«Fermatevi, così tradite il sogno sionista». Intervista a Zeev Sternhell

di Umberto De Giovannangeli

 Reset , 10 febbraio 2020

Foto: Thomas COEX / AFP

È il più autorevole storico israeliano, più volte premiato in patria e nel mondo, già professore all’Università ebraica e alla Sorbona di Parigi: Zeev Sternhell. Sternhell è autore di opere fondamentali, che hanno fatto molto discutere, sull’ideologia fascista e sul sionismo (Nascita dell’ideologia fascista, Né destra né sinistra, Nascita di Israele, Contro l’illuminismo. Dal XVIII secolo alla Guerra fredda (tutti pubblicati da BCD editore). Nel 2008, il professor Sternhell fu vittima di un attentato che solo per un “miracolo” non gli costò la vita. Trenta settembre: è quasi mezzanotte in un tranquillo quartiere residenziale di Gerusalemme Ovest. Sternhell esce di casa per chiudere il cancello e, in quel preciso istante, una pipe bomb esplode investendolo in pieno. Per fortuna alcune valigie hanno attutito l’impatto (il professore era appena tornato dall’aeroporto), altrimenti l’esplosione l’avrebbe ucciso. Secondo la polizia, l’attentato è stato meticolosamente pianificato. Qualcuno, appostato nelle case di fronte, ha seguito il professore, registrato i suoi movimenti e infine piazzato la bomba per ucciderlo. Impegnato in prima linea contro la destra oltranzista israeliana, il professor Sternhell è uno dei firmatari di un documento, pubblicato su The Independent, durissimo contro il “Piano del secolo” di Donald Trump.

Professor Sternhell, l’appello di cui lei è tra i firmatari è un possente j’accuse contro il “Piano del secolo” messo a punto dall’Amministrazione Trump.

Quel Piano distrugge ogni speranza di una pace giusta e duratura. È la legalizzazione di un regime di apartheid che vige nei Territori Occupati Palestinesi. È la legittimazione delle posizioni più oltranziste della destra israeliana. È un affronto al diritto internazionale. E potrei continuare a lungo nell’elencare le nefandezze di questa vergogna spacciata come “Piano di pace”.

Un Piano che evoca però uno Stato palestinese…

E questa è forse la più vergognosa tra le nefandezze di quel Piano. Perché spaccia per Stato un bantustan e, come c’è scritto nel documento da lei citato, è una tabella di marcia per l’apartheid 2.0. Altro che una buona base per la ripresa dei negoziati! Quel Piano certifica la morte del dialogo. Per quanto mi riguarda, ho sempre ritenuto che la pace con i palestinesi e la nascita di uno Stato di Palestina non siano una concessione fatta al “nemico” né un tributo ad un astratto principio di giustizia. Per quanto mi riguarda, la nascita di uno Stato palestinese è un “regalo” che Israele fa a se stesso, perché solo attraverso la fine dell’occupazione è possibile preservare le fondamenta democratiche dello Stato e la sua identità ebraica. Il riconoscimento di uno Stato democratico di Palestina va visto come condizione per porre fine al conflitto e negoziare i futuri confini fra i due Stati sulla base delle frontiere del 1967. Il riconoscimento di tale Stato è essenziale per l’esistenza di Israele. È l’unico modo per risolvere il conflitto attraverso il negoziato, per evitare l’esplodere di un altro ciclo di violenza e porre fine alla pericolosa condizione di isolamento di Israele nel mondo. La fine dell’occupazione è condizione fondamentale per la libertà dei due popoli, la piena realizzazione della stessa Dichiarazione di Indipendenza di Israele e un futuro di coesistenza pacifica. D’altro canto, l’ipotesi di un unico Stato non solo porta all’eliminazione dello Stato ebraico ma apre la strada a conflitti sanguinosi per generazioni. Due Paesi, fianco a fianco, fondati su uguali diritti per entrambi i popoli, questa è la strada giusta e necessaria: ogni altra scelta condurrebbe al colonialismo istituzionalizzato. Non so se queste considerazioni possano definirsi di “sinistra”. A me pare che siano improntate ad un sano pragmatismo che non dovrebbe avere, in quanto tale, una coloritura politica. Per tutto questo ritengo il Piano Trump una iattura non solo per i Palestinesi ma per lo stesso Israele.

Una coloritura politica l’ha certamente il movimento dei coloni il cui peso politico è sempre più decisivo nella formazione dei governi, come quello attualmente in carica.

