Come lo Shin Bet ha ottenuto un potere illimitato nel decidere quali Palestinesi sono ammessi in Israele.

I criteri che regolano il rilascio dei permessi di lavoro ai Palestinesi da parte di Israele sono un mistero, ma la sociologa Yael Berda sostiene che non sia affatto una questione di sicurezza, quanto piuttosto di controllo della popolazione locale.

di Shany Littman

Haaretz, 12 aprile 2018

La studiosa di sociologia e giurisprudenza Yael Berda è solita iniziare le sue lezioni con un esercizio guidato.

“Chiudete gli occhi” suggerisce ai suoi ascoltatori “e visualizzate il vostro ultimo incontro con una qualsiasi forma di burocrazia. Quanto tempo avete aspettato in coda? Come era la stanza nella quale eravate seduti? Che aspetto aveva l’impiegato seduto di fronte a voi? Cosa sentivate, dentro di voi, mentre eravate lì?” Poi Berda inizia a descrivere la burocrazia di cui i Palestinesi fanno esperienza come parte integrante della loro interazione quotidiana con le autorità israeliane. A quel punto, al pubblico risulta evidente che, se non sono essi stessi palestinesi, non hanno neppure iniziato a capire quale sia tutta la potenza della burocrazia.

Il percorso professionale, accademico, politico e di attivista di Brenda trae origine innanzitutto dalle esperienze della sua vita privata. Non è una coincidenza, quindi, che lei inizi il suo ultimo libro, “Living Emergency: Israel’s Permit Regime in the Occupied West Bank ” (Stanford University Press), con la storia personale di Issa, un operaio edile palestinese che vive con sua moglie e i loro tre figli in un villaggio vicino a Hebron. Il libro, come dice lei stessa in un’intervista ad Haaretz, “tenta di raccontare la storia dell’occupazione attraverso un caso individuale che ha a che fare col regime dei permessi, descrivendo l’interazione con i burocrati e gli effetti dell’occupazione. Quando capisci la storia dello Shin Bet nei Territori, vengon fuori domande di ogni genere circa il ruolo del servizio di sicurezza.”

Issa iniziò a lavorare per un impresario edile nell’area di Gerusalemme nel 2001. Ricevette un permesso di lavoro che gli consentiva di entrare in Israele ogni giorno per 12 ore. Il rilascio del permesso era subordinato al ricevimento di una carta magnetica emessa dal Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori. Ogni tre mesi, l’impresario avrebbe rinnovato i permessi di tutti i suoi dipendenti, incluso Issa. Questa prassi non incontrò alcun ostacolo fino al novembre del 2004, quando l’impresa tentò di rinnovare i documenti di lavoro di 15 lavoratori e le richieste di Issa e di un suo collega furono respinte. Recatosi presso gli uffici del COGAT (Coordination of Government Activities in the Territories) a Hebron, Issa fu informato che la polizia gli aveva negato il permesso, per motivi di sicurezza. Ulteriori indagini rivelarono che era sotto inchiesta per due casi di ingresso illegale in Israele.

Berda parte da qui per descrivere un lungo, tortuoso ed esasperante percorso burocratico, nel quale è stata coinvolta in qualità di avvocato nel tentativo di capire perché a Issa era stato negato l’ingresso in Israele per motivi di sicurezza, se e come sarebbe stato possibile revocare il divieto e chi era responsabile della decisione su questo caso.

Yael Berda. Emil Salman

Lo Shin Bet revocò il divieto dopo 19 mesi, durante i quali Issa rimase senza lavoro e perse retribuzioni per un ammontare di oltre 100.000 shekel (all’epoca dei fatti, circa $ 22.000). Fu costretto a prendere in prestito del denaro per affrontare le spese familiari e le sue spese legali superarono i 10.000 shekel.

Oggi Issa lavora di nuovo in Israele con un permesso di lavoro e riesce agevolmente a mantenere la sua famiglia. Non ha mai scoperto perché lo considerassero un rischio per la sicurezza e vive costantemente nel timore di poter essere espulso di nuovo in modo arbitrario.

Il disastro di Oslo

La ricerca che è all’origine del libro si è imposta, in un certo senso, automaticamente a Berda, 41 anni, che, come già detto, si lascia guidare dalle esperienze personali e non esclusivamente dalla sua formazione accademica. Ha scritto il suo primo libro nel 2012, “The Bureaucracy of Occupation”, basandosi sulla sua tesi di dottorato in sociologia e antropologia, discussa presso l’Università di Tel Aviv. Già a quel tempo, dice, le era chiaro che il regime dei permessi di ingresso è un mastodontico sistema che governa una popolazione vastissima e nel quale gli aspetti sommersi sono più numerosi di quelli visibili. In qualità di avvocato, aveva anche depositato petizioni presso l’Alta Corte di Giustizia per conto della ONG Machsom Watch, che tentava di aiutare i Palestinesi a cui era stato negato l’ingresso in Israele per motivi di sicurezza a ottenere la revoca di tali divieti. Nessuno, secondo lei, compresi i funzionari dell’Autorità Palestinese e del COGAT, in realtà sapeva esattamente come funzionasse il regime dei permessi.

Berda difese centinaia di Palestinesi che si trovavano in quella stessa situazione e, strada facendo, raccolse un bel po’ di informazioni sul funzionamento del sistema dello Shin Bet riguardo ai permessi di ingresso. Quando iniziò a lavorare come sociologa, utilizzò questi dati per le sue ricerche. E si tratta della descrizione più dettagliata, tra quelle disponibili, sul modo in cui funziona il metodo: una burocrazia di “emergenza costante”, proprio come il titolo del suo libro.

Berda sostiene che ci siano circa 250.000 Palestinesi espulsi da Israele per ragioni di sicurezza. Un motivo di sicurezza, dice, può riguardare il fatto di avere un membro della famiglia che sia stato ferito dalle forze armate israeliane, poiché questo può rendere la persona sospetta di volersi vendicare. Altre ragioni possono essere addirittura più arbitrarie. “Un datore di lavoro può dire qualcosa su di te, e tu ti troverai espulso per motivi di sicurezza a causa di un diverbio sul lavoro”, spiega. “Ci sono 250.000 terroristi nei Territori? Io credo di no, ma questo è il metodo.”

Lo spartiacque che ha segnato il drammatico deterioramento della situazione palestinese è stata la firma degli accordi di Oslo, nel 1993. “Dopo l’occupazione, Oslo è la cosa peggiore che potesse accadere ai Palestinesi”, dice Berda. “Fino al 1991”, spiega, “i Palestinesi avevano generici permessi di ingresso in Israele validi durante il giorno. Le condizioni sono cambiate in seguito agli accordi di Oslo. Nel 1994 è stato creato il distretto di polizia di Giudea e Samaria e, da quel momento in poi, ai Palestinesi è stato richiesto di avere con sé sia un permesso rilasciato dallo Shin Bet che uno concesso dalla polizia. Il permesso era valido per tre mesi e doveva essere accompagnato da una carta d’identità magnetica della validità di due anni.

Anche la capacità di Israele di avere il polso di cosa stesse accadendo tra la popolazione palestinese all’interno dei Territori è cambiata significativamente durante questo periodo, spiega Berda, “Fino a Oslo, per molti anni, lo Shin Bet aveva persone piazzate nelle città”, dice. “Erano agenti che si facevano passare da arabi oppure erano dei collaboratori. Ottenevano informazioni sensibili, avevano piena accessibilità, entravano e uscivano a loro piacimento e facevano come meglio credevano. Esattamente come puoi vedere in un episodio di “Fauda”, ma al di là del muro.”

