Il dibattito ideologico sul futuro di Israele-Palestina nasconde il fatto che, nell’ultimo decennio, abbiamo vissuto in realtà in uno stato unico.
di Noam Sheizaf
+972, 27 dicembre 2019
Pochi giorni prima della seconda tornata di elezioni israeliane del 2019, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato una conferenza stampa speciale. C’era molta attesa: il primo ministro stava per dimettersi per combattere in tribunale le accuse penali contro di lui? Avrebbe annunciato il tanto strombazzato patto di mutua difesa con gli Stati Uniti? Gli aiutanti di Bibi hanno segnalato che aveva in serbo qualcosa di ancora più grande.
La rivelazione arrivò il 10 settembre: quella sera Netanyahu promise di annettere a Israele la Valle del Giordano, nel profondo dei territori occupati. Tenne il suo discorso a fianco di una grande mappa della Cisgiordania orientale, che ogni tanto indicava con un puntatore.
“The Valley”, come si dice in Israele, è la regione meno popolata della Cisgiordania. È costituita da una città palestinese, Gerico, e da numerose comunità minori. Ospita anche numerosi piccoli insediamenti di tipo non ideologico. Ma, secondo la maggior parte delle mappe, la Valle del Giordano costituisce tra un quarto e un terzo della Cisgiordania. In passato, quindi, un annuncio sulla futura annessione avrebbe causato una tempesta politica in Israele, poiché avrebbe comportato la morte della soluzione a due stati, la fine dell’occupazione “temporanea” e l’inizio di una nuova era nel conflitto. Per molti, avrebbe significato addirittura la fine della democrazia israeliana.
Non oggi, però. Le parole di Netanyahu hanno suscitato uno sbadiglio collettivo. La stessa cosa è successa diversi mesi dopo, quando il primo ministro ha cercato di sfidare il suo principale avversario, il partito Blu e Bianco di Benny Gantz, ad unirsi a lui nel sostenere l’annessione. Nessuno lo ha preso in considerazione.
La mancata risposta è da attribuire, almeno in parte, al fatto che tali dichiarazioni, fatte la sera degli ultimi sondaggi, sono sempre prese con scetticismo. Ma qui c’era in gioco qualcos’altro: da qualche tempo, Israele tratta la Cisgiordania come sua (e in particolare il 60% del territorio occupato su cui l’Autorità Palestinese non ha poteri). L’annessione aggiungerebbe soltanto formalità giuridica a una situazione alla quale tutti sono abituati da un pezzo.
In pratica, Israele ha già annesso la Cisgiordania. Ha il monopolio sull’uso della violenza nel territorio, sullo spazio aereo, su chi entra e chi esce, sulla moneta e sul registro della popolazione. Israele estrae risorse naturali e scarica lì la sua spazzatura. Costruisce insediamenti per Ebrei e rifiuta qualunque autorità legale tranne la propria.
Questi elementi sono stati cementati nel decennio precedente. I tentativi di sfidarli – attraverso il processo diplomatico o le proteste popolari – sono falliti. Israele è riuscito anche a contenere la violenza. Il vecchio assioma secondo cui “lo status quo non può durare” è stato smentito.
Un altro assioma diceva che Israele non può essere un occupante e uno stato democratico allo stesso tempo e quindi avrebbe dovuto rinunciare a uno dei due: o alla democrazia o al territorio. Anche questo si è dimostrato sbagliato. Il mondo riconosce Israele come una democrazia e come un membro legittimo del mondo occidentale (un mondo in cui alcune critiche a Israele e al sionismo vengono persino messe fuorilegge). Gli stessi Israeliani credono di vivere in una democrazia e, quando non lo fanno, è perché pensano alla corruzione, alla mancanza di buon governo, al potere della magistratura o ai casi legali di Netanyahu. Quasi nessuno dubita di vivere in democrazia per il fatto che il 40 percento della popolazione sotto il dominio israeliano è priva dei diritti civili o di una basilare rappresentanza politica.
A chi guarda da fuori, sembra che nell’ultimo decennio sia cambiato molto poco riguardo al conflitto. Ma in realtà è accaduto qualcosa di molto sostanziale. Questo è stato il decennio della soluzione a un solo stato. Il dibattito ideologico tra uno stato e due stati, che continua ancora oggi, nasconde il fatto che in pratica siamo già tutti in uno stato. Altre idee sono completamente ipotetiche.
La democrazia israeliana consiste in una struttura permanente costituita da due sistemi di governo: uno per i cittadini israeliani (compresi i Palestinesi cittadini di Israele) e un altro sistema autoritario per i Palestinesi senza cittadinanza israeliana. Le persone discutono se questo sia il risultato di una precedente pianificazione o il risultato di una coincidenza storica. Indipendentemente dalla risposta, non c’è dubbio sia sull’esistenza che sulla sorprendente capacità di tenuta di questo modello.
L’occupazione dura da quasi 53 anni. L’Autorità Palestinese è nata 25 anni fa. L’età media in Israele è di poco inferiore ai 30 anni; a Gaza è sotto ai 20 anni. In altre parole, questa è l’unica realtà che la maggior parte degli Israeliani e dei Palestinesi conosce: la realtà di uno stato unico.
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Credo che il segreto del lungo mandato di Netanyahu come primo ministro – il più lungo nella storia di Israele – sia stato la sua capacità di promuovere lo status quo come la migliore soluzione al conflitto. Come ho sostenuto in precedenza, lo status quo è l’opzione meno traumatica per gli Israeliani, dal momento che non richiede loro di affrontare il doloroso processo di fare concessioni territoriali o di incorrere nei cambiamenti molto più drammatici che un singolo stato democratico comporterebbe. Israele può rimanere relativamente sicuro e prospero mantenendo la maggior parte della popolazione palestinese sotto una dittatura militare.[1]
Netanyahu, e in seguito altri nella destra israeliana, hanno capito che quando il mondo ha condannato l’occupazione, li stava minacciando con un’arma scarica. Nessuno negli Stati Uniti o nell’Unione Europea, figuriamoci in altri paesi, era interessato a investire la quantità di risorse necessarie per spingere Israele fuori dalla Cisgiordania e stabilire uno stato palestinese indipendente.
Dopo la primavera araba, quando la stabilità e la sicurezza regionale sono diventate la principale preoccupazione di tutti, è svanita qualsiasi motivazione per drastici cambiamenti e il mondo è stato più che felice di aiutare Israele a mantenere lo status quo. Lo ha fatto finanziando l’Autorità Palestinese (AP); addestrando le sue forze di sicurezza; consentendo e persino sostenendo il blocco su Gaza e le operazioni militari che sono andate di pari passo con l’assedio;[2] e spostando la diplomazia dalle istituzioni internazionali come le Nazioni Unite all’ambito delle amministrazioni statunitensi. Coloro che sono arrabbiati per il modo in cui il presidente Trump ha approvato l’annessione israeliana possono incolpare solo se stessi per aver lasciato innanzitutto che l’America monopolizzasse il conflitto.
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Guardando indietro, sono stupito di quanto lenti siano stati i progressisti, me compreso, a riconoscere queste tendenze. Poiché l’occupazione era una tale aberrazione nel sistema internazionale di sovranità e cittadinanza (neanche i governi autoritari mantengono quasi la metà della loro popolazione nativa nella condizione di “non cittadini”, soggetti alla legge militare), ero certo che Israele avrebbe posto fine all’occupazione da sola, per non finire isolata e costretta a mettervi fine. Anche prima che esplodesse la primavera araba, ho sottovalutato le forze che mantenevano lo status quo. Ho preso per vere le dichiarazioni di funzionari stranieri piuttosto che per quello che erano: belle parole per idee morte. Ho anche creduto che le proteste non violente in Cisgiordania sarebbero state il seme di una grande forza politica per il cambiamento e non sono riuscito a cogliere l’efficacia dell’esercito israeliano e dell’Autorità Palestinese nel sopprimerle e nel mantenere lo status quo.
L’Autorità Palestinese è sempre stata uno strano ibrido: uno stato in attesa con l’aggiunta di un elemento dell’attuale ordine politico. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito al crollo della prima parte; oggi rimane solo il secondo elemento. Il movimento nazionale palestinese si è diviso in più parti, ognuna con la propria agenda politica: residenti di Gaza, Palestinesi di Gerusalemme Est, prigionieri, rifugiati, cittadini arabi di Israele. Ognuno di questi gruppi ha condotto lotte collettive, ma nessuno ha portato con sé gli altri. L’unico gruppo che ha promosso con successo la sua causa sono stati i cittadini palestinesi di Israele. È chiaro perché: nonostante siano discriminati, sono ancora inclusi nel quadro delle istituzioni democratiche israeliane e hanno imparato a trarre vantaggio dai limitati strumenti a loro disposizione. Il loro successo ha dimostrato che non esiste un’alternativa ai diritti civili; quelli che non ce li hanno rimangono semplicemente indietro.
