I funzionari della difesa israeliana sostengono che la pena di morte non eviterà gli attacchi terroristici. Ecco il reale contenuto della proposta di legge.
Adam Raz
Haaretz, 19 gennaio 2018
Uno degli aspetti più frustranti del dibattito pubblico sulla legge che introduce la pena di morte [in Israele] è il silenzio della sinistra israeliana. La maggior parte delle critiche si sono incentrate sul comportamento problematico del governo nel presentare la proposta, nonché sul punto di vista generalmente accettato che il suo varo innalzerà la reputazione del Ministro della Difesa Avigdor Lieberman all’interno del suo elettorato. Il carattere scialbo delle argomentazioni offerte contro il passaggio della legge riflette il fatto che, stando ad una statistica condotta ad agosto dall’Istituto per la Democrazia Israeliana, il 70 percento del pubblico ebreo in Israele sostiene la pena di morte per i terroristi. Questo vuol dire che, anche tra quelli che si identificano come persone “di sinistra”, si è pronti ad attuare una politica di vendetta, una cosa che la maggior parte degli Stati più illuminati al mondo ha gradualmente abbandonato.
Nel suo saggio scritto nel 1957 “Riflessioni sulla ghigliottina”, Albert Camus sostiene che la pena di morte è un “atto rituale”. Nel caso di Israele, questo concetto è rilevante per due ragioni. In primo luogo, gli esperti sono concordi nel dire che la pena capitale non è efficace come deterrente contro gli atti di violenza. Anzi, la pena di morte non è nemmeno un deterrente per l’omicidio in generale, quindi tanto meno per azioni a sfondo nazional-religioso, dove il terrorista suicida è comunque pronto a dare la vita. In secondo luogo, il servizio di sicurezza Shin Bet ha avvisato che l’imposizione della sentenza capitale per i terroristi in Israele incentiverà i rapimenti di Ebrei in giro per il mondo, al fine di negoziare il rilascio dei condannati. In altre parole, il solo effetto della pena di morte sarà quello di peggiorare la sicurezza degli Israeliani e degli Ebrei dovunque si trovino.
Perciò, a meno che non siamo governati da un gruppo di clown –e non lo siamo– dobbiamo cercare nell’arena pubblica e politica la spiegazione del riapparire di questo progetto di legge. Il suo reale intento è quello di seminare paura.
Camus afferma che “la pena capitale è per il corpo politico ciò che il cancro è per il corpo dell’individuo”. Più precisamente, la pena capitale mina la società civile da un lato, mentre dall’altro rafforza il potere e l’autorità dello Stato. Camus così conclude: “La nostra società deve ora difendersi non tanto dall’individuo, quanto dallo Stato”
Questo è senza dubbio il nodo cruciale della questione. Il Ministro dell’Istruzione Naftali Bennett ha spiegato questo mese che la proposta di legge avanzata è “vuota” ed è un “piano a spese dei familiari di chi è rimasto vittima del terrorismo.” Secondo Bennet, il Ministro della Difesa Liebermann avrebbe dovuto istruire i procuratori dell’esercito a rendere ancora più permissiva la legge militare, che già permette l’esecuzione dei terroristi. Bennet era a favore della presente proposta legislativa, ma ha osservato che si tratta di un altro caso di “legge CHCH”: can’t help, can’t hurt, cioè una di quelle leggi che non aiutano e non danneggiano nessuno, quindi leggi che “non hanno alcun significato”.
È vero il contrario. Una legge che impone la pena capitale è molto significativa, e non solo perché getta una macchia sulla società che l’adotta. Il dibattito morale su quest’argomento è andato avanti per secoli e in maniera più intensa dai tempi di Victor Hugo e, dopo di lui, di Arthur Koestler. Sono stati espressi molti saggi commenti sulla questione: che l’imposizione della pena di morte significa che la società ha deciso che il criminale giudicato colpevole non ha più la prospettiva di essere riabilitato; che la separazione definitiva di un individuo dalla società, basata sull’assunto che ciò che ha commesso è un atto di malvagità assoluta, significa che la società è assolutamente buona; che l’irreversibilità della sentenza equivale ad una fede assoluta nelle capacità dei tribunali di arrivare alla piena verità.
Se Bennet ha ragione quando afferma che –con suo disappunto– nessun terrorista sarà giustiziato, allora il dibattito dev’essere interpretato in un’altra prospettiva: non in termini di moralità, ma restando nell’arena socio-politica.
