L’artista palestinese incarcerato da Israele per il ‘crimine’ di ispirare il suo popolo

di Asa Winstanley

Middle East Monitor, 29 febbraio 2020

Hafez Omar, artista palestinese arrestato dalle forze israeliane nel marzo 2019 [Twitter]

Oggi sarà anche seduto a marcire in una cella israeliana, ma nel 2012 i poster del grafico palestinese Hafez Omar hanno incendiato internet. In particolare su Facebook i suoi semplici, iconici, anonimi avatar marroni a sostegno dei prigionieri palestinesi detenuti da Israele si sono diffusi a macchia d’olio. Su tutti i social media la gente cambiava la propria foto profilo con una delle versioni, maschile o femminile, dei suoi avatar.

In un’intervista del 2013, Omar ha spiegato che il suo lavoro attingeva a una tradizione palestinese di poster politici popolari molto antica. Questa tendenza, che risale a molti decenni fa, ha sempre contribuito a radunare e ispirare il popolo per resistere a Israele. È un metodo comune per la mobilitazione di massa in molte società del mondo.

Il lavoro di Omar per molti versi era una moderna, digitale estensione nel regno dell’online di quel lavoro. In quell’intervista egli notava come considerasse incoraggiante il fatto che il popolo palestinese stesso adottava e stampava i suoi manifesti. “Lo considero come il segno che sono ancora con la gente quando vedo che la gente [ha] stampato e [sta] usando le cose che io disegno”.

Hafez Omar non è un criminale; non è un “terrorista” e neanche un “estremista”. Non è neanche un partigiano della resistenza. Il solo “crimine” che egli ha commesso è lottare per i diritti del suo popolo, il popolo della Palestina. Per questo Israele lo tiene imprigionato senza processo da quasi un anno.

I mascalzoni dell’esercito israeliano hanno rapito per la prima volta Omar nel marzo dello scorso anno. Durante l’interrogatorio, gli israeliani pretendevano di conoscere “le sue opere e pubblicazioni sui social media, specialmente quelle a sostegno dei diritti dei prigionieri palestinesi.” Non fu accusato di alcun illecito, eccetto il “crimine” di aver influenzato il suo popolo nel resistere all’occupazione israeliana.

La vita dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane– Cartoon [Arabi 21]

Secondo Human Rights Watch, i falsi capi di accusa degli Israeliani consistevano “quasi interamente in attività pacifiche, come incontri con altri attivisti e coinvolgimento in proteste, tra cui alcune contro l’Autorità Palestinese.” Anche le presunte attività “non pacifiche” di cui è accusato consistono in non specificati “scontri” di quattro anni prima; si sostiene che abbia “lanciato pietre contro le forze di sicurezza [israeliane].”

Anche se Omar l’avesse realmente fatto, sarebbe stato completamente giustificato. Anche la resistenza armata a un’occupazione militare illegale e dispotica è un diritto fondamentale sancito dal diritto internazionale, figurarsi qualche pietra. I soldati israeliani mentono abitualmente su questo, e abitualmente inventano accuse contro i manifestanti palestinesi.

Questo è tutto incredibilmente ben documentato, e io stesso l’ho sperimentato a metà degli anni 2000 nell’area di Gerusalemme quando stavo filmando una pacifica protesta palestinese contro un posto di blocco israeliano. I manifestanti furono immediatamente attaccati dall’esercito di occupazione israeliano che li picchiò e ne arrestò alcuni, lo stesso valse per me in quanto attivista solidale. Tutti insieme siamo stati caricati su un furgone e portati in una stazione di polizia.

Come occidentale con i privilegi conferitimi dal sistema razzista di Israele, sono stato rilasciato dopo poche ore senza alcuna accusa. Prima di andare, mi fu detto dalla polizia israeliana che noi tutti eravamo stati accusati di aver tirato pietre. Questa era una spudorata bugia, ma era ovvio dal modo casuale in cui la bugia fu detta che era una pratica routinaria nella dittatura militare, razzista e segregazionista di Israele, imposta ai Palestinesi della Cisgiordania occupata.

La mia opinione è che Hafez Omar non è colpevole di alcun crimine. Egli è stato incarcerato da circa un anno dalla dittatura israeliana molto semplicemente perché lo stato d’occupazione considera l’esistenza stessa dell’autoctono popolo palestinese un crimine contro il suo razzistico progetto coloniale alimentato dalla perniciosa ideologia sionista.

Questa settimana, quasi un anno dopo il suo arresto, il “tribunale” militare dell’illegale occupazione israeliana a Ofer ha condannato Omar a un anno di galera. In altre parole, l’avevano arrestato e poi, man mano che procedevano, si sono inventati le accuse.

Il sistema israeliano dei “tribunali” militari in Cisgiordania è un sistema razzista, usato solo contro i Palestinesi, non contro i coloni ebrei illegali. Il sistema ha una percentuale di condanna pari al 99,7%, proprio come nei peggiori processi farsa. E, ricordate, questi tribunali sono gestiti da quella che si suppone essere “l’unica democrazia nel Medio Oriente”, uno stato che noi siamo costretti a sostenere incondizionatamente, pena l’essere accusati di antisemitismo. E questa è un’accusa davvero incancellabile. 

Se tutto va bene Hafez Omar sarà rilasciato presto. Tuttavia, come tutti i Palestinesi rapiti dalla dittatura militare israeliana, c’è la minaccia reale che egli sia di nuovo arrestato quasi immediatamente con accuse simili. È così che Israele agisce. La legislatrice palestinese e attivista per i diritti delle donne Khalida Jarrar, per esempio, è entrata e uscita di galera per anni, ed è ancora una volta trattenuta senza accusa né processo dall’infame sistema della “detenzione amministrativa”.

È una falsità affermare che Israele è una democrazia perché le sue politiche e pratiche dimostrano il contrario. Lo stato è una dittatura militare razzista che nega all’autoctono popolo palestinese i suoi più elementari diritti umani. In quanto tale Hafez Omar, l’artista palestinese imprigionato poiché ispira il suo popolo, non deve essere lasciato solo; noi tutti dobbiamo sfidare e resistere alla brutale occupazione di Israele.

Asa Winstanley è un giornalista investigativo che vive a Londra.

Il punto di vista espresso in questo articolo è quello dell’autore e non necessariamente riflette la politica editoriale del Middle East Monitor.

Traduzione di Elisabetta Valento – Assopace Palestina

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