di Nada Awad
Al Shabaka, 21 febbraio 2019
Nel 2017 le autorità israeliane hanno trasferito con la forza la palestinese Nadia Abu Jamal da Gerusalemme, dopo che la casa della sua famiglia era stata demolita nel 2015. L’Istituto Nazionale Israeliano della Previdenza ha anche revocato l’assistenza sanitaria e altri contributi assistenziali ai tre figli di Nadia, due dei quali soffrono di malattie croniche. Gli ordini sono arrivati come misure punitive dopo che il marito, Ghassan, è stato ucciso mentre –sostengono– stava portando a termine un attacco. Tali azioni dimostrano l’aumento delle politiche punitive israeliane nei confronti di Palestinesi, per reati che non hanno commesso.
Israele ha utilizzato punizioni collettive contro i Palestinesi fin dall’inizio dell’occupazione militare del 1967, con demolizioni di case e con una guerriglia psicologica ed economica contro le famiglie dei presunti aggressori, ciò che è in aperta violazione della legge internazionale. Tali misure sono adottate in tutti i Territori Palestinesi Occupati (OPT), ma le autorità israeliane hanno intensificato gli interventi contro le famiglie e i parenti di presunti aggressori, particolarmente a Gerusalemme Est, e soprattutto a partire dal 2015.
Per esempio, alcuni legislatori israeliani hanno proposto -negli ultimi anni- leggi che vorrebbero legalizzare azioni come quelle intraprese contro Nadia Abu Jamal, permettendo allo Stato di revocare lo status di residente permanente ai familiari di presunti aggressori. Nel dicembre del 2018 il parlamento israeliano ha approvato la bozza di un progetto di legge che dovrebbe consentire il trasferimento forzato di famiglie di presunti aggressori dalla loro città ad altre aree dei Territori Occupati. Netanyahu ha espresso il suo sostegno alla proposta, dichiarando: “L’espulsione dei terroristi è un mezzo efficace. Per me i vantaggi superano gli svantaggi. I giuristi dicono che, nella sua formulazione attuale, è un’azione contraria alla legge e sarà sicuramente una sfida adeguarla dal punto di vista legale, ma non ho dubbi sulla sua efficacia.”
Questo articolo illustra la crescita delle punizioni collettive messe in atto da Israele contro le famiglie di presunti aggressori (punizioni che prendono la forma di trasferimenti forzati, demolizioni di case, ritorsioni economiche) e suggerisce alcuni modi per opporsi al tentativo israeliano di far diventare legge questi metodi che hanno lo scopo di intensificare la rimozione dei Palestinesi da Gerusalemme.
L’aumento dei trasferimenti forzati
Fin dall’annessione de facto del 1967, i trasferimenti forzati hanno costituito il nucleo della politica israeliana che mira a ottenere e a mantenere una maggioranza ebraica a Gerusalemme1. Per raggiungere questo obiettivo demografico, Israele adotta una pianificazione urbana discriminatoria, che tende, da una parte, a limitare la crescita della popolazione palestinese, mentre d’altra parte la legge israeliana rende difficile per i Palestinesi sia rimanere in città sia trasferirvisi da fuori.
Ai Palestinesi che vivono a Gerusalemme dal 1967 è stato attribuito lo status di residenti permanenti. La Legge sull’Ingresso in Israele permette di revocare facilmente lo status di residente permanente, attribuendo al Ministro degli Interni la facoltà di annullare la residenza ai Palestinesi sulla base dei seguenti criteri: se vivono all’estero per più di sette anni; se ottengono la cittadinanza o la residenza permanente all’estero; se non riescono a provare che “il centro della loro vita“ è in Israele; e, a partire dal 2018, se si sono macchiati di “lesa lealtà” nei confronti di Israele.