Berda descrive due processi apparentemente contraddittori, che insieme hanno portato lo Shin Bet a diventare l’unica autorità a decidere quali Palestinesi potessero entrare in Israele. Da una parte, l’istituzione dell’Autorità Palestinese e la costruzione della barriera di sicurezza hanno portato a una significativa riduzione del coinvolgimento diretto dello Shin Bet nella popolazione palestinese.

Berda cita il sociologo palestinese Salim Tamari, il quale afferma che l’apparato di sicurezza israeliano è diventato fondamentalmente cieco. “Tamari parla del periodo in cui Fatah eliminò i collaboratori, e poi anche lo Shin Bet attraversò un periodo difficile. Quando non possono vedere cosa succede, si innervosiscono. Dopo Oslo, non potevano più essere presenti nelle città, perché era troppo pericoloso. Non sarebbero stati in grado di far uscire i loro agenti abbastanza in fretta. Quindi, cosa hanno fatto? Non penso che l’abbiano pianificato in anticipo, ma improvvisamente gli sono piovute dal cielo queste persone che avevano bisogno di permessi di ingresso.”

Dall’altra parte, le autorità israeliane sono diventate maggiormente dipendenti dalla cooperazione con l’Autorità Palestinese. Dopo alcuni anni, anche questo è andato storto. “L’apparato di collaborazione è collassato nel corso della seconda intifada e tutta la fiducia che il popolo di Oslo aveva avuto nei confronti dei suoi partner palestinesi è stata completamente sbaragliata,” dice. “Lo Shin Bet divenne l’unico ente in grado di determinare chi fosse un amico o un nemico. Da questo momento in poi, i suoi dipendenti poterono fare ciò che volevano e tutto passava per le loro mani: le regole, i profili personali. La gente smise di parlare di fattori economici o di altro tipo, perché a quel punto era importante solo quello che sosteneva lo Shin Bet. Raggiunsero un potere illimitato.”

Il Re Hussein di Giordania, il Primo Ministro Ytzhak Rabin, il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il leader dell’OLP Yasser Arafat e il Presidente egiziano Hosni Mubarak alla Casa Bianca prima della firma degli Accordi di Oslo. Avi Ohayon / GPO

Il nuovo collaboratore

Quanto più è diventato difficile entrare in Israele, tanto più le vite dei Palestinesi hanno iniziato a dipendere dai permessi di ingresso. Poiché i permessi richiedono rinnovi frequenti, spiega Berda, lo Shin Bet sfrutta la richiesta di rinnovo come un’opportunità per offrire ai Palestinesi vari accordi, creando in questo modo un fitto sistema informativo, che conta decine di migliaia di persone. “Dicono: se ci aiuti ti aiuteremo”, continua Berda. “Loro [i collaboratori] non sono fedeli come gli agenti, ma possono mettere un occhio in quasi tutte le case e possono anche essere utili per gli omicidi. Loro dicono ai Palestinesi: basta che ci avvisi quando Yusuf esce la mattina. Mandami un messaggio di testo con il numero 9.”

Benché la maggior parte delle persone rifiutino l’accordo, dice Berda, ci sono comunque molti che l’accettano. “Oggi, per i Palestinesi, collaborare non è più una cosa per cui si viene uccisi, come nel periodo degli agenti. Oggi non ti toccherebbe nessuno perché ci sono semplicemente troppe persone coinvolte. Tutti passano da questa esperienza, perché tutti hanno bisogno di un permesso per lavoro o per una visita medica o per incontrare dei parenti. Chiunque riceva un permesso d’ingresso, è visto come un informatore. Il risultato è il disfacimento del tessuto sociale, a causa del costante sospetto.”

I criteri per decidere chi può ricevere un permesso d’ingresso restano un mistero. Berda dice di aver preso in esame 800 casi in cui ai Palestinesi è stato negato l’ingresso in Israele per problemi di sicurezza, ma per i quali non c’era ragione apparente. Dice che, in questi casi, la sua tattica non era di andare in tribunale, dove era chiaro che lo Shin Bet avrebbe sempre vinto. “I tribunali non hanno mai imposto allo Shin Bet di revocare un divieto per ragioni di sicurezza. Loro non sanno quali siano i motivi di sicurezza, perché sono segreti. Conoscono solo un sommario delle ragioni reali e questo sommario è sempre accettato. Così la corte accetta sempre la versione dello Shin Bet. L’autorità giudiziaria non ha un reale potere contro lo Shin Bet, quindi non serve a niente presentare un’istanza in tribunale.”

