L’incubo di una sorella: il mio fratellino è stato ferito con un’arma da fuoco una notte di Ramadan dai soldati delle forze occupanti.

Giu 17, 2019 | Storie

Amina Salah e Yumna Patel

Mondoweiss, 10 giugno 2019

Amina Salah e il suo fratello più giovane, Mahmoud (foto Amina Salah)

Amina Salah, 30 anni, è una donna palestinese originaria della Cisgiordania occupata, che oggi vive in California. È nata e cresciuta nel paese di al-Khader, a sud della città di Betlemme, dove ha ottenuto la laurea in Servizi Sociali nell’Università di Betlemme. Oltre a praticare la professione di operatrice sociale in Palestina, Amina insegnava la danza tradizionale “dabke” ai giovani del posto, e giocava nella squadra nazionale palestinese di pallavolo. Insieme a suo marito Laith si è trasferita negli Stati Uniti nel settembre del 2018.

Sono Amina Salah, una donna palestinese. Sono cresciuta con tre sorelle, due fratelli, e troppi parenti ed amici per poterli contare – troppi cari che cerco di non contare, per non andare a pezzi quando mi rendo conto di quanti ne ho perduti.

Ho sempre sognato una vita eccezionale, coraggiosa e ambiziosa, con un futuro di conquiste e di successi che mi attendeva. Ma, quando sono cresciuta, ho capito subito che, in quanto Palestinese, realizzare i miei sogni non sarebbe stato tanto semplice.

Prima di tutto, ho abbandonato il mio sogno di studiare all’estero a causa delle difficoltà con i visti. Poi ho abbandonato il mio sogno di studiare giornalismo a Ramallah, a causa dei posti di blocco e delle difficoltà economiche. Ogni anno che passava abbandonavo qualche sogno, a causa o della situazione politica o di quella economica, fino a che un giorno ho semplicemente dimenticato i miei sogni.

Da allora ho imparato a sognare una vita normale, noiosa. Una vita nella quale non dovessi svegliarmi ogni giorno con notizie terribili. Una vita nella quale non dovessi rispondere al telefono, e sentire: “Amina, Nabil è stato ferito da un’arma da fuoco, Mo’taz è morto, Bashar, Muhannad, Mohammad, Issa, Ahed, Khaled, tuo fratello Ahmad, sono in prigione.”

Ho iniziato a sognare una vita senza incursioni, bombardamenti, sparatorie, terre confiscate, case demolite, posti di blocco, muri, coprifuoco, manifestazioni e funerali. Ho concentrato tutte le mie forze per poter cominciare una nuova vita altrove. Ed ora eccomi qua che scrivo questo testo in una California assolata. Ho lasciato quella vita in Palestina, ma sfortunatamente il ricordo di quella vita non mi lascerà mai.

Anche se, in quanto Palestinesi, viviamo queste avversità quotidianamente, nessuno di noi accetta l’idea che prima o poi possa essere un membro della propria famiglia ad essere colpito. Viviamo ogni giorno con la speranza che, alla fine della giornata, possiamo vedere tutti i membri della nostra famiglia seduti a tavola per cena. Non ho mai immaginato che un giorno avrei vissuto questa situazione con il mio fratellino.

Il telefono ha squillato e, stavolta, Mahmoud, mio fratello di 14 anni, era quello che era stato ferito con un’arma da fuoco e messo in prigione. Sentivo il mio cuore battere all’impazzata, una pressione in testa come se stesse per esplodere, il mio respiro era veloce ma mi sembrava che non arrivasse aria nei polmoni. Ho rischiato di essere soffocata dalla notizia.

Mahmoud Salah, di 14 anni, è stato ferito con un’arma da fuoco dai soldati israeliani mentre giocava con i suoi amici nel maggio del 2019 (foto Amina Salah)

Alle 21:30 del 21 maggio 2019, Mahmoud è uscito con i suoi amici per andare in giro nel nostro quartiere. Queste uscite tardo-serali sono normali per i bambini durante il Ramadan, dopo l’interruzione del digiuno. A trecento metri dalla nostra casa, nel paese di al-Kahder, a sud della città di Betlemme, i bambini si incontravano per giocare in un piccolo campo dietro le case. Oltre il campo ci sono alcune centinaia di metri di terre agricole incolte, ed in fondo a quei terreni c’è il muro dell’Apartheid.