Tale revoca del diritto di residenza è un metodo diretto per imporre uno spostamento forzato, in quanto ai Palestinesi a cui sia revocata la residenza è negato perfino il diritto di essere fisicamente presenti a Gerusalemme. Le leggi di residenza a Gerusalemme pongono limiti anche alla possibilità dei Palestinesi residenti nella Città Santa di ricongiungersi con membri della famiglia che non abbiano la residenza in città, o la cittadinanza israeliana. I Palestinesi residenti a Gerusalemme che scelgono di ricongiungersi alla famiglia in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza o all’estero, sono soggetti alla revoca del diritto di residenza a Gerusalemme, e la loro scelta porta automaticamente al trasferimento forzato fuori dalla Città Santa.
Fin dall’adozione dell’ordine temporaneo del 2003 (Legge sulla Cittadinanza e l’ingresso in Israele), coloro che richiedono il ricongiungimento familiare non possono ottenere lo status di residenti permanenti. In altre parole, un Palestinese non residente a Gerusalemme che sposa una palestinese di Gerusalemme non può ricevere lo status di residente permanente; gli vengono invece concessi dei permessi temporanei se il Ministro degli Interni Israeliano accetta la richiesta di ricongiungimento familiare. Questa politica mette i Palestinesi di Gerusalemme a rischio di essere separati dalle loro famiglie e, spesso, li costringe a lasciare Gerusalemme per vivere con il marito o la moglie che non hanno il permesso di risiedervi; in seguito anche loro perdono per sempre il diritto alla residenza. Dal 1967 sono stati revocati 14.500 permessi di residenza a Palestinesi, di cui 11.500 a partire dal 1995.
Nell’ottobre del 2015, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che il governo stava valutando “l’abolizione del ricongiungimento familiare” e la “revoca della residenza e della cittadinanza per i familiari degli aggressori”. Questo era il caso di Nadia Abu Jamal, originaria di un villaggio della Cisgiordania. Dopo aver sposato Ghassan, e a seguito di una lunga procedura di ricongiungimento familiare, aveva ottenuto il permesso di residenza temporanea a Gerusalemme, che rinnovava ogni anno. A seguito del presunto attacco del marito, il Ministero degli Interni aveva ingiunto a Nadia di lasciare la città e si era mosso per rifiutare la concessione di qualsiasi altro permesso quest’ultima potesse richiedere. Nel gennaio del 2017, la polizia ha arrestato Nadia a casa dei suoceri, dove era stata ospitata dopo la demolizione punitiva della sua casa, e l’ha trasferita forzosamente fuori da Gerusalemme.
Da allora, la prassi relativa al caso di Abu Jamal è stata ripetuta più volte e su più larga scala. Il Ministro degli Interni israeliano ha dichiarato, dopo un presunto attacco nel gennaio del 2017: “D’ora in poi, chiunque trami, pianifichi o consideri di sferrare un attacco, sappia che la sua famiglia pagherà un prezzo molto alto per le sue azioni.” Arieh Deri, parlando a nome del Ministero degli Interni, ha avvisato che “le conseguenze saranno dure e di vasta portata.”
Quale fosse la “vasta portata” delle conseguenze, si è capito dal caso di Fadi Qunbar, accusato di aver portato a termine un investimento auto omicida nel luglio del 2017. Deri ha revocato lo status di residenza permanente alla madre sessantunenne, ed ha anche revocato 11 permessi di ricongiungimento di membri e parenti della sua famiglia. Tra gli 11 individui che hanno perso il diritto di vivere a Gerusalemme c’era il marito della figlia della sorellastra di Qunbar. L’applicazione ad ampio raggio della legge da parte di Deri ha segnato chiaramente l’espansione su vasta scala delle revoche punitive di residenza. Tutti i membri della famiglia Qunbar sono ora in attesa di una decisione sull’eventuale trasferimento forzato dalle loro case.
Il caso Qunbar è solo uno dei tanti esempi di come Israele abbia intensificato le misure di punizione collettiva in alcuni casi, stabilendo un precedente che apre la strada a leggi che consentono di utilizzare tali pratiche in modo molto ampio. Nel 2016 e nel 2017, i parlamentari israeliani hanno presentato almeno quattro proposte di legge che potrebbero fornire la base legale per la revoca del permesso di residenza sia alle persone che si presume abbiano sferrato attacchi, sia ai loro parenti. Tre delle quattro proposte erano emendamenti all’articolo 11 della Legge d’Ingresso in Israele.
Il primo, P/20/2463, permette al Ministro degli Interni di revocare lo status di residente permanente a presunti aggressori e ai loro familiari, oltre alla revoca dei diritti relativi alla Previdenza Sociale e ad altre leggi. “Non ha alcun senso garantire uguali diritti a residenti che agiscono contro lo stato e dar loro la possibilità di godere delle misure assistenziali che si accompagnano allo status di residente permanente in Israele” recita il progetto di legge.
Poco dopo, il disegno di legge P/20/2808 ha sancito che il Ministro degli Interni può cancellare un visto o lo status di residente permanente a “membri della famiglia di una persona che commette un atto terroristico o ha contribuito a commettere quell’atto attraverso la sua competenza, l’aiuto, l’incoraggiamento e il sostegno prima, durante o dopo la realizzazione dell’atto terroristico stesso.”
Il disegno di legge P720/3994 “dà al Ministro degli Interni il diritto di esercitare la propria discrezionalità nei confronti di chi commette atti terroristici”. E, come già detto, nel dicembre 2018, il disegno di legge P720/3458, che consente “l’espulsione di famiglie di terroristi su base nazionalistica”, è stato approvato in prima lettura alla Knesset. Il disegno di legge garantirà all’esercito israeliano il potere di “espellere le famiglie di assalitori che compiono o cercano di compiere un attacco terroristico” nel giro di sette giorni. Permette il trasferimento forzato delle famiglie di sospetti aggressori palestinesi in qualsiasi area della Cisgiordania.
Inoltre, nel marzo del 2018, il parlamento israeliano ha approvato una modifica alla Legge sull’Ingresso in Israele, consentendo la revoca punitiva dello status di residente dei Palestinesi in caso di “violazione della fedeltà”. Tale revoca è vietata dall’Articolo 45 dei regolamenti de L’Aia della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta esplicitamente alle forze occupanti di pretendere fedeltà dal popolo occupato. Utilizzando un criterio vago come la fedeltà, Israele può revocare il diritto di soggiorno a qualunque Palestinese di Gerusalemme.
Conflitto psicologico ed economico
Nel 2015 il gabinetto per la sicurezza israeliano ha approvato la demolizione della casa di un presunto aggressore come legittima pratica punitiva ed ha imposto il divieto di edificazione nell’area dell’abitazione demolita e la confisca della stessa proprietà. A partire da novembre del 2014, la Corte Suprema di Giustizia israeliana ha respinto 11 cause di famiglie di Gerusalemme che si appellavano ad ordini di demolizione, confermando la decisione dell’esercito israeliano di demolire o sigillare le abitazioni a scopo punitivo. Su cinque abitazioni sigillate e confiscate, tre sono state riempite di calcestruzzo, rendendo il loro sigillo irreversibile. Questa pratica lascia le famiglie dei presunti aggressori senza casa e li obbliga a trasferirsi.
Queste misure arrivano dopo una sospensione, durata una decina di anni, delle demolizioni di case. Una commissione militare israeliana aveva concluso nel 2005 che le demolizioni di edifici a scopo punitivo erano state controproducenti, portando le forze dell’ordine israeliane a sospendere la pratica, con alcune eccezioni, prima di riprenderla nel 2014.
Israele trattiene anche i corpi dei Palestinesi uccisi durante presunte aggressioni come forma di punizione collettiva nei confronti delle famiglie. Nel 2018 il parlamento israeliano ha approvato una modifica alla legge israeliana anti-terrorismo del 2016, che concede alla polizia israeliana questo potere. A partire dall’ottobre del 2015, Israele ha trattenuto i corpi di 194 Palestinesi, 32 dei quali sono ancora negli obitori israeliani.2 In molti casi, i corpi sono stati resi alle famiglie per la sepoltura al termine di una lunga battaglia legale e sotto condizioni. Le condizioni imposte dalle autorità israeliane per il rilascio dei corpi includono spesso una sepoltura immediata –impedendo quindi di eseguire un’autopsia– che deve anche avere luogo di notte ed alla presenza di un numero limitato di persone autorizzate.
