Il tentativo sionista di creare un movimento nazional-secolare basato sull’identità ebraica non poteva non avere una componente religiosa messianica. A quel punto era inevitabile che diventasse razzista.
di Yoav Rinon
Haaretz, 6 giugno 2019
Pochi negherebbero che la moderna identità tedesca abbia avuto un ruolo centrale nella formulazione dell’identità ebraico-israeliana, specialmente alla luce dell’Olocausto e del suo impatto cruciale sul passato dei due popoli. Ma l’Olocausto, per quanto fondamentale per la formazione delle due identità, è solo una parte di un più complesso processo, iniziato tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, quando la corrispondenza tra la costruzione delle due moderne identità nazionali divenne molto evidente. Continua anche nel presente, giacché l’Olocausto rimane un elemento centrale della contemporanea identità ebraico-israeliana, e si proietta anche nel futuro.
La formazione dell’identità nazionale tedesca è iniziata in un’epoca in cui non esistevano né uno stato-nazione né un ordine politico adeguato a incanalare ed accogliere i sentimenti nazionalisti esistenti tra le genti dei vari stati federali che oggi costituiscono la Germania contemporanea. L’immaginazione riempì il vuoto che esisteva nella realtà, e la letteratura (specialmente la poesia) e la filosofia, piuttosto che la politica, presero la scena.
Diversi decenni dopo, verso la fine del XIX secolo –in un contesto simile a quello tedesco in cui non c’era né uno stato-nazione né un ordine politico adeguato a incanalare ed accogliere i sentimenti nazionalisti– un’altra nuova identità nazionale iniziò a svilupparsi, quella che avrebbe condotto, alla fine, alla creazione di uno stato ebraico nella Palestina mandataria.
La somiglianza tra le due identità, anche se accidentale, è impressionante; ma, a differenza dell’identità tedesca, che ebbe un forte orientamento nazionale, lo sviluppo dell’identità ebraica ruotò intorno alla religione non meno che intorno all’idea nazionale. Infatti, le due componenti sono intrecciate sin dall’inizio, ma quella religiosa, che era stata la pietra angolare dell’identità ebraica per almeno 2.000 anni, era divenuta problematica. La ricerca di un sostituto condusse al nazionalismo.
Inizialmente sembrò che le identità nazionale e religiosa del “nuovo Ebreo” potessero essere separate l’una dall’altra. Moses Mendelssohn sostenne che nazionalismo ed ebraismo appartenevano a due sfere completamente separate. Judah Leib Gordon formulò succintamente questo ideale nella sua poesia ebraica “Svegliati, mio popolo” (“Hakitzah Ami”): “Sii un uomo nelle strade e un Ebreo a casa.” Purtroppo questa bellissima soluzione era destinata al fallimento, non certo a causa della mancanza di tenacia degli Ebrei –erano assai entusiasti della possibilità di divenire cittadini con pari diritti nei paesi dell’Europa occidentale, anche a prezzo della perdita della loro identità ebraica– ma a causa della ferma resistenza esterna che incontrarono nel tentativo di rimodellare la loro identità.
Per dirla in breve: un forte e profondamente radicato antisemitismo che attraversava l’Europa impediva decisamente qualsiasi volontà di ridefinizione ebraica. In questo contesto, l’affare Dreyfus fu uno spartiacque, dimostrando che la stragrande maggioranza dei Francesi percepiva gli Ebrei principalmente come Ebrei e, solo secondariamente, semmai, come Francesi; consideravano gli Ebrei prima di tutto e inequivocabilmente fedeli alla propria tribù, e solo poi, semmai, al paese in cui vivevano. Tale visione implicava ovviamente che il patriottismo degli Ebrei era dubbio e, cosa peggiore, che, almeno potenzialmente, tutti gli Ebrei erano traditori. L’affare Dreyfus fu un’eccezione solo per il suo esito positivo: la riapertura del processo e la dimostrazione che tutte le accuse contro l’ufficiale ebreo condannato per tradimento erano false. Assolutamente non un’eccezione erano le sue radici antisemite.