Ciò che si può fare, dice Berda, è trascinare il processo in modo che il caso non finisca all’Alta Corte che approverebbe automaticamente il divieto per sicurezza. “Presentiamo invece simultaneamente molte istanze su casi diversi alla Procura, e poiché il PM avrà il piatto pieno, tenterà di negoziare un accordo tra noi e lo Shin Bet al fine di evitare il processo. Immagino l’avvocato della Procura che chiede allo Shin Bet “Forse a questo potresti concedere un pass?” Ecco come ho tolto il divieto per sicurezza a così tante persone, perché le autorità non possono tener duro, visto che le ragioni di sicurezza non sono così serie. Sono riuscita a farlo rimuovere a 40 persone. Vuol dire cibo per 40 famiglie.”

Un’altra situazione assurda che Berda indica è quella per cui, alle volte, il divieto per sicurezza è stato tolto, ma solo per andare a lavorare negli insediamenti. “C’erano Palestinesi cui era vietato, per ragioni di sicurezza, entrare in Israele, ma che avevano il permesso di lavorare nei Territori. Non ci sono forse Ebrei nelle colonie?”

Quindi, le ragioni di sicurezza non sono reali?

“Il regime di permessi d’ingresso non è uno strumento per garantire sicurezza, e nulla mi convincerà del contrario dopo tanti anni di ricerca” dice Berda. “È uno strumento per controllare la popolazione. Permette la prevenzione degli attacchi, ma non grazie allo strumento in sé, bensì piuttosto a causa dei vantaggi che ne derivano, come il reclutamento di collaboratori, che è proibito dalla Convenzione di Ginevra.”

Un’eredità coloniale

Nel suo libro Berda descrive un sistema che non è subordinato alla gerarchia politica, ma che è invece quello che detta le sue stesse regole. “Non è solo un’autorità esecutiva, è un’autorità decisionale” dice. “Nessuno è pronto a prendersene la responsabilità. Alla fine della giornata, chi esegue è lo stesso che decide.”

Palestinesi che aspettano di passare il checkpoint di Qalandiyah tra la città di Ramallah in Cisgiordania e Gerusalemme. ABBAS MOMANI / AFP

Questo avviene perché sono percepiti come gli unici a sapere veramente quello che succede?

“Il Ministero della Sanità ha dottori, ricercatori ed esperti, ma comunque, alla fine, è il ministro della sanità quello che definisce le politiche” dice. “Qui si suppone ci sia il ministro della difesa, ma lui non ha peso. Solo lo Shin Bet è rilevante.”

Berda spiega che il potere illimitato dello Shin Bet ha le sue radici in due fattori. Il primo è la mancanza di una leadership politica sufficientemente forte; il secondo è l’eredità coloniale passata alla burocrazia israeliana (questo è l’oggetto della sua tesi di dottorato nel dipartimento di sociologia dell’Università di Princeton).

“Non ci sono autorità legislativa, esecutiva e giudiziaria separate in un regime coloniale, ma c’è piuttosto un’unica autorità esecutiva. Nella mia tesi, ho analizzato l’eredità della burocrazia britannica e la sua influenza sui modelli di Israele, Cipro e India.” Berda suggerisce che “qui si è scelto di continuare la politica colonialista britannica, che è basata sulla gerarchia razziale. E bisogna capire che la nostra burocrazia è il riflesso di un sistema non-democratico, nel quale l’autorità esecutiva ha un enorme potere, mentre le autorità legislativa e giudiziaria non hanno un gran potere.”