Nuove misure di punizione collettiva hanno come bersaglio anche i mezzi di sostentamento delle famiglie. Il Ministro della Difesa israeliano ha emesso diversi ordini di confisca di denaro indirizzati alle famiglie di presunti aggressori, usando la legge anti-terrorismo del 2016. Il ministro ha dichiarato che la confisca è legittima in quanto il denaro serve come risarcimento per l’aggressione. Nell’agosto del 2017 la polizia israeliana ha preso d’assalto diverse abitazioni appartenenti a famiglie di presunti attentatori, confiscando grandi somme di denaro. Ad esempio, il Ministro della Difesa israeliano ha confiscato 4000 dollari alla famiglia Manasra dopo l’uccisione di Hasan Manasra, di 15 anni, da parte dell’esercito israeliano, nel 2015, durante un presunto accoltellamento in un insediamento di Gerusalemme. Questa nuova misura di punizione collettiva ha lo scopo di mantenere le famiglie dei presunti aggressori nel costante terrore di rappresaglie e colpisce le loro risorse finanziarie fondamentali.
In un altro provvedimento che ha creato un precedente, il governo israeliano ha avviato due cause contro la moglie ed i quattro figli di Fadi Qunbar e contro la moglie ed i cinque figli di Misbah Abu Sbeih, accusati di presunti attacchi terroristici a Gerusalemme Est nell’ottobre del 2016. Il processo contro la famiglia Qunbar pretese che la famiglia pagasse 2,3 milioni di dollari, mentre il processo contro la famiglia di Abu Sbeih ha richiesto una somma superiore ad un milione di dollari. L’Ufficio del Procuratore di Gerusalemme ha dichiarato: “Questa causa, che deriva da un attacco terroristico in cui sono stati uccisi dei soldati, ha lo scopo di risarcire il danno causato da questo tipo di eventi alle casse dello stato, e intende anche mandare il chiaro messaggio che lo stato può costituirsi parte civile contro gli autori di atti ostili.” L’ufficio ha anche dichiarato: “Visto che [il terrorista] ha provocato un danno, i suoi eredi legali sono quelli che devono portarne il peso e di conseguenza devono risarcire lo stato.”
Le famiglie dei presunti terroristi si trovano spesso isolate da una società che teme misure di ritorsione. Al giorno d’oggi le vittime di punizioni collettive da parte di Israele sono sempre più riluttanti a ribellarsi o a riferire di violazioni per la paura di ulteriori ritorsioni da parte delle autorità israeliane. Dopo mesi, in alcuni casi anni, di punizioni collettive, i Palestinesi spesso sperano che il loro silenzio possa proteggerli da ulteriori misure punitive. Questo timore di ritorsioni e la conseguente erosione della solidarietà tra Palestinesi, risultato della sempre maggiore arbitrarietà del potere di rivalsa da parte dello stato, ha aggravato l’impunità di Israele per quanto riguarda le sue violazioni del divieto internazionale di infliggere punizioni collettive.
Le norme della Legislazione Internazionale
La legislazione internazionale sui Diritti Umani stabilisce il divieto di misure di punizione collettiva. L’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra stabilisce che “nessuna persona protetta può essere punita per un’infrazione che non ha commesso personalmente. Le pene collettive, come pure qualsiasi misura d’intimidazione o di terrorismo, sono vietate.”
Inoltre, il trasferimento forzato dei Palestinesi rappresenta anch’esso una violazione del diritto internazionale, perché i Palestinesi sono considerati un popolo sotto protezione. Infatti, gli organismi internazionali hanno ripetutamente affermato la condizione di Gerusalemme come città occupata, designando i Palestinesi come “individui soggetti a protezione”. L’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra vieta il trasferimento forzato del popolo palestinese protetto e lo considera un crimine di guerra. Se applicato in maniera sistematica ed estesa, lo Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale lo considera un crimine contro l’umanità3. Le misure di punizione collettiva messe in atto da Israele violano anche il divieto di distruzione ed appropriazione dei beni appartenenti ad individui protetti.