Tuttavia, questa amara esperienza non scoraggiò coloro che aspiravano a trovare una soluzione nazionale al problema dell’identità ebraica; al contrario, impiegarono maggiori sforzi nella loro nuova auto-progettazione. Anziché rinunciare al legame tra identità e nazionalismo, coloro che diedero forma al “nuovo Ebreo” aspiravano a una identità nazionale su base laica piuttosto che religiosa. Inoltre, concepirono la realizzazione nazionale di questa identità in un luogo assolutamente nuovo: Sion. I nuovi Ebrei ora proponevano un futuro paese in Asia quale sostituto nazionale ai loro paesi d’origine in Europa, paesi che li avevano respinti. Ma una futura catastrofe si annidava in questa soluzione.
Il principale difetto nella strategia di guardare a Sion per realizzare la fusione tra laico e nazionale sta nella natura stessa dell’atto, che era molto più di uno spostamento geografico. L’ideale illuministico che fungeva da faro per gli antenati del sionismo, per i quali una nuova identità ebraica poteva essere creata su base laica, era fondato su una separazione assoluta tra la sfera privata e quella nazionale. Questo ideale poteva essere realizzato se, e solo se, il sentimento nazionale non aveva nulla a che fare con quello religioso. Tuttavia, l’appello del sionismo a un nuovo stato per gli Ebrei, immaginando una soluzione al problema ebraico mediante uno stato ebraico, implica l’esatto contrario dell’ideale illuminista: non è la fusione tra il nazionale e il laico, ma piuttosto la fusione tra il nazionale e il religioso.
Senza dubbio gli antenati sionisti erano ben consapevoli delle problematiche che la componente ebraica poneva nel formare quella nuova identità laica alla quale così instancabilmente puntavano, e sicuramente non hanno ignorato la componente giudaico-religiosa. Al contrario, intuendo quanto quella componente fosse utile alla formazione della nuova identità ebraica, la utilizzarono proficuamente per i loro scopi. Adottarono due strategie per affrontare la sfida della componente religiosa: da un lato, reprimendo l’aspetto strettamente religioso e dall’altro reclutando la componente messianica. Un esempio lampante di questa strategia è il nome “Bilu”, scelto dal movimento proto-sionista la cui visione si incarnò nella prima ondata di colonie ebraiche (la Prima Aliyah), negli Anni Ottanta del XIX secolo. “Bilu” è un acronimo ebraico basato su Isaia 2:5, “Beit Yaakov lekhu venelkha” (O Casa di Giacobbe! Vieni, camminiamo). Questo non è però l’intero versetto, che termina con le parole “nella luce del Signore”, che servono a contestualizzare l’intera frase e a darle un significato religioso.
I versi precedenti a quello da cui deriva l’acronimo Bilu costituiscono la cosiddetta “visione della fine dei giorni” (Isaia 2:1-4), in cui Sion-Gerusalemme è immaginata come il centro della giustizia nel mondo, il cui ombelico geografico e spirituale è il Tempio. Quando l’ideologia nazionalista fu formulata nel XIX secolo, questa visione biblica fu concepita come esclusivamente messianica: il Tempio era stato distrutto circa duemila anni prima, e la tradizione religiosa immaginava la sua ricostruzione rimandata alla fine dei giorni, ossia all’era messianica. L’idea sionista della reincarnazione di una nazione ebraica nel prossimo futuro è perciò basata sul forte legame con la nazione ebraica del passato e su quello, altrettanto forte, con la visione utopica e messianico-religiosa della nazione ebraica alla fine dei giorni.
