Il primo partito di governo israeliano, il Mapai [Partito dei Lavoratori della Terra d’Israele], era diviso al suo interno riguardo allo status degli Arabi che rimasero nel paese dopo la Guerra d’Indipendenza; circa 70 anni più tardi, la “Questione araba” è ancora senza una risposta.
di Adam Raz
Haaretz, 13 gennaio 2018.
“La Questione araba in Israele” era l’espressione usata dai vertici del Mapai, il partito di governo –e precursore del Labor Party– nel giovane Stato di Israele, per sintetizzare il complesso problema sorto dopo la Guerra d’Indipendenza del 1948/49. Dopo i combattimenti e l’armistizio che concluse la guerra, furono circa 156.000 gli Arabi che rimasero all’interno del territorio israeliano (su un totale stimato di 700.000 che vi risiedevano prima della guerra), rappresentando il 14% della popolazione dello Stato nascente. Così, non fu del tutto ingiustificato che il Ministro degli Esteri, Moshe Sharett, dichiarasse, il 18 giugno 1950, nel corso di in una riunione, dei parlamentari del Mapai e della dirigenza del partito: “questo è uno dei problemi fondamentali della nostra politica e del futuro del nostro paese”. Egli aggiunse che la questione “avrebbe determinato la direzione della moralità della nazione” perché “la nostra intera statura morale dipende da questa prova: se saremo o no in grado di superarla.”
Quasi 70 anni dopo, la “questione araba in Israele” continua a rappresentare un rompicapo per i politici ogni volta che essi si trovano ad affrontare il problema dello status dei cittadini palestinesi in Israele (o, come spesso vengono chiamati, impropriamente, gli “Arabi israeliani”).
I verbali delle riunioni del Mapai, conservati nell’archivio del Labor Party a Beit Berl, fuori da Kfar Sava, testimoniano il profondo conflitto all’interno del partito fra due approcci contrastanti in merito agli Arabi in Israele. Il primo ministro David Ben-Gurion e i suoi collaboratori –Moshe Dayan (capo di stato maggiore dell’Esercito Israeliano 1953-1958) e Shimon Peres, all’epoca un alto funzionario del Ministero della Difesa– incoraggiavano una politica di segregazione e caldeggiavano l’uso delle maniere forti contro ciò che sostenevano rappresentare una minaccia pubblica alla sicurezza nazionale; mentre Sharett e altri leader del Mapai –tra cui, Pinhas Lavon, Zalman Aran, David Hacohen ed altri– promuovevano una politica di integrazione.
Il disaccordo tra Ben – Gurion e Sharett rifletteva i rispettivi approcci sostenuti dai due riguardo al mondo arabo in generale. Sharett criticava la politica di Ben Gurion, il quale, egli diceva, sosteneva che “l’unica lingua che gli Arabi sono in grado di capire è la forza,” mentre Sharett raccomandava un approccio che privilegiasse il “tema della pace”. Yitzhak Ben-Zvi, allora membro della Knesset, e successivamente secondo presidente di Israele (1952-1963), riassunse in maniera concisa le alternative in una riunione dei parlamentari del Mapai diverse settimane più tardi, il 9 luglio 1950: “Il problema è l’atteggiamento che lo Stato assume nei confronti delle minoranze. Vogliamo che rimangano nel paese, che siano integrate o che escano dal paese? Abbiamo dichiarato l’uguaglianza dei cittadini indipendentemente dalle differenze razziali. Questa dichiarazione si riferisce forse a un giorno nel quale non ci saranno Arabi nel paese? Se è così, è una frode.”
L’opzione “trasferimento”
I dibattiti all’interno del partito procedettero abbastanza liberamente, anche se i relatori espressero spesso preoccupazioni per fughe di notizie che avrebbero potuto portare a pressioni internazionali su Israele affinché migliorasse le condizioni dei suoi cittadini arabi. In effetti, il futuro delle relazioni tra i popoli che abitavano il paese richiedeva importanti decisioni politiche. Tra gli argomenti in questione: il diritto al voto, la legge sulla Proprietà degli Assenti, le caratteristiche del sistema di istruzione arabo, la partecipazione dei lavoratori arabi alla confederazione sindacale Histadrut, affiliata al Mapai, e altro ancora.
Una proposta che emerse di frequente nel corso dei dibattiti fu quella di un “trasferimento” –l’espulsione degli Arabi che continuavano a risiedere in Israele– un termine che alcuni trovarono stridente già allora. Nella riunione del giugno 1950, Sharett contestò l’accusa, espressa da Ben-Gurