Il piano di pace di Trump dimostra questo, se non altro.
di Zena Agha
Al Shabaka, 5 febbraio 2020.
I Palestinesi sono rimasti vistosamente assenti durante la grande inaugurazione dell’accordo del secolo del presidente Trump. Mentre, martedì scorso a Washington, Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu –uno rischiava l’impeachment, l’altro il processo– hanno posto le condizioni per la sottomissione dei Palestinesi, la leadership palestinese, nella persona del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, ha respinto il piano con “mille no“.
Abbas, che non era nemmeno stato consultato durante la stesura del piano, ha dichiarato sabato scorso che il suo governo avrebbe posto fine a tutte le relazioni con gli Stati Uniti e con Israele. E questo includeva anche la decisione di porre fine al coordinamento della sicurezza tra l’Autorità e Israele. A prima vista, questa potrebbe sembrare una posizione difficile, ma non è la prima volta che Abbas ha fatto questa promessa. E per molti Palestinesi, queste minacce suonano vuote, vista la reiterata incapacità dell’Autorità di fermare l’annessione di fatto della terra palestinese a Israele.
Il piano di Trump rivela ancora una volta l’asimmetria di potere tra Palestinesi e Israeliani, uno squilibrio evidenziato dalla negazione sistematica dei diritti dei Palestinesi e dall’efficienza dell’espansionismo israeliano. Ma questo piano potrebbe essere un punto di svolta, segnando la fine di una presunta leadership autonoma palestinese, e dimostrando che, anche quando i Palestinesi capitolano e collaborano per decenni con i loro occupanti, restano comunque tagliati fuori.
La firma degli Accordi di Oslo nel 1993 – previsti come un accordo provvisorio per cinque anni – ha dato ai Palestinesi una parziale autonomia su frammenti della loro terra, autonomia rappresentata dall’Autorità Palestinese che doveva sostituire l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina come rappresentante ufficiale del popolo palestinese. Con l’aiuto degli Stati Uniti, Israele ha confezionato e sostenuto all’Autorità una leadership palestinese “moderata”, per la quale la liberazione aveva le sue basi nell’esistenza di uno stato – con l’annessa costruzione di una nazione e di una burocrazia – sul 22 percento della Palestina storica.
Invece di lavorare per porre fine all’occupazione israeliana, la leadership palestinese è diventata una componente chiave dell’occupazione stessa. Il coordinamento della sicurezza con l’esercito israeliano, come stabilito negli Accordi di Oslo, è diventato il compito principale dell’Autorità Palestinese: nel suo bilancio economico rappresenta un investimento maggiore di quello riservato ai settori dell’istruzione, della sanità e dell’agricoltura messi insieme. Questo ha eroso la fiducia dei Palestinesi nell’Autorità e ha incentivato la corruzione e il controllo poliziesco sulle comunità palestinesi. Dopo venticinque anni, l’Autorità non è riuscita a garantire pace, giustizia e autodeterminazione per i Palestinesi.
Con il pretesto di lavorare per la pace, il coordinamento della sicurezza ha permesso a Israele di continuare a invadere la terra palestinese occupata, rafforzando al tempo stesso la realtà di uno stato unico. Dopo più di mezzo secolo dall’inizio dell’occupazione e un quarto di secolo dalla firma degli Accordi di Oslo, non è quindi sorprendente che Israele sia ora pronto ad annettere formalmente quasi tutti i suoi insediamenti e la Valle del Giordano (che, messi insieme, rappresentano fino al 30 percento della Cisgiordania).
La vera lezione qui è il carattere usa e getta del partner palestinese, poco importa che gli piaccia o no. L’emarginazione dell’Autorità Palestinese da parte di Trump e Netanyahu ha dimostrato una volta per tutte che i Palestinesi non hanno posto in alcun piano futuro. Questa dinamica non riguarda solo l’attuale amministrazione Trump, sebbene sia stata resa particolarmente esplicita da quest’ultima. I presidenti americani di entrambi i partiti hanno perseguito politiche che hanno ignorato, compromesso e indebolito i leader palestinesi per decenni. Come nel caso dei negoziati di Oslo, le opzioni per i Palestinesi si limitano all’accettazione di un’occupazione permanente o alla sua imposizione forzata Il piano di pace di Trump e la risposta di Abbas mostrano che i Palestinesi non hanno alcun mezzo per obbligare il loro occupante a rendere conto delle sue azioni alla loro attuale leadership politica.
Cosa sarebbe successo se la leadership palestinese non avesse mai rispettato le imposizioni israeliane, in particolare per quanto riguarda il coordinamento della sicurezza? Dove saremmo oggi se i “mille no” fossero stati pronunciati 25 anni fa? Per quanto dolorose possano essere per i Palestinesi, queste domande rappresentano per ambedue le parti un’occasione per reimpostare finalmente il discorso.
Molti Palestinesi, tra cui milioni di rifugiati, non sono più disposti ad aspettare che si facciano negoziati frammentari su brandelli di terra. Ma mentre c’è una generale avversione per un “processo di pace” che ha offerto ben poco ai Palestinesi, altre strade rimangono aperte. Una è quella di puntare sulla Corte Penale Internazionale – un processo già avviato con le recenti indagini sui crimini di guerra commessi da Israele con l’uso della forza nell’attacco a Gaza del 2014 e con il trasferimento di civili israeliani nella Cisgiordania occupata. (Tali sono i timori israeliani che il procedimento penale sia portato avanti, che il piano di pace di Trump proibisce espressamente ai Palestinesi di prendere parte a qualsiasi azione legale.)
Più interessante è la possibilità di ricalibrare l’azione palestinese al livello popolare. Gli organizzatori palestinesi stanno tornando ai principi anticoloniali degli anni ’60 e ’70 e i diritti dei Palestinesi sono sempre più inseriti in un’agenda progressista globale. C’è stata una mobilitazione locale e transnazionale di successo su questioni come la liberazione delle donne, la fine degli arresti di massa, la giustizia climatica e i diritti degli indigeni. Inoltre, se da una parte c’è in Occidente una spinta verso leggi anti-BDS, d’altra parte il sostegno a un movimento BDS pacifico e basato sui diritti continua a crescere in risposta alle richieste dei Palestinesi. Ciò che conferisce slancio e potenza a questi sforzi sta nel fatto che essi aggirano del tutto la sbiadita leadership palestinese. Il loro successo si realizzerà solo se ai Palestinesi saranno concessi i basilari diritti di uguaglianza e dignità.
I Palestinesi rimangono muti ed emarginati, intrappolati tra l’espansionismo israeliano, le inopportune interferenze occidentali e la scarsa leadership interna. Il piano di pace di Trump, a parte il via libera che dà all’annessione, mette a nudo il carattere usa e getta dell’Autorità Palestinese. A parte le ben poche opzioni rimaste, il proclama di Abbas di porre fine al coordinamento della sicurezza è l’ultimo disperato sforzo del capitano di una nave che affonda.
Tuttavia, il secolo scorso ha dimostrato che i Palestinesi non abbandoneranno né il loro diritto al ritorno, all’uguaglianza e alla libertà né la loro richiesta di dignità. Nessuna delle due cose può essere comprata o venduta con lucrosi accordi di investimento e con promesse di sviluppo economico. Solo un programma – e una leadership – abbastanza coraggiosi da promettere questi diritti fondamentali per il popolo palestinese saranno degni del loro sostegno.
Zena Agha
(@Zena_Agha) è una scrittrice e un’analista politica del Palestinian Policy Network Al Shabaka.
Traduzione di Donato Cioli