Israele si prepara a trasformare i cittadini Beduini in rifugiati nella loro terra.

di Jonathan Cook 

Mondoweiss, 16 ottobre 2019.

Al-Araqib, un villaggio non legalmente riconosciuto della tribù beduina araba Al-Turi (situato 8 km a nord di Bersabea), demolito per la 54a volta nell’agosto 2013. (Foto: Eloise Bollack)

La lunga lotta di decine di migliaia di cittadini israeliani per non essere sradicati dalle loro case, alcuni per la seconda o terza volta, dovrebbe bastare a provare che Israele non è proprio il tipo di democrazia liberale di stampo occidentale che dichiara di essere.

La scorsa settimana 36.000 Beduini, tutti cittadini di Israele, hanno capito che la loro nazione stava per trasformarli in rifugiati, radunandoli in campi di contenimento. Pare che questi cittadini israeliani siano del tipo sbagliato.

Questo trattamento ci rimanda a dolorosi echi del passato. Nel 1948, l’esercito israeliano esiliò 750.000 Palestinesi fuori dai confini del neo-dichiarato stato ebraico appena fondato sulla loro terra – evento che è conservato nella memoria dei Palestinesi sotto il nome di Nakba, la catastrofe.

Israele resta al centro delle critiche per l’occupazione aggressiva, l’instancabile espansione di insediamenti illegali in terra palestinese e i feroci attacchi militari perpetrati specialmente su Gaza.

In qualche caso, gli analisti hanno anche messo in evidenza il fenomeno della sistematica discriminazione di Israele nei confronti degli 1,8 milioni di Palestinesi rimasti come cittadini all’interno del paese dopo la Nakba.

Tuttavia, questi abusi sono sempre affrontati singolarmente, come casi isolati, e sfugge come essi non siano altro che un altro aspetto di un progetto più grande. Esiste insomma un filo conduttore visibile, basato su un’ideologia che mira a disumanizzare i Palestinesi dovunque Israele li trovi.

Questa ideologia ha un nome: Sionismo. È da questa base che si dipana il filo che lega il passato – la Nakba – all’attuale pulizia etnica attuata da Israele contro i Palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, alla distruzione di Gaza e agli sforzi profusi dallo stato per eliminare i Palestinesi con cittadinanza israeliana dai loro territori storici per recluderli in ghetti.

La logica del Sionismo, anche se i suoi sostenitori più ingenui non lo capiscono, mira a rimpiazzare i Palestinesi con gli Ebrei – o, per usare il termine ufficiale scelto da Israele, a completare il processo di “giudaizzazione”.

La sofferenza palestinese non è uno spiacevole effetto collaterale del conflitto, bensì il vero scopo del Sionismo, cioè quello di spingere i Palestinesi che ancora abitano quelle terre ad andarsene “volontariamente” per sfuggire ad altre forme di repressione e tormento.

La più palese manifestazione di questa strategia di ricambio è il trattamento che Israele ha da sempre riservato ai 250.000 Beduini che hanno formalmente ottenuto la cittadinanza.

In Israele i Beduini rappresentano la minoranza più povera, vivono in comunità isolate nelle vaste aree semi-aride del Negev, nella parte meridionale della nazione. Vista la poca visibilità di questo gruppo, Israele ha avuto campo libero nell’attuazione di strategie mirate al loro “rimpiazzo”.

Infatti, per dieci anni dopo la presunta fine delle operazioni di pulizia etnica del 1948, e dopo il riconoscimento di Israele da parte delle potenze occidentali, lo stato ha segretamente continuato a deportare migliaia di Beduini al di fuori dei confini, nonostante questi ultimi avessero il diritto di cittadinanza.

Altri Beduini, intanto, furono spinti con la forza ad abbandonare le loro terre storiche per essere segregati in aree di contenimento confinate o in insediamenti creati ad hoc dallo stato e divenuti le comunità più povere del paese.

Risulta un po’ difficile rappresentare i Beduini, semplici pastori e contadini, come una minaccia alla sicurezza, come era stato fatto riguardo ai Palestinesi durante l’occupazione.

Ma nel concetto di sicurezza imposto da Israele rientra molto più della semplice sicurezza fisica. Questo concetto allargato, infatti, basa la sicurezza sul mantenimento di una predominanza demografica assoluta degli Ebrei nello stato.

Seppur pacifici, i Beduini e le loro numerose comunità rappresentano una seria minaccia demografica per lo stato, così come il loro stile di vita pastorizio ostacola il destino che è stato loro riservato da Israele: essere rinchiusi ermeticamente dentro aree confinate.