Ad essere onesti, non possiamo separare la crisi della politica progressista in Israele-Palestina dalla crisi globale della politica progressista e di sinistra. Culturalmente, la politica progressista sta andando bene. Ma all’interno delle strutture politiche formali – dove si svolgono le elezioni e si formano i governi – il progressismo è alle corde. Il conflitto israelo-palestinese, ovviamente, non è mai stato un problema puramente culturale. Che si tratti della soluzione a uno o due stati, di una confederazione o di qualsiasi altra cosa, sono necessari in ogni caso movimenti politici forti e unificati in cui le persone siano pronte a cooperare con coloro che detengono valori diversi. Devono essere disposti a fare compromessi su questioni fondamentali, essere leali l’uno con l’altro, seguire la leadership politica e rimanere radicati nella realtà sul terreno, piuttosto che nel simbolismo. Ma in quest’epoca di politica liberale egocentrica e astratta, siamo il più lontano possibile dai veri obiettivi.
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E allora cosa ci aspetta? Dopo tutte le previsioni sbagliate, sarebbe inutile aggiungerne un’altra. In effetti, penso che qualsiasi sensazione di “inevitabilità” in politica sia sempre stata una parte del problema. I progressisti sono diventati sempre più bravi a lavorare sulla realtà in corso di sviluppo, molte volte a scapito di investimenti in valute politiche forti. Tutti aspettavano che le “forze sul terreno” (o le “forze esterne”) portassero al cambiamento – ma nessuna di queste forze è comparsa e, quando le cose sono cambiate, coloro che beneficiavano dello status quo sono stati più veloci ad adattarsi e capitalizzarle.
Tuttavia, la scomparsa della soluzione a due stati nell’ultimo decennio potrebbe non essere un fatto del tutto negativo. Non sono sicuro che il modello a due stati proposto negli ultimi anni – specialmente durante i negoziati condotti dal Segretario di Stato John Kerry – avrebbe portato a maggiore libertà, felicità, sicurezza (per entrambi i popoli) e prosperità. Un piccolo stato palestinese con un grande apparato di sicurezza interna, sostenuto da fondi statunitensi ed europei, avrebbe assomigliato molto a una versione degli stati arabi “moderati”: regimi autoritari che si basano sulla repressione della propria popolazione per rimanere intatti.
Il vantaggio della soluzione a due stati stava nel fatto che era un’idea semplice da immaginare per le persone, in particolare per israeliani e americani. Nell’ultimo decennio, i due stati sono passati dall’essere un programma politico a una fata morgana: più ci si avvicina, più si allontana. La condizione di uno stato, d’altra parte, è il deserto in cui ora ci troviamo.
Qualsiasi piano politico dovrebbe iniziare con il riconoscere questa realtà, non con le astrazioni e le fantasie di cui abbiamo parlato negli ultimi anni. Possiamo non avere le idee chiare sul futuro, ma possiamo unirci su ciò che è terribilmente ingiusto nel presente. Combattere per porre fine all’assedio di Gaza – l’aspetto più disumano dello status quo – sarebbe un buon inizio.
Noam Sheizaf è un giornalista ed editore indipendente. È direttore esecutivo fondatore e caporedattore di +972 Magazine. Prima di entrare in +972, ha lavorato per il quotidiano locale Ha-ir di Tel Aviv, Ynet e per il quotidiano Maariv, dove il suo ultimo incarico è stato quello di vicedirettore della rivista del fine settimana. Attualmente sta lavorando a numerosi film documentari.
https://www.972mag.com/one-state-annexation-decade/
Traduzione di Donato Cioli
[1] Alcuni sostengono che l’Autorità Palestinese sia responsabile del sistema non democratico di cui sono vittime i Palestinesi, dal momento che il Presidente Abbas impedisce di tenere nuove elezioni. Ma anche se i Palestinesi votassero per i loro rappresentanti ogni pochi anni, non sarebbero in grado di partecipare alle decisioni più importanti che determinano la loro vita, poiché il potere sovrano rimane totalmente nelle mani di Israele. Ad esempio, il Consiglio Legislativo Palestinese potrebbe decidere di costruire una nuova città o di invitare rifugiati palestinesi a stabilirsi dalla Siria in Cisgiordania, ma queste decisioni sarebbero prive di significato senza il consenso israeliano. L’AP può rilasciare documenti di viaggio al proprio popolo, ma senza il consenso israeliano non saranno in grado di viaggiare fuori dal paese, ecc.
[2] La comunità internazionale ha accettato l’assedio come una cosa legale. Chiudendo il confine egiziano o bloccando le flottiglie in partenza dall’Europa verso Gaza (come hanno fatto Cipro e Grecia), alcuni paesi hanno attivamente aiutato e favorito l’assedio. Per quanto riguarda le operazioni militari, quando Israele ha esaurito le munizioni nel 2014, l’amministrazione Obama ha aperto il suo arsenale di emergenza e ha fornito all’esercito israeliano munizioni e proiettili di artiglieria.