Nel modello standard di burocrazia formulato dal sociologo Max Weber, dice Berda, l’assunto basilare è che il sistema sia soggetto a leggi chiare e conosciute, ed è importante che esso sia metodico e non arbitrario. La burocrazia coloniale, al contrario, “poiché opera in una situazione di emergenza costante –visto che non vi è legittimità dalla parte del governante mentre la popolazione occupata sconfina verso la definizione di popolazione ostile– crea continuamente eccezioni alla legge. La popolazione è divisa in categorie e la legge si adatta alla situazione”.

Ma non c’è nessuno nel sistema che vede l’ingiustizia e vuole attuare un cambiamento?

“Non credo che siano tutti cinici” risponde lei. “La gente vuole attuare dei cambiamenti, ma poi gli viene chiesto: vuoi prenderti la responsabilità del prossimo attacco terrorista? Puoi sentire molte persone sagge e capaci che si mostrano completamente indifese di fronte alle richieste dei falchi della sicurezza. E lì diventa chiaro che la legge non è determinante. L’Alta Corte di Giustizia e le organizzazioni per i diritti umani sono visti come una seccatura. Vengono chiamati traditori e persone che odiano Israele perché non lasciano che il sistema continui sulla sua strada senza restrizioni. La semplice richiesta che tutto sia trasparente e definito dalla legge, è percepita come una minaccia al potere.”

Una prova del suo assunto che non c’è connessione tra il regime dei permessi e la sicurezza dello stato, secondo Berda, deriva dagli scandali di falsificazioni che vengono occasionalmente rivelati. “Almeno 1000 permessi vengono contraffatti ogni anno” dice. “C’è un mercato nero per i permessi abusivi venduti a lavoratori che non sono passati attraverso le procedure di controllo. Un datore di lavoro riceve un permesso a nome di una persona, e lo dà a qualcun altro.”

“Quanti rinvii a giudizio sono emessi ogni anno per contraffazione? Tra uno e tre. Se ci fosse tanta preoccupazione per la sicurezza, i falsari dovrebbero essere considerati dei traditori, ma non lo sono. C’è un individuo che ha guadagnato 1,5 milioni di shekel (circa 440.000 dollari) falsificando 1.400 permessi, in associazione con un funzionario dell’amministrazione civile e con un altro funzionario dell’ufficio pagamenti. Ha avuto una sentenza di 4 anni, che si è ridotta in pratica a un anno e mezzo. Si meritava una pena più severa. Peccato che questo non sia sulla lista delle priorità di nessuno.”

Se il sistema non protegge la sicurezza dello stato, allora cosa ci sta a fare?

“Preserva soprattutto il suo stesso potere e il suo controllo su una popolazione molto ampia” dice Berda. “Questo ha degli effetti economici molto importanti. Io sono una grande seguace di Hannah Arendt, che descrive come la promozione e la tutela dei poteri di polizia e dei servizi segreti siano tra le caratteristiche dei totalitarismi. Stiamo parlando della fonte di tutti i processi che portano al fascismo (a livello nazionale). Questa è una logica in cui non c’è legge e tu operi all’interno di una struttura che costruisci per te stesso, in cui le giustificazioni per ogni atto sono interne. E non stanno nei Territori o dietro il muro. Arrivano anche dalla nostra parte del muro”.

Lo Shin Bet collabora con i falsificatori?

“Non penso che nello Shin Bet ci sia corruzione direttamente legata a soldi o a tangenti” dice. “Lo sfruttamento e la corruzione nello Shin Bet sono intrinseche al lavoro che svolge. Mandano l’esercito a demolire la casa di qualcuno alle 6 del mattino e a portare in galera lui e i suoi fratelli. E se lo Shin Bet lo chiede, deve esserci una ragione, e nessuno fa domande. Dal momento in cui si sono appropriati della gestione del rischio sicurezza, hanno assunto un enorme potere. Immagina una vicina, una donna, che viene e ti dice che c’è nel vicinato qualcuno colpevole di reati sessuali. Nel giro di un secondo diventi tu stesso Pubblica Sicurezza. È del tutto umano. L’attività dello Shin Bet dipende dalla propaganda”.