Col senno di poi, bisogna ammettere l’ingegnosità dell’inclusione del messianico nella visione sionista secolare: senza l’incredibile energia generata dalla componente messianica non ci sarebbe stato alcuno Stato di Israele e, a mio avviso, nessuna vera risposta all’antisemitismo e alle sue manifestazioni letali. Questo, naturalmente, non implica che tale uso non abbia preteso un costo. Tale prezzo, piuttosto prevedibilmente, è diventato ora uno dei maggiori pericoli per l’odierno Israele, minacciando di annientare il progetto sionista nella sua interezza.
Fin dall’inizio del movimento sionista, l’impiego della componente religioso-messianica ha comportato una duplice problematica. Da un lato, poiché la parte religiosa della componente religioso-messianica doveva essere repressa durante la costruzione della nuova identità ebraica, la componente messianica fu presentata come laica. Dall’altra parte, considerare la fondazione dello Stato di Israele come realizzazione messianica implicava una violazione della linea di confine che separa il metafisico dal fisico e, ancor più perniciosamente, attribuiva a questa trasgressione un valore positivo. Entrambi i fattori erano sin dall’inizio potenzialmente esplosivi, poiché ognuno coltivava e nutriva l’altro. Il valore positivo attribuito alla trasgressione si basa sulla giustificazione religiosa, e la componente religioso-messianica acquista forza e influenza quanto più si realizza attraverso atti di trasgressione del confine che separa il metafisico dal fisico.
Quando il movimento sionista era giovane, l’immenso tributo da pagare per la trasgressione messianica sembrava appartenere a un lontano futuro. Tuttavia, quel futuro una volta remoto è ora il presente e il nazionalismo messianico ha già raggiunto (e con quale successo!) alcuni dei suoi più tossici effetti tramite un’ostinata e inflessibile utilizzazione di giustificazioni religiose per il male. Notare, la peculiare combinazione del male e del messianismo religioso è tutt’altro che accidentale. Peggio ancora, è concettualizzata e presentata, come in Kant, quale un imperativo categorico etico. Nessuno ha dimostrato questo punto più efficacemente di Gershom Scholem che, nel suo saggio “Redenzione attraverso il peccato” del 1936, ha tracciato la linea diretta che collega il movimento di Sabbatai Zevi alla moderna identità ebraica dall’Illuminismo in poi, dimostrando come il male è stato trasformato in un fenomeno moralmente giustificato.
Scholem suggerisce inoltre, in un diverso contesto, che la convergenza tra nazionalismo e il messianico-religioso non può che generare il fondamentalismo ebraico, che è solo una forma di barbarie intrapresa apparentemente in nome, ma in realtà sotto le sembianze, della religione ebraica. Questa barbarie è da tempo diventata parte integrante del qui e ora dell’Israele contemporaneo, e la sua attualizzazione è accompagnata da tutte le immancabili giustificazioni religiose. Il fondamentalismo ebraico è servito come base etica per il rapimento del sedicenne palestinese Mohammed Abu Khdeir arso vivo nel 2014. Un anno dopo, Il fondamentalismo ebraico è servito anche come base etica per gettare una bomba incendiaria nella casa della famiglia Dawabsheh a Duma in Cisgiordania, dove morirono tra le fiamme Reham e Saad Dawabsheh e il loro bambino di 18 mesi, Ali Saad. Senza dubbio è scoraggiante vedere come gli orrori subiti dalle vittime dell’Olocausto siano ora incanalati verso nuove forme del male, che consistono nella trasformazione dell’ex vittima nell’odierno carnefice.
Eppure bisogna ammettere che non c’è da stupirsi: un bambino maltrattato si trasforma spesso in un genitore che maltratta, e ciò che vale a livello personale vale anche a livello nazionale. È vero, l’uso disumano della religione come giustificazione morale del puro male non è né nuovo né raro; la sua orribile apparizione in uno stato fondato come risposta morale all’inconcepibile male del Nazismo è, tuttavia, profondamente allarmante. Il che ci riporta al parallelismo tra l’identità ebraico-israeliana e l’identità tedesca.
Come ideologia, il Nazismo è stato un fenomeno ateo, e non senza motivo. Il vuoto religioso che gli stessi nazisti violentemente crearono servì come una tabula rasa su cui poter scrivere la propria versione dei miti pagani e del loro simbolismo. Questo spianò la strada alla creazione dell’identità tedesca basata sulla razza che, a sua volta, servì per legittimare la liquidazione di chiunque fosse al di fuori della definizione razziale e razzista di questa particolare identità. Il caso dell’identità ebraico-israeliana è ovviamente diverso per quanto riguarda la componente religiosa, ma è simile per quanto riguarda il legame che si stabilisce tra razza e razzismo. Inoltre, in questo caso, la somiglianza tra le due identità non è il risultato del caso, ma un esempio lampante di causa ed effetto.
Il degrado nel razzismo
L’essenza dell’identità ebraico-israeliana è soggetta a degenerare nel razzismo, soprattutto a causa delle convinzioni razziali che ne sono il fondamento. Per dirla in modo inequivocabile, l’identità ebraico-israeliana è essenzialmente e inevitabilmente razziale. Come risposta, prima all’antisemitismo e poi all’Olocausto, quest’essenza è stata deliberatamente formulata su base razziale per includere ogni Ebreo, per il solo fatto di essere razzialmente tale, all’interno dell’identità nazionale israeliana. Inoltre, questa identità razziale ebraico-israeliana fu consapevolmente concepita come l’immagine speculare della concezione antisemita, e successivamente razzista, degli Ebrei, concezione che intendeva escludere ogni Ebreo da qualsiasi identità nazionale. L’imposizione da parte dei Nazisti di questa esclusione come primo passo verso lo sterminio totale degli Ebrei ha fatto sì che la necessità di creare un’identità ebraica opposta e contrapposta fosse una questione di vita o di morte. Questa identità ebraica era allo stesso tempo, per necessità, sia l’identità dell’Ebreo creata dai Nazisti sia il suo esatto contrario. L’esatto contrario, perché apriva la medesima porta che i nazisti chiudevano, e la stessa, perché si basava proprio sulle stesse fondamenta: la razza.
Concettualmente, l’approccio razzista è il risultato di una diretta convergenza tra l’identità come caratterizzazione essenziale di una persona o di un gruppo e quella che viene chiamata formula identitaria: A = A. La frase “Un Ebreo è un Ebreo” è diventata assolutamente identica alla formula identitaria A = A, dove invece di “A” si mette la parola “Ebreo”. Da un punto di vista razzista, la sola parola “Ebreo” simboleggia l’identità ebraica nella sua interezza. Inoltre, non occorre più di una parola, perché la parola “Ebreo” è totalmente chiara e assoluta allo stesso tempo, giacché riesce ad abbracciare l’essenza totale della persona che caratterizza. Ignorando le differenze tra milioni di Ebrei, la formula razzista riesce a ridurli tutti a qualcosa che non è semplicemente inumano, ma che è ancora meno di un oggetto,: tutti gli Ebrei sono trasformati in un “Ebreo”, una parte astratta di una formula matematica, dove ogni elemento è totalmente identico a un altro. Questo è esattamente il principio secondo il quale l’identificazione razzista funziona: le differenze sono irrilevanti, a tal punto che semplicemente non esistono. Tutto quel che esiste è la completa sovrapposizione tra l’identità che rappresenta l’essenza: un Ebreo è un Ebreo, da un lato, e la formula identitaria “un ebreo = un ebreo”, dall’altro. In breve, tutti gli Ebrei sono identici l’uno all’altro in termini di essenza. L’ultima conseguenza pratica di questa concezione era lo sterminio.