Lungo il muro c’è una torre, dove i militari israeliani sostano, nel loro “dovere di proteggere la propria nazione da noi”, i Palestinesi. A volte si annoiano e sentono il bisogno di un po’ di azione. E, quella notte, uno di loro ha sparato un colpo.

Al rimbombo del colpo, tutti quelli del vicinato sono accorsi verso le urla dei bambini. Si sono poi precipitati verso la nostra casa per dire alla nostra famiglia che Mahmoud era stato colpito. A quelle parole, la mia famiglia al completo e tutti i nostri vicini si sono precipitati verso Mahmoud.

Mi sembra di sentire il suono dei loro piedi sulla terra, il battito dei cuori di tutti, soprattutto di mia madre. Mi sembra di vedere i suoi occhi spalancati e di sentire le sue preghiere ad Allah di poter raggiungere suo figlio e di trovarlo vivo. Quei trecento metri devono essere sembrati come tremila miglia.

Quando finalmente l’hanno raggiunto, i soldati israeliani lo circondavano e gli urlavano in faccia, “Perché non muori?!”. Nel frattempo è arrivata l’ambulanza palestinese, ma i soldati hanno impedito loro di dare assistenza medica. Mahmoud era sdraiato per terra, sconvolto, confuso e sanguinante. Allora i soldati lo hanno trascinato per terra dall’altra parte del muro, ignorando le urla di tutti e le suppliche della squadra medica palestinese. È stato lasciato per strada a sanguinare per un’altra mezz’ora, finché è arrivata l’ambulanza israeliana e lo ha preso, senza che ci fosse data alcuna informazione.

La mia famiglia ha subito chiamato la Croce Rossa, per cercare di ottenere informazioni sulle sue condizioni. Attendere nel silenzio e nella disperazione è stata la loro unica possibilità. Il giorno successivo, hanno saputo che era ricoverato nel Centro Medico israeliano Shaare Zedek di Gerusalemme, e che la situazione era critica. La mia famiglia ha provato in tutti i modi ad entrare a Gerusalemme, ma è stato loro impedito di visitarlo. Solo un membro della famiglia aveva il permesso di entrare nell’ospedale.

Il 23 maggio il nostro avvocato ha chiamato per informare la famiglia che ci sarebbe stato bisogno di amputare una gamba di Mahmoud. La scelta era tra la morte e la perdita della gamba. È stata la notizia più orribile e sconcertante per tutti noi. Non eravamo più capaci di ragionare. Per quanto riguarda me, un milione di pensieri mi passavano per la mente e mi chiedevo: come sarà la sua vita con una gamba? E accetterà mai la sua perdita? La mia mente si soffermava su un’idea orribile: quale sarà la sua reazione quando si sveglierà da solo, in una stanza fredda, nella quale non si sente al sicuro, per scoprire che ha perso una gamba?

Solo l’avvocato era nella stanza quando si è svegliato. Mahmoud ha aperto gli occhi, confuso e non del tutto consapevole di ciò che succedeva intorno a lui. Sentendo dolore, ma senza capire da quale parte del corpo, ha mosso la sua mano sinistra, quindi la destra, cercando di capire. Ha provato a muovere la sua gamba destra e, quando la sua mano ha raggiunto la sua gamba sinistra, ha scoperto che non c’era più. Completamente sconvolto, ha urlato, pianto e chiamato la sua famiglia più volte. Ha urlato come se stesse avendo un incubo e ripeteva a sé stesso che avrebbe dovuto svegliarsi da questo incubo.

Da quando si è svegliato in ospedale, ci hanno detto che ha attacchi di panico. Per diverse ore è tranquillo, mentre le ore seguenti sono piene di urla e pianti per la sua gamba, per sua madre, suo padre, suo fratello, le sue sorelle e la sua casa. Piange per riavere indietro la sua vita e, quando è disperato, piange chiedendo solo una telefonata. Ma nemmeno questo gli è concesso. Alla porta della sua stanza ci sono due soldati che hanno il compito di sorvegliarlo fino al termine della cura, per poi portarlo in prigione.