Ma non c’è nessuno che cerca di far scoppiare questa bolla?

“L’estrema destra ci sta provando. La hilltop youth [’gioventù delle colline’, una gang di coloni] dice che quelli dello Shin Bet sono dei fascisti. Ed è vero, tra l’altro. Perché stanno mettendo Bentzi Gopstein [fondatore dell’organizzazione anti-araba Lehava] in detenzione amministrativa? Raccolgono indizi e lo arrestano. Ma questi attacchi [fatti da Ebrei contro gli Arabi] rafforzano lo Shin Bet. I suoi uomini diventano i cavalieri dello stato di diritto. Avere un “dipartimento ebraico” nello Shin Bet rende l’organizzazione egualitaria”.

Berda dice che qualcuno dovrebbe chiedere allo Shin Bet perché ha bisogno del regime dei permessi. “C’è bisogno di qualcuno abbastanza coraggioso da dire: ‘Abbiamo vissuto con una certa idea, e ora voglio offrire qualcosa di diverso’. Ma quella persona deve essere pronta a pagare il prezzo. Oggi, semplicemente, nessuno osa”.

Palestinesi che aspettano al valico di Tarqumiyah per entrare in Israele. Emil Salman

Un attivismo basato sul proprio credo

A Berda piace ricordare il modo in cui la storia della propria famiglia l’ha spinta sia all’attivismo che allo studio dei burocrati. Berda è nata a New York, prima figlia di un padre francese cresciuto in Marocco e di una madre statunitense. Quando aveva 4 anni, la famiglia si trasferì a Gerusalemme, dove vive tuttora assieme ai suoi due figli piccoli. Ha due sorelle, gemelle tra di loro, di sei anni più giovani di lei.

Berda dice che in Israele i genitori fecero ogni sorta possibile di errori finanziari, ciò che, assieme al precario stato di salute del padre, determinò una situazione catastrofica.

“Eravamo poveri”, ricorda. La nostra casa era priva di riscaldamento e di telefono. Quando avevo quattordici anni mio padre fece bancarotta, e così ebbe inizio l’implacabile persecuzione dell’ufficiale giudiziario. Ogni due mesi andavo a riprendere la televisione che ci avevano tolto. Volevano prenderci la casa. I miei genitori furono imprigionati per debiti, mentre io correvo continuamente da un avvocato all’altro. Sin dalla più giovane età, impantanata nella povertà e nel disagio, priva di assistenza, mi sono accorta che responsabile di tutti questi mali era la burocrazia. E non riuscivo a comprendere come tutto ciò potesse avvenire nel paese giusto, egalitario e democratico di cui tutti parlavano. Non è possibile descrivere quello che ciò determini in una ragazzina di quattordici anni il cui spazio sicuro, la casa, si trasforma in un campo di battaglia all’interno di una vera e propria guerra per l’esistenza.

Il Prof. Yehuda Shenhav. Alon Ron

Berda si laureò in Legge presso l’Università Ebraica di Tel Aviv, e lavorò come avvocato prima di ottenere la laurea in Sociologia. Attualmente è membro del Dipartimento di Sociologia ed Antropologia dell’Università Ebraica. Dice che venne spronata a studiare i sistemi burocratici lavorando col sociologo Yehuda Shenhav.

“Quando ero avvocato,” ricorda, “venni a conoscenza del sistema che disciplina i permessi, rendendomi conto che nessuno al mondo ne conosceva l’esistenza, a parte i funzionari che rilasciano i permessi. Incontrai Shenhav attraverso il Mizrahi Democratic Rainbow (un’organizzazione che si occupa di giustizia sociale). Gli dissi che esisteva un sistema di controllo sui Palestinesi totalmente burocratico, connesso non con l’esercito, bensì con le assunzioni al lavoro e che era molto importante che egli ne scrivesse. Mi rispose: puoi farne argomento di tesi di laurea all’Università di Tel Aviv. Io sarò il tuo relatore. Decisi di farlo, innamorandomi profondamente della materia. Fu per me una rivelazione che nel mondo ci sia un sapere che si occupa di modi di pensare, sentimenti, cultura e potere, a differenza del sapere legale, e che il primo rende irrilevante tutto quello che appariva importante e interessante.”

