essa non significherà il recupero della libertà di movimento quanto piuttosto la sua negazione per le vecchie, inaccettabili ragioni.
Ecco alcuni dei fatti coperti da B’Tselem nelle ultime settimane:
• Il 26 marzo, alle 7:30 del mattino, rappresentanti dell’Amministrazione civile a bordo di jeep militari, di un bulldozer e di vari camion si sono presentati a Khirbet Ibziq, nella zona nord della Valle del Giordano, e hanno confiscato pali e teli con cui si volevano erigere alcune tende destinate a un ambulatorio e a un pronto soccorso d’emergenza per la comunità. Mentre il mondo combatte contro una crisi paralizzante e senza precedenti, l’esercito di Israele dedica tempo e risorse a tormentare le comunità palestinesi più vulnerabili della West Bank, che Israele ha cercato per decenni di scacciare dall’area. La pandemia non discrimina in base alla nazionalità, alla religione o all’etnia, e specialmente ora Israele è responsabile della salute e del benessere dei cinque milioni di palestinesi che vivono sotto il suo controllo. L’Amministrazione Civile ha annunciato che per ora non eseguirà gli ordini di demolizione contro gli edifici abitati. Ad ogni modo, questo impegno formale (anche ammesso che venga rispettato) è ben lontano dai requisiti minimi per una potenza occupante durante una pandemia. È orribile che nemmeno nelle attuali circostanze Israele non annulli tutte le demolizioni e non riconosca la propria responsabilità nell’assicurare alle persone affidate alle sue cure abitazioni adeguate, acqua potabile, elettricità e servizi sanitari.
• Spaccare le finestre di case nel cuore della notte, invadere violentemente una tenda residenziale, aggredire i passanti e cercare di strappar via un bambino piccolo dalle braccia del nonno, distruggere i raccolti, tagliare le gomme delle auto e scrivere con lo spray slogan d’odio – sono solo alcuni esempi degli atti violenti recentemente compiuti dai coloni, che continuano ad aggredire i palestinesi e a danneggiare le loro proprietà in tutta la West Bank, esattamente come se non ci fosse il coronavirus. Date un’occhiata al nostro blog speciale dedicato agli atti di violenza compiuti in questo periodo. Come abbiamo documentato infinite volte nel corso degli anni, tali aggressioni sono spalleggiate e incoraggiate dalle autorità di Israele.
• Nonostante una crisi sanitaria senza precedenti imponga ai residenti di Israele e dei Territori Occupati il distanziamento sociale, la polizia israeliana continua a portare avanti la sua “operazione” di persecuzione nel quartiere ’Esawiyah di Gerusalemme Est, giorno e notte. I raid notturni, comprendenti falsi arresti di minorenni, va avanti ormai da un anno. L’“operazione” prevede che la Polizia di frontiera e Unità speciali di pattugliamento entrino in quel sovraffollato quartiere senza alcuna ragione, creando – su loro iniziativa e con la loro sola presenza – attrito con i residenti. Queste forze usano poi gli scontri che ne derivano per giustificare ulteriori atti di violenza.
• Scioccanti materiali video pubblicati online hanno suscitato aspre reazioni e chiarito fino a che punto di bassezza Israele intende spingersi per realizzare la politica di utilizzare cadaveri palestinesi come merce di scambio. Muhammad a-Na’am, 27 anni, attivista della Jihad islamica, è stato ucciso da un missile israeliano poco lontano dalla recinzione perimetrale di Gaza il mattino del 23 febbraio del 2020. Ciò che è accaduto dopo è stato catturato dalla telecamera: come in un agghiacciante videogioco preso dalla caotica realtà di Gaza, si è scatenato uno scontro sanguinoso fra un bulldozer, un carro armato, soldati armati, uomini della Jihad islamica, paramedici e innocenti abitanti della zona. In mezzo a tutto ciò giaceva il cadavere di a-Na’am, che i soldati israeliani impedivano di portare via sparando pallottole vere ai piedi di chiunque cercasse di avvicinarsi. Il risultato è stato terribile quanto prevedibile: due palestinesi colpiti alle gambe e uno morto, e il cadavere, mutilato, è stato e trascinato da un bulldozer in territorio israeliano per essere usato come merce di scambio in future trattative.
• Quattro ragazzi vanno a fare un giro in macchina. Finiscono ammassati nell’auto, con le pallottole che gli fischiano sopra la testa, e poi vengono interrogati per due ore perché sospettati di “tentato attacco con auto a mo’ di ariete” L’esercito israeliano ha annunciato di aver fatto partire un’indagine militare contro i soldati che hanno mandato l’auto fuori strada e aperto il fuoco senza alcuna ragione, ma non c’è di che essere ottimisti: nel reame dell’occupazione, tali indagini non sono altro che un sofisticato meccanismo di copertura .
• Bader Nafle, palestinese di 19 anni, è stato ucciso il mese scorso durante una manifestazione contro il piano di Trump nelle vicinanze della Barriera di Separazione. La pallottola che l’ha ucciso è stata sparata da un soldato che aveva aperto la portiera della sua jeep blindata mentre Nafle si trovava a qualche decina di metri di distanza. Leggete la nostra indagine sulle circostanze della sua morte.
Sui media:
“Ce la farà Gaza ad affrontare il covid-19 dopo anni di blocco?”, Hazem Balousha e Oliver Holmes “The Guardian”.
“Il coronavirus sarebbe una catastrofe per noi nella Striscia di Gaza”, Olfat al-Kurd, ricercatore sul campo di B’Tselem nella Striscia di Gaza, “The Times of Israel”.
“Nonostante la pandemia, Israele non riesce a trattare i suoi sudditi come eguali”, Hagai El-Ad, direttore esecutivo di B’Tselem, rivista “+972”.
“Le demolizioni di case e i raid polizieschi di Israele contro le città palestinesi ‘minacciano la salute pubblica’ se i casi di coronavirus dovessero aumentare”, Bel Trew, “Independent”.
“La quarantena di Israele contro il coronavirus blocca le azioni di tutela dei diritti umani, ma non gli abusi”, Judith Sudilovsky, rivista “+972”.
“Solo la Corte Penale Internazionale dell’Aja può fermare Israele”, contributo esterno di Hagai El-Ad, direttore esecutivo di B’Tselem, “Haaretz”.
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Gli attivisti di B’Tselem