Il momento della verità per Khan al-Ahmar.

Un Palestinese nel villaggio beduino di Khan al-Ahmar nella Cisgiordania occupata, 6 luglio 2018.

di Hagai El-Ad

Qualche volta l’ultimo giorno in tribunale non è l’ultimo.

La decisione del 24 maggio presa dai giudici dell’Alta Corte Israeliana Sohlberg, Baron e Willner si pensava fosse appunto l’ultima per Khan al-Ahmar, una comunità palestinese a pochi chilometri ad est di Gerusalemme. E l’ultima seduta doveva esser seguita a breve termine dalla demolizione dell’intero villaggio da parte delle autorità israeliane.

Per quanto quella decisione fosse stata presa all’unanimità e senza riserve, altro non era se non un tentativo di fornire una parvenza di legalità formale ad un‘azione profondamente immorale –e sostanzialmente illegale– da parte dello stato. Dimostrando una cecità fatta dei più cinici formalismi, i giudici hanno creduto bene di ignorare piccoli “dettagli” come il fatto che Israele ha sistematicamente mantenuto un sistema di pianificazione con il quale non permette quasi mai ai Palestinesi di ottenere un permesso di costruzione. Avendo tenuto opportunamente nascosto questo essenziale antefatto, i giudici hanno spianato la strada a una motivazione di “ordine giuridico” per demolire una scuola, dozzine di case e le vite stesse di più di 170 Palestinesi.

Decisioni di questo tipo devono essere contestate a livello locale e internazionale, come certamente è avvenuto per questa decisione.

Una serie di fattori tra loro combinati ha probabilmente fornito le basi per un’improvvisa disponibilità da parte dell’Alta Corte a non respingere su due piedi una nuova petizione [degli abitanti]: la regìa pacifica della comunità da parte di Eid Jahalin e degli altri; la resistenza nonviolenta degli attivisti nei giorni in cui, all’inizio del mese, i bulldozer israeliani si preparavano alle imminenti demolizioni (anche se ci furono 11 arresti e dozzine di feriti per la brutalità delle forze di sicurezza israeliane); l’evidente azione diplomatica esercitata sia con dichiarazioni che con la presenza fisica (come nella visita fatta il 5 luglio da diplomatici di Francia, Reggo Unito, Italia, Svezia, Belgio, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Svizzera, Germania, Spagna e Irlanda); una lettera aperta internazionale firmata da più di 300 rappresentanti eletti, studiosi di diritto, personalità accademiche, artisti, leader religiosi e attivisti da tutto il mondo; e una decisa dichiarazione che la demolizione del villaggio, se attuata, sarebbe stata considerata un crimine di guerra.

Ora Khan al-Ahmar ha un nuovo appuntamento con la Corte: per il 1° agosto.

La decisione del 24 maggio non aveva reso minimamente più accettabile da un punto di vista morale la demolizione di Khan al-Ahmar. Aveva solo dato il via libera a un incombente crimine di guerra, di cui i giudici diventavano complici e personalmente responsabili. Avendo capito questo, cosa prenderanno in considerazione i giudici nella prossima udienza?

Come già dimostrato dai fatti delle ultime settimane, dobbiamo concentrare i nostri sforzi nel mantenere la questione in primo piano per l’attenzione internazionale. La protesta ufficiale di cinque paesi europei (Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Spagna) è stata cruciale, ma –come si vede dalle dichiarazioni israeliane presentate alla Corte per la nuova petizione– non è stata sufficiente: Israele è rimasto fermo nella sua intenzione di andare avanti. Le osservazioni che lo stato ha presentato alla Corte il 10 luglio non mostrano ripensamenti: “Si precisa che le autorità esecutive dell’Amministrazione Civile, così come la Polizia Israeliana e varie altre parti che agiscono a nome dei convenuti, sono alle ultime fasi di preparazione per portare a compimento gli ordini di demolizione del complesso di Khan al-Ahmar, secondo il progetto presentato dallo stato. Per chiarire del tutto il concetto e togliere ogni dubbio, essere “alle ultime fasi di preparazione” significa che gli ordini di demolizione si prevede possano essere eseguiti nel giro di alcuni giorni.”

Comunque, i giudici concedono ora questo ulteriore riesame. E sulla spinta di altre azioni concrete, anche i governanti israeliani potrebbero fare altrettanto. I cinque stati europei si sono espressi energicamente. E il 18 luglio l’alto rappresentante UE Federica Mogherini ha minacciato conseguenze “assai gravi.” Ma quali potrebbero essere queste conseguenze? Cosa avrebbe fatto l’Europa se non fosse stata presentata una nuova petizione, la Corte non avesse emesso un ordine di sospensiva e le demolizioni fossero andate avanti senza indugio come Israele ha ufficialmente insistito di voler fare?

Perché un simile scenario non si realizzi, gli Europei –e gli altri– devono raddoppiare i loro sforzi per salvare questa comunità.

Gli sforzi messi in campo finora hanno fatto sì che il 24 maggio non fosse, dopo tutto, l’ultimo giorno. A due mesi da allora, Khan al-Ahmar è ancora in piedi. Abbiamo la possibilità di salvare questa comunità –e dozzine di altre. L’intenzione di Israele è quella di trasferire forzatamente migliaia di Palestinesi. Une pressione pubblica ben visibile ha fatto arrivare Khan al-Ahmar fino a questo punto. Il nuovo obiettivo è ora il 1° agosto, per far sì che Israele riveda le sue intenzioni e faccia marcia indietro. Il momento della verità per Khan al-Ahmar è anche il nostro momento della verità.

Per decenni, Israele si è rifiutato di concedere persino una decente strada di accesso a Khan al-Ahmar. Questo mese, lo stato ne ha finalmente costruita una, non perché servisse ai residenti, ma perché permettesse la demolizione delle loro case. Magari, se la giustizia ha la meglio, non solo la comunità potrà restare al suo posto, ma potrà finalmente avere anche la sua strada asfaltata di accesso. Le ultime fasi verso la demolizione potrebbero diventare i primi passi verso la costruzione, lo sviluppo e la giustizia.

L’autore è il Direttore esecutivo di B’Tselem.

Traduzione di Donato Cioli

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