Berda aggiunge che si rivolse a Shenhav proprio per il suo modo di vedere la cornice politica e di governo attraverso un’analisi sociologica delle organizzazioni: “È un prisma che osserva le pratiche organizzative. In tal modo può penetrare il sottobosco dello stato, non soltanto la sua brillante superficie. È assai diverso da un atteggiamento legalistico che parla della legge come se fosse l’elemento costitutivo dello stato, ed è anche diverso dall’atteggiamento dell’attivismo, che parla di valori. Se seguiamo il potere politico per mezzo dei documenti, ci rendiamo conto di come lo stato si presenta realmente.”

Berda porta come esempio la Legge d’Intesa Economica (hok hahesderim, secondo la quale le spese vengono aggiunte al bilancio statale senza il regolare processo di valutazione), per dimostrare che Israele non è una democrazia: “La legge d’intesa è come una sanguisuga sul bilancio”, dice. “È uno strumento attraverso il quale il dipartimento del Ministero delle Finanze che si occupa del bilancio può introdurre qualsiasi provvedimento, ivi compresi i regolamenti, ed ha facoltà di congelare, scongelare o aggiungere fondi. In sostanza, l’autorità esecutiva gestisce il paese come vuole. E se i parlamentari votano contro la legge, la Knesset si scioglie. Ciò vuol dire che in pratica è il dipartimento bilancio del Tesoro a stabilire la politica israeliana. Ed è impossibile scoprire tutto questo da quel che dicono i politici o le inchieste giornalistiche. Lo si può scoprire solo esaminando il sistema.”

Non pensi che l’ideologia ne sia in parte responsabile?

“No, di solito facciamo riferimento solo all’aspetto ideologico o nel migliore dei casi a quello culturale ed economico, e diciamo che il Sionismo è un progetto immobiliare”, dice. “In realtà il repertorio dei metodi usati per governare è critico. Può esserci ogni tipo di ideologia, ma ciò che permette di realizzare l’ideologia è un sistema che fornisce potere illimitato all’autorità esecutiva, mentre le autorità legislative e giudiziarie ne sono prive.

Attraversare il confine

Oltre ad essere avvocato e ricercatrice universitaria, Berda è attivista del movimento “Una Terra per Tutti”, fino a poco tempo fa chiamato “Due Stati, una Patria”, che sostiene una soluzione confederativa. “L’idea è quella di due stati sovrani provvisti di piena libertà di movimento dall’uno all’altro”, dice: “Esisterebbero un passaporto ed una corte suprema comuni, che affronterebbero assieme problemi quali acqua ed infrastrutture. All’interno dello stato palestinese i colonizzatori rimarrebbero in qualità di individui, non come imprese. I Palestinesi avrebbero il diritto di ritornare all’interno dei territori occupati e, come parte dell’accordo, alcuni rifugiati del 1948 avrebbero il diritto di tornare all’interno dei confini israeliani precedenti al 1967. Ogni stato avrebbe la propria politica immigratoria per decidere chi può entrare, in che quantità e in che modo. In momenti difficili si potrebbe decidere che Israele continui ad essere lo stato del popolo ebraico, tuttavia la Legge del Ritorno per gli Ebrei non sarebbe automatica. Non c’è Palestinese che si opponga a che Israele sia rifugio degli Ebrei in tempi di pericolo. Si oppongono invece al fatto che in ventiquattro ore, provenendo da Brooklyn con la tua valigia, ti si conceda il permesso d’immigrazione assieme ad un pacchetto di servizi e col diritto di aprire un’attività commerciale, mentre un rifugiato palestinese non ha diritto di rientrare né nei confini post-1948, né in quelli post-1967. Tutta la discussione è su questo.”