Come è stato detto, il Sionismo non poteva evitare di adottare esattamente la stessa sovrapposizione delle due definizioni di identità, nel tentativo di salvare la vita delle persone del gruppo che era stato così etichettato al fine di ucciderle. Tuttavia la giustificazione morale di questa sovrapposizione non annulla le problematiche implicite, vale a dire, il pericolo che la concezione razziale degeneri nel razzismo. Questo pericolo è sempre esistito e continuerà a esistere, e non solo perché l’identità basata sulla razza deve necessariamente contenere, in modo innato, questo veleno. Il pericolo di definire l’identità mediante la sovrapposizione dell’identità intesa quale rappresentazione della propria essenza e della formula identitaria deriva da un’ipotesi a doppio taglio: da un lato, chi è “dentro” appartiene totalmente, mentre chi non è “dentro” totalmente non appartiene. La definizione di identità ebraico-israeliana non solo trasforma tutti gli Ebrei in un’unica massa le cui componenti sono tutte assolutamente identiche, ma trasforma anche chi non è Ebreo-israeliano, ossia chi viene definito Palestinese-israeliano, in un’altra unica massa le cui particelle sono assolutamente identiche.
Anche in questo caso si può rilevare un chiaro parallelo tra l’identità ebraico-israeliana e quella tedesca, non solo per quel che riguarda la degenerazione di entrambe nel fascismo ma anche per l’origine e i motivi di questa degenerazione. Johann Gottlieb Fichte fu uno dei primi a formulare l’identità nazionale tedesca, e, nel suo libro “Fondamento dell’intera dottrina della scienza” (1794), definì la propria identità su due principi: l’ “Io” e il “Non-io”. Fichte affermò –ahimè, con grande accuratezza– che definiamo noi stessi sulla base di quel che ognuno di noi concepisce come il suo “Io”, vale a dire ciò che ci caratterizza a livello di essenza, ma anche su quel che percepiamo come essenzialmente “Non-io”, ossia ciò che è essenzialmente estraneo al nostro essere. Questo concetto ha implicazioni di vasta portata per coloro che appartengono al gruppo del “Non-io”, perché chi non appartiene alla categoria a cui io appartengo diventerà presto un rischio esistenziale per la mia propria identità.
Fichte, che concepì il suo ruolo nella storia come identico a quello di Gesù, ebbe un’enorme influenza sullo sviluppo sia della filosofia tedesca sia del nazionalismo tedesco, e il paragone da lui fatto tra la propria filosofia e i Vangeli trovò un uditorio molto ricettivo. E non solo nel XIX secolo: Martin Heidegger nella sua conferenza inaugurale in qualità di rettore dell’Università di Friburgo, posizione ottenuta in quanto membro del Partito Nazista sotto il regime del suo adorato Führer, ripetutamente menzionò Fichte. Si concentrò anche più volte su concetti come crisi, nazione e leadership, gli stessi concetti che Fichte enfatizzò nel suo testo nazionalistico “Discorsi alla nazione tedesca”.
Quanto sopra indica chiaramente che la degenerazione dell’identità tedesca nel Nazismo non fu né un caso né un errore. I semi erano lì sin dall’inizio, e si possono riconoscere già nello stadio nascente dell’identità tedesca. Alla luce delle similitudini tra l’identità tedesca e quella ebraico-israeliana lungo le diverse fasi della loro costruzione, possiamo concludere che stiamo scivolando lungo lo stesso pendio, che conduce, per le medesime ragioni, allo stesso abisso di razzismo e fascismo.
Sarebbe un errore vedere questa degenerazione come un male necessario o addirittura inevitabile. Questa degenerazione è la realizzazione di una sola possibilità di identità in un contesto nazionale. Non è decretata né dal cielo né da una legge divina. È una scelta, che deve essere cambiata. Come farlo è oggetto di un altro articolo.
Yoav Rinon è professore associato nel Dipartimento di Letteratura comparata e dei classici alla Hebrew University di Gerusalemme. L’articolo è basato su un progetto di ricerca, Questions of Identity, finanziato dalla Israel Science Foundation.
Traduzione di Elisabetta Valento