Le colonie sono un cancro. E l’ala più estrema del movimento dei coloni è da tempo una minaccia per la democrazia e non solo per la pace. Se la nostra società è incapace di mettere insieme forza, potere politico e determinazione mentale necessari per spostare qualche colonia, ciò starà ad indicare che la storia di Israele è finita, che la storia del sionismo come noi lo intendiamo, come io la intendo, è finita. Resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. E il primo diritto è quello ad uno Stato indipendente, a fianco e non contro lo Stato d’Israele. L’alternativa, che purtroppo già è in atto, non è l’annessione dei Territori palestinesi, ma la realizzazione di un regime di apartheid, che se fosse portato a termine, con il silenzio complice della comunità internazionale, sancirebbe non solo la fine del sionismo ma la morte della democrazia in Israele e per Israele.

Guardando alle frange estremiste del movimento dei coloni, qual è l’atteggiamento da evitare nei loro confronti?

L’indulgenza. L’indulgenza nei loro confronti ha portato ad una situazione degenerativa che non si ferma ai Territori. L’aggressività, la violenza, il concepire chi la pensa diversamente come un “traditore”: al di qua della Linea Verde è stato esportato un metodo di comportamento che quando viene compiuto contro palestinesi nei Territori viene tollerato, spesso neppure indagato e comunque non approfondito.

L’indulgenza. E poi cosa teme?

La connivenza. Quella che porta politici che hanno anche responsabilità di governo a flirtare con le ali estreme del movimento dei coloni.

In un saggio che ha fatto molto discutere, lei ha sostenuto che gli insediamenti impiantatisi dopo la guerra del ’67 oltre la Linea Verde sono “la più grande catastrofe nella storia del sionismo”. Perché?

Perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quella che il sionismo voleva evitare. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Ne consegue che questi diritti sono anche propri dei palestinesi. Perciò il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole precludere ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Insisto su questo punto: resto convinto che l’insediamento nei Territori metta in pericolo la capacità di Israele di svilupparsi come società libera e aperta.

Lei afferma che gli intellettuali sono i “migliori ambasciatori” del sionismo. Ma c’è chi vede proprio nel sionismo la radice ideologica e l’esperienza politica “fatta Stato” che è alla base dell’espansionismo israeliano.

No, non è così. Questa è una caricatura del sionismo o, comunque, ne è una traduzione politica strumentale, in alcuni casi funzionale ad ammantare di idealità positiva una pratica intollerabile. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i palestinesi. Come le ebbi a dire in una nostra precedente conversazione, resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, conferma quanto da me sostenuto in diversi saggi ed articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa, da risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele.

Lei invoca una rivolta culturale, non solo politica, contro l’Israele dell’intolleranza.

Il termine più appropriato è una rivolta delle coscienze. Ecco, quello di cui avverto maggiormente la necessità: lo svilupparsi di un movimento d’opinione capace di scuotere la coscienza collettiva, di trasformare la psicologia di una nazione. Un movimento che dica con forza che nei Territori non possono più esistere due modelli legali, uno per i palestinesi e uno per i coloni. Per quanto mi riguarda, continuerò a sostenere che nei Territori vige un regime coloniale che va abbattuto. Per il bene della pace, per il bene d’Israele.

I coloni oltranzisti l’accuserebbero di “tradimento”, i più benevoli di essere un “sognatore”.

A smuovere il mondo sono i “sognatori”, coloro che hanno il coraggio di portare avanti una visione. Senza questi “sognatori” lo Stato d’Israele non sarebbe mai nato. È un argomento che è stato al centro di nostre precedenti conversazioni. Non possiamo, non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà: ed è la realtà che ci dice che l’occupazione sta corrodendo le basi della nostra democrazia, così come la colonizzazione dei Territori occupati alimenta una cultura dell’illegalità. Tutto questo non ha nulla a che vedere con quei valori che furono a fondamento del pionierismo sionista. Non si tratta di mitizzare il sionismo, ma di avere coscienza che l’obiettivo finale non era solo quello di creare un focolaio nazionale per il popolo ebraico, ma anche di far vivere un Paese “normale”. E questa normalità è oggi minacciata dai terroristi che dicono di agire in nome e per conto del “popolo eletto”.  Dovremmo essere in tanti a gridare: “non in mio nome, assassini”.

Per tornare al “Piano del secolo”. A farlo proprio non è solo Netanyahu ma, anche se con accenti diversi, il suo più accreditato rivale nelle elezioni del 2 marzo: il leader di Kahol Lavan (Blu Bianco) Benny Gantz.

Gantz si sta omologando alle posizioni della destra israeliana, e questa è una scelta che ritengo gravissima perché preclude la costruzione di un fronte alternativo a quello delle destre. Spero che ciò che resta della sinistra nel mio Paese non lo segua su questa strada. Forse Gantz intendeva accreditarsi agli occhi di Trump, ma se fosse così avrebbe commesso un errore imperdonabile, perché quel Piano è l’ultimo regalo che Trump ha fatto al suo amico Netanyahu. Un regalo avvelenato per Israele e per la pace in Medio Oriente.

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