Berda asserisce che la missione più importante di “Una Terra per Tutti” è mutare i sentimenti di paura e di sospetto che secondo lei caratterizzano soprattutto la parte ebraica. “Appena cominciano a parlare con Palestinesi che non ripetano a pappagallo la narrativa nazionale (giacché anche dalla loro parte c’è l’equivalente del [partito israeliano di destra] Habayit Hayehudi), si accorgono che non hanno difficoltà all’idea che gli Ebrei possano vivere nelle comunità palestinesi. Gli Ebrei non dicono così. Hanno una gran paura degli Arabi, anche nella vita quotidiana. Ciò si collega anche al fatto che non ne conoscono la lingua. Se si leggono i giornali della società palestinese, ci si rende conto della profondità delle discussioni politiche ed amministrative.”

Per liberarsi della paura, dice Berda, è necessario vivere l’esperienza fisica di recarsi dall’altra parte. “Se si dice di andare a Ramallah, ci si penserà una settimana, occupandosi di cosa indossare e di quel che accadrà. La paura è nel corpo. Ma se ti trovi accanto ai Palestinesi nel corso di una manifestazione, con i soldati di fronte a te, ti liberi dalla paura. Nel momento stesso in cui si attraversa il confine, si è liberi.”

Berda dice che lo vede soprattutto negli uomini. “Si sentono a disagio se vanno nella Città Vecchia di Gerusalemme poiché a loro ricorda quando erano nell’esercito”, dice. “Tornano nel luogo in cui erano un bersaglio mobile per la popolazione sconfitta. Se sentono parlare Arabo, ci ritornano col pensiero. Si portano dietro dappertutto questa paura, sia in politica che negli affari. Qualsiasi cosa viene motivata da questa insondabile paura esistenziale. Io invece ho avuto la fortuna di crescere nel quartiere di Gilo (al confine del Sud di Gerusalemme). Ogni sabato i miei genitori si recavano a Betlemme. Da piccola mi sentivo a casa. Non ho dubbi: questo ha influito sul mio pensiero politico in maniera determinante.”

Nonostante siano profonde la paura e l’alienazione, nonostante le sue ferme conclusioni riguardo al modo in cui la burocrazia detiene il potere, Berda è ottimista, e continua ad essere convinta che tutto si può correggere.”Se si è eliminata la schiavitù, si può eliminare il razzismo,”dice.“Mi riferisco a regimi politici che in passato hanno goduto di piena legittimazione, e ora non ce l’hanno più. Il colonialismo è morto, dunque questa è una cosa che si può fare.”

Quando gli è stato chiesto di rispondere alle osservazioni di Berda, lo Shin Bet ha dichiarato ad Haaretz: “Il Servizio Generale di Sicurezza sottolinea che le proprie posizioni sull’entrata dei Palestinesi in Israele nascono da considerazioni rigorosamente legate alla sicurezza e per contrastare il terrorismo. Tali posizioni sono esaminate di routine secondo la situazione della sicurezza e delle minacce di terrorismo. È necessario sottolineare che tali posizioni si sono dimostrate nel corso degli anni uno strumento significativo per prevenire pericoli per la vita umana e per sventare attacchi terroristici provenienti da Giudea, Samaria e Gaza. Il Servizio Generale di Sicurezza rifiuta qualsiasi affermazione secondo cui verrebbero considerate questioni non connesse alla sicurezza nel formulare la propria posizione al riguardo.”

Shany Littman

Collaboratore di Haaretz

https://www.haaretz.com/israel-news/.premium.MAGAZINE-how-the-shin-bet-got-unlimited-power-to-bar-palestinians-from-israel-1.5994535

Traduzione di Daniela Marrapese, Chiara Ascari e Antonella Micone

Lascia un commento