Ci sono già stati due processi illegali presso la corte militare israeliana mentre era in ospedale, ed ora sta aspettando il terzo per conoscere le accuse mosse da Israele nei suoi confronti. Mi chiedo quali accuse possano essere mosse nei confronti di un bambino che è stato ferito mentre giocava, lasciato sanguinare per più di mezz’ora, e che infine ha perso una gamba. Per aggiungere crudeltà, ha dovuto subire un interrogatorio mentre giaceva in ospedale, pieno di dolori. Ci saranno altri interrogatori, e le sue condizioni di salute non saranno prese in considerazione, perché ovviamente le sue condizioni psicologiche per loro non contano.

Nel frattempo, lui è devastato dal punto di vista fisico e psicologico. Ha subito due interventi, ed ha ancora dolori. Continua a chiedere di noi, della sua famiglia.

Mahmoud è un bambino socievole, amato in famiglia e tra i suoi amici. Ha un carattere indipendente e si sente responsabile nei confronti della famiglia. Trascorre le vacanze estive lavorando in un’officina di riparazione di automobili con un amico di famiglia. Non ha mai pensato di spendere i soldi in giocattoli o viaggi. Li offriva invece ai suoi genitori per aiutarli.

Mi accompagnava ai miei allenamenti di pallavolo. Adorava allenarsi con noi, a volte giocherellando e prendendo in giro gli altri, con la consapevolezza che io ero sempre lì a proteggerlo, e che nessuno avrebbe potuto fargli del male.

Amina e Mahmoud Salah (foto Amina Salah)

Abbiamo un rapporto particolarmente stretto. In effetti, stavamo programmando che la prossima estate mi avrebbe fatto visita in California. Volevo che vedesse l’altra parte del mondo. Una vita diversa da quella alla quale siamo abituati. Una vita che può essere dura, ma non miserabile. Una vita che avrebbe potuto offrirgli opportunità e libertà. Gli avevo promesso che avrebbe potuto stare con me e che io lo avrei protetto e che ci sarei stata in qualunque momento lui avesse avuto bisogno di me. Ma il tempo ci ha traditi, e la sorte ha tradito lui.

Scrivo la storia di mio fratello per mostrare al mondo la brutalità dell’occupazione israeliana. Ma la mia decisione è prima di tutto quella di diffondere la storia di Mahmoud, in modo che possiamo chiedere aiuto. Questo è un appello perché vengano fatte azioni concrete da parte di organizzazioni per i diritti umani, organizzazioni per i diritti dei bambini, avvocati per i diritti umani, politici e giornalisti. A chiunque abbia la possibilità di aiutare e di usare la propria voce per chiedere la libertà di Mahmoud. Per aiutarlo ad alzarsi di nuovo e per salvare la sua innocenza di bambino. Se siamo capaci di salvare Mahmoud possiamo dimostrare che l’umanità non è solo una parola.

Per favore, fatevi sentire il più possibile, per ottenere l’aiuto, la cura ed il supporto di cui questo bambino ha bisogno, e che merita. Condividete e diffondete la sua storia il più possibile, su Facebook, sulla vostra timeline, in gruppi, siti, Twitter, dovunque sui social, raggiungete i media, per assicurarvi che il mondo, le organizzazioni per i diritti umani, gli avvocati per i diritti umani, i politici e tutti colori che hanno la possibilità di aiutare questo bambino sappiano chi è Mahmoud, cosa gli è successo, e cosa sta ancora succedendo. Usate l’hashtag #free_Mahmoud_salah, magari in combinazione con #urgent e #StandUp4HumanRights.

Guardate il viso di Mahmoud in queste foto, ed aiutate a fare in modo che Mahmoud sia presto con la propria famiglia, nella propria casa, alla quale soltanto appartiene.

https://mondoweiss.net/2019/06/nightmare-occupying-soldiers/?fbclid=IwAR2i5vLkH8G0mtW3PNnISfP1FcgHcx91y7JEaxTTgK36B7ibpv16m6z80YQ

Traduzione di Rosaria Brescia

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Archivi

Fai una donazione

Fai una donazione tramite Paypal alla nostra associazione:

Fai una donazione ad Asso Pace Palestina

Oppure versate il vostro contributo ad
AssoPace Palestina
Banca BPER Banca S.p.A
IBAN: IT 93M0538774610000035162686

il 5X1000 ad Assopace Palestina

Il prossimo viaggio