Gran parte dei Beduini possiedono gli atti di proprietà delle loro terre, documenti antecedenti alla creazione di Israele. Ciononostante, lo stato si è rifiutato di riconoscere tali diritti di proprietà, criminalizzando decine di migliaia di persone e negando il riconoscimento legale dei loro villaggi.

Per decenni queste popolazioni sono state costrette a vivere in baracche di lamiera e in tende, per il rifiuto delle autorità di permettere vere e proprie case, a cui si aggiunge il divieto di accedere ai servizi pubblici come scuole, acqua ed elettricità.

Per vivere nel rispetto della legge, ai Beduini resta una sola scelta: abbandonare le terre dei loro antenati e la loro tradizionale vita pastorizia per trasferirsi in uno dei miseri insediamenti a loro riservati.

Molti Beduini hanno resistito, restando aggrappati alle loro terre storiche nonostante le difficili condizioni di vita che Israele riserva loro.

Al Araqib, uno dei tanti villaggi non riconosciuti, è stato scelto per creare un precedente esemplare. Per oltre 160 volte in meno di dieci anni, le forze militari israeliane hanno demolito le abitazioni improvvisate del villaggio. Ad agosto, un tribunale israeliano ha approvato la richiesta della cifra di 370.000 dollari a sei abitanti del villaggio per il costo dei ripetuti sfratti.

Il capo del villaggio di Al-Araqib, lo Sheikh Sayah Abu Madhim, di settanta anni, è stato liberato dopo alcuni mesi in carcere dopo essere stato accusato di sconfinamento, nonostante la sua tenda si trovasse a pochi passi dal cimitero in cui sono seppelliti i suoi antenati.

Ora le autorità israeliane stanno cominciando a perdere la pazienza con i Beduini.

Lo scorso gennaio furono svelati i piani segreti, mascherati da progetti di “sviluppo economico”, per l’immediato sfratto forzato di circa 40.000 Beduini residenti in villaggi non riconosciuti. Si tratterà della più grande espulsione degli ultimi decenni.

“Sviluppo,” così come “sicurezza,” sono termini che in Israele hanno un significato diverso. Per sviluppo, infatti, si intende lo sviluppo ebraico, cioè la giudaizzazione – e non uno sviluppo per i Palestinesi.

I progetti di sviluppo includono la costruzione di una nuova autostrada, una nuova linea elettrica ad alta tensione, una struttura per svolgere test bellici, una zona militare di tiro e una miniera di fosfati.

La scorsa settimana si è saputo che le famiglie Beduine sarebbero costrette a spostarsi in centri di raccolta nelle loro township e a vivere per anni in abitazioni temporanee finché non si deciderà il loro destino. Questi luoghi sono già stati paragonati ai campi profughi realizzati per i Palestinesi in seguito alla Nakba.

Il malcelato obiettivo è quello di imporre ai Beduini condizioni di vita talmente terribili da indurli, infine, ad accettare di restare confinati per sempre nelle loro cittadine, come stabilito da Israele.

Quest’estate, sei autorevoli esperti di diritti umani delle Nazioni Unite hanno inviato una lettera di protesta ad Israele scagliandosi contro le serie violazioni dei diritti delle famiglie beduine secondo la legge internazionale, sottolineando che Israele avrebbe la possibilità di usare approcci alternativi.

Secondo Adalah, un gruppo legale israeliano in difesa dei Palestinesi, sono settant’anni che Israele continua a perpetrare sfratti forzati dei Beduini, trattandoli non come esseri umani, ma come mere pedine nell’interminabile partita che lo stato sta giocando per rimpiazzarli con coloni ebrei.

Lo spazio vitale di questa comunità si è ridotto giorno dopo giorno e il loro stile di vita è stato completamente disintegrato.

Ciò si pone in netta contrapposizione con la rapida espansione dei centri abitati dagli Ebrei e con la costruzione di fattorie gestite da singole famiglie sulle terre da cui vengono cacciati i Beduini.

È difficile non vedere in questi avvenimenti una versione amministrativa della pulizia etnica che le autorità israeliane attuano più scopertamente nei territori occupati per motivi cosiddetti di “sicurezza”.

Queste interminabili espulsioni non hanno affatto l’aspetto di politiche necessarie e ponderate, ma sembrano piuttosto una specie di brutto tic nervoso di tipo ideologico.

Questo articolo è stato pubblicato sul National, Abu Dhabi.


Jonathan Cook

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale per il Giornalismo Martha Gellhorn. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” (Zed Books). Il suo nuovo sito web è  jonathan-cook.net.

Traduzione di Giulia Incelli

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