Per noi occidentali l’isolamento serve a salvare vite, a Gaza ne ucciderà molte

Neve Gordon

Haaretz, 6 aprile 2020

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Un poliziotto con la mascherina fa la guardia mentre i Palestinesi aspettano fuori da una banca per prelevare contanti, Gaza City, 29 marzo 2020. Mohammed Salem / Reuters

Quando le persone hanno cominciato a condividere il post di Facebook “Caro mondo, com’è il blocco? – Gaza ”, mi son sentito a disagio. Anche se chi metteva quel post cercava di suscitare empatia per i 2 milioni di Palestinesi intrappolati nella Striscia di Gaza, il tentativo di confrontare la chiusura che i cittadini occidentali stanno vivendo con l’assedio di 13 anni sulla Striscia mi pareva, quanto meno, di cattivo gusto. Ora che il virus ha attraversato i checkpoint militari e 12 Palestinesi sono stati diagnosticati come infetti, l’asimmetria di questo confronto diventerà tragicamente chiara.

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Caro mondo, com’è il blocco? Gaza

I residenti di Gaza soffriranno non solo per le conseguenze naturali causate dal virus, ma per il fatto che l’assedio a cui sono sottoposti li mette in estremo svantaggio rispetto a tutti e tre i fattori che sono considerati vitali per combattere l’epidemia di coronavirus: i servizi sanitari, le condizioni sociali che determinano il livello di salute e la possibilità di mantenere le distanze sociali tra una persona e l’altra.

Servizi sanitari

Nelle ultime settimane sono state pubblicate molte informazioni sulla preparazione dei sistemi sanitari del mondo e su quanto ciò influisca sui livelli di mortalità da coronavirus. Basandosi sulla Corea del Sud –che a differenza dell’Italia e della Spagna è riuscita a ottenere un notevole controllo sulla diffusione del virus– gli esperti sostengono che i test con i tamponi sono fondamentali per salvare vite umane. Ma oggi a Gaza ci sono pochissimi kit per i test (circa 200) e al 24 marzo erano state analizzate solo 144 persone.

Sappiamo anche che in alcuni paesi la gente muore perché gli ospedali non possono far fronte all’enorme numero di pazienti che hanno bisogno di ventilatori. I medici negli Stati Uniti e in Israele avvertono che il numero di ventilatori disponibili ­– rispettivamente 52 e 40 ogni 100.000 persone– non è sufficiente. Nel frattempo, a Gaza, ci sono 3 ventilatori ogni 100.000 persone, un rapporto che finirà per essere una condanna a morte per molti.

Gaza ha circa 30 ospedali e cliniche maggiori che forniscono 1,3 posti letto ogni 1.000 persone. Israele ne ha più del doppio  –3,3 posti letto disponibili ogni 1.000 persone– mentre nell’UE la media è di 5,4. La differenza tra Gaza e Israele che occupa l’enclave da 40 anni e continua a controllarne i confini, non è solo estremamente grave, ma è anche un’espressione di ciò che la prof.ssa Sara Roy dell’Università di Harvard ha chiamato “de-sviluppo”: il deliberato indebolimento delle capacità economiche e sociali della popolazione di Gaza.

Condizioni sociali che determinano il livello di salute

Il quadro che emerge da una analisi piuttosto ristretta delle capacità mediche per combattere il virus in una determinata area è probabilmente incompleto. Una delle cose che sottolineo nel corso di Diritti umani e salute pubblica, che tengo alla Queen Mary University di Londra nell’ambito del programma globale di salute pubblica, è che le condizioni in cui una persona nasce, cresce, vive e lavora non sono meno importanti della qualità del sistema sanitario a sua disposizione.

Ad esempio, per spiegare il divario tra il tasso di mortalità infantile a Gaza (19,6 morti ogni 1.000 nascite) e in Israele (2,6 ogni 1.000 nascite), o per capire perché gli Israeliani vivono in media 10 anni in più rispetto agli abitanti di Gaza, si deve esaminare non solo il tipo di servizi sanitari disponibili, ma anche le condizioni sociali che determinano il livello di salute di una popolazione.

Il fatto eclatante che il 53 % della popolazione (circa 1,01 milioni di persone) – tra cui più di 400.000 bambini – vive con un reddito inferiore alla soglia internazionale di povertà di $ 4,60 al giorno aiuta a capire perché la vita degli abitanti di Gaza è più breve. L’estrema indigenza e la mancanza di sicurezza alimentare fanno sì che la maggior parte della popolazione non riesce a soddisfare l’apporto calorico giornaliero minimo necessario. Inoltre, più del 90 % dell’acqua di Gaza non è potabile.

Quindi, mentre il governo israeliano sottolinea l’importanza di lavarsi le mani più volte al giorno, i residenti di Gaza sono preoccupati per la mancanza di acqua potabile. Il fatto che la maggior parte dei Palestinesi vive alla giornata ci dice che l’effetto del coronavirus su Gaza sarà mille volte più grave che per altri paesi.

La capacità di mantenere la distanza sociale

Non esiste alcuna possibilità di isolamento a Gaza. La storia delle epidemie mostra che la quarantena è uno dei modi più efficaci per prevenire la diffusione di un virus. Ma come possono i 113.990 rifugiati che vivono nel campo profughi di Jabalya, che si trova su 1,39 chilometri quadrati di terra, rimanere fisicamente distanti l’uno dall’altro?

Nel campo A-Shati, la densità di popolazione è ancora maggiore: 85.628 rifugiati vivono su 0,51 chilometri quadrati. Il campo ha solo una clinica e un centro di distribuzione alimentare per l’intera popolazione. In altre parole, negli otto campi profughi di Gaza, i sistemi di sopravvivenza esistenti – servizi sanitari e approvvigionamento alimentare – diventeranno pericolosi colli di bottiglia, terreno di coltura per il virus letale.

Il governo di Hamas è ben consapevole dei pericoli incombenti, ma ha poche scelte a disposizione. Le scuole sono state svuotate e servono come centri di quarantena, con otto persone alloggiate in ogni classe e circa un bagno ogni 200 uomini e donne. È come se si riempisse di prigionieri una cella di isolamento sperando che non si infettino l’uno con l’altro.

Ogni esperto sa che le carceri sono l’habitat ideale per un virus. All’inizio dell’epidemia, l’Iran ha immediatamente rilasciato 70.000 prigionieri e altri paesi hanno seguito quell’esempio. Ma Gaza stessa è una prigione, per di più in pessime condizioni dopo anni di blocco.

I Palestinesi di Gaza non hanno lo spazio fisico sufficiente per rispettare le distanze che gli esperti di salute pubblica raccomandano e il loro sistema sanitario, per decenni affamato di risorse, non sarà in grado di far fronte agli avvenimenti. Né è ragionevole aspettarsi che altri paesi offrano assistenza quando l’epidemia infuria nei loro stessi territori, senza contare il peggioramento globale della crisi economica.

Non sappiamo quanti Palestinesi moriranno, ma ciò che è chiaro è che l’isolamento che stiamo vivendo noi e quello in cui vivono da anni gli abitanti di Gaza sono totalmente diversi. Per noi, l’isolamento ha lo scopo di salvare. A Gaza, il blocco ucciderà.

Neve Gordon

Il Prof. Neve Gordon insegna alla School of Law della Queen Mary University di Londra.

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Traduzione di Donato Cioli – Assopace Palestina

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