Inoltre, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dichiarato nel 2016 che, “oltre ad essere una misura di punizione collettiva, trattenere corpi è in conflitto con gli impegni di Israele in quanto potenza occupante, secondo la Quarta Convenzione di Ginevra (articoli 27 e 30), e viola il divieto di torture e maltrattamenti.”
Ad Israele è anche vietato usare lo stato di emergenza o motivazioni di sicurezza per giustificare la violazione di norme di legge stabilite dalla normativa internazionale sui diritti umani. La Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha osservato che il divieto di misure di punizione collettiva è inderogabile, anche in stati di emergenza. Tuttavia Israele usa regolarmente motivazioni di sicurezza per intensificare le politiche punitive contro il popolo palestinese, allo scopo di giungere all’evacuazione forzata.
Secondo i principi del diritto consuetudinario internazionale, gli stati terzi hanno la responsabilità di impedire le violazioni dei diritti umani, indagando, perseguendo, negando l’aiuto o il riconoscimento e cooperando per interrompere questa grave violazione, mettendo anche in atto misure di ritorsione contro gli stati trasgressori. Tuttavia l’opposizione della comunità internazionale all’uso di punizioni collettive da parte di Israele è raramente andata oltre la condanna verbale. Tocca ai Palestinesi ed al movimento di solidarietà palestinese fare pressioni sulla comunità internazionale e su Israele perché queste violazioni abbiano fine.
Contrastare le punizioni collettive
1. È fondamentale per i Palestinesi e per i loro alleati aumentare la consapevolezza nei media e nella società civile sul fatto che l’uso di misure di punizione collettiva da parte di Israele è un metodo che ha per scopo ultimo il trasferimento forzato della popolazione, e sottolineare che ciò costituisce un crimine di guerra ed un crimine contro l’umanità. Questo può aiutare a rendere l’argomento prioritario nell’agenda delle Nazioni Unite.
2. I Palestinesi dovrebbero esercitare pressioni sul Tribunale Penale Internazionale (ICC) affinché la punizione collettiva sia aggiunta alla lista dei crimini perseguibili. L’indagine preliminare in corso, da parte dell’ICC, sulle possibili violazioni del diritto internazionale nei Territori Palestinesi Occupati dovrebbe essere seguita da vicino, essendo un caso chiave per il diritto internazionale riguardo alle punizioni collettive. Registrare la punizione collettiva come atto criminale da parte dell’ICC sarebbe un passo avanti verso la fine dell’impunità di Israele, rendendo perseguibile tale violazione dei fondamentali diritti umani.
3. È di conseguenza fondamentale assistere le vittime che intendano denunciare casi di punizione collettiva alla sezione dell’ICC dedicata ad agevolare la partecipazione delle vittime. È solo obbligando i criminali di guerra israeliani a renderne conto che le punizioni collettive contro i Palestinesi, che li obbligano all’evacuazione forzata da Gerusalemme, potranno cessare.
Nada Awad è palestinese, nata a Gerusalemme. Lavora come assistente ricercatrice presso l’Istituto Muwatin per la Democrazia ed i Diritti Umani dell’Università di Birzeit. Ha una laurea in Relazioni Internazionali e Sicurezza Internazionale dalla Università Sciences Po di Parigi, dove si è occupata del tema dell’evacuazione forzata dei Palestinesi da Gerusalemme.
[1] Lo Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale definisce la deportazione o il trasferimento forzato come: “spostamento forzato delle persone interessate dall’espulsione o da altre azioni coercitive dalla zona in cui sono legalmente presenti, senza motivazioni contemplate dalle leggi internazionali”.
2 Dati dell’unità di sorveglianza di Al-Haq, 12 gennaio 2018.
3 Sebbene l’imposizione di punizioni collettive sia considerato un crimine di guerra nel rapporto della Commissione sulle Responsabilità creata dopo la prima guerra mondiale, così come negli statuti del Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda ed anche negli statuti della Corte Speciale per la Sierra Leone, questo reato non è stato incluso nello Statuto di Roma.
Traduzione di Anna Maria Torriglia e Rosaria Brescia