Se pensiamo che la pena di morte per i terroristi non dissuaderà nessuno e non aumenterà la sicurezza né in Israele né all’estero, allora non resta altro che guardare il provvedimento come parte dell’agenda politica dell’attuale governo. Quando Yeshayahu Leibowitz asserì, decenni fa, che l’occupazione militare corrompe, stava mettendo in guardia contro il pericolo di una bestializzazione e perdita d’umanità. Seppe prevedere puntualmente i futuri sviluppi nei territori occupati: in particolare, la creazione di un meccanismo di governo in base al quale gli Ebrei dominano sui Palestinesi. Basta ascoltare i soldati che sono stati in servizio per capire che, in pratica, Israele sta portando avanti in Cisgiordania un lavoro di sorveglianza e controllo (sotto il nome di quelle funzioni dal suono così neutro come “prevenzione” e “dimostrazione di presenza”), e che gli strumenti principali per mantenere il controllo sono disseminare paura ed ansia nel cuore di milioni di Palestinesi.
Allo stesso tempo, poiché ogni società che domina un altro popolo non può essere essa stessa veramente libera, dobbiamo capire l’effetto che, a lungo andare, l’oppressione fa sull’oppressore: l’instaurazione di uno Stato di polizia, la limitazione della libertà d’espressione e la creazione di un regime culturale devastante.
Per anni, le preoccupazioni dei governi di destra si sono ridotte ad un tema centrale: mantenere e preservare la struttura dominante dell’occupazione, anche se le motivazioni e il linguaggio erano retorici o messianici. Per preservare la struttura esistente e l’equilibrio delle forze, è necessario esercitare quotidianamente autorità e potere, sia sui Palestinesi che sugli Ebrei.
Il metodo principale attraverso il quale si perpetua la situazione è stabilire un regime violento, che conduca a un sentimento di vendetta da ambo le parti. Poiché le forze di sicurezza hanno probabilmente ragione quando affermano che nemmeno un attacco terrorista sarà evitato dall’introduzione della pena capitale e che, come risultato, saranno gli Ebrei all’estero ad essere rapiti, non possiamo far a meno di concludere che quelli che soffriranno direttamente a causa di questa legge saranno proprio gli Ebrei, siano essi in Israele o nella Diaspora. Le madri ebree devono sapere che i loro figli, mentre stanno viaggiando con lo zaino in spalla in estremo oriente o divertendosi sulle coste delle isole greche, saranno il bersaglio di possibili rapimenti. Naturalmente, ogni Arabo o persona di colore sarà additata come potenziale rapitore; dopotutto, dobbiamo fare in modo che il bilancio dei servizi di sicurezza continui a crescere.
Quando la paura dilaga, la voglia di vendetta si diffonde e il pubblico dà mano libera ai suoi leader perché usino ancor più forza nel paese, il che si traduce in un aumento dell’intervento governativo nella vita civile.
La pena di morte per i terroristi è un’estensione di quella politica del pugno di ferro che per decenni ha avuto la funzione di garantire che Israele rimanesse una società che vive grazie alla spada. Questa politica, che è stata diretta negli ultimi decenni contro gruppi specifici sia in Israele che nei Territori occupati, è diventata un metodo di governo: preservare, per mezzo della segregazione, la struttura politica e sociale esistente che è mantenuta con la forza e gode del sostegno di un pubblico cui è stato insegnato dai suoi stessi leader ad avere paura. La cosa più preoccupante, non è solo che questa politica abbia degli ardenti sostenitori all’interno della Knesset [il Parlamento israeliano], ma che il pubblico israeliano non capisca che, in questo caso, sarà anch’esso una vittima della legge.
La pratica delle esecuzioni senza processo che si è verificata durante “l’intifada dei coltelli”, o la critica mossa alle autorità perché l’adolescente palestinese Ahed Tamimi è stata “solo” detenuta e non messa “in una cella buia” (come raccomandato dal giornalista Ben Caspit) sono ulteriori testimonianze di una società che ha accettato un processo di disumanizzazione.
Accantonata la motivazione della “deterrenza”, si vede che la legge proposta non è politica “esterna”, ma politica “interna”, con lo scopo di agire come una tenaglia: educare i residenti di Sion alla necessità di preservare il vecchio sistema e stringere la morsa dello Stato e dei suoi meccanismi sulla vita dei cittadini.
Adam Raz è uno storico. Il suo ultimo libro è “Herzl: The Conflicts of Zionism’s Founder with Supporters and Opponents,” scritto insieme a Yigal Wagner.
https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-death-penalty-for-terrorists-will-put-jews-around-the-world-at-risk-1.5746535
Traduzione di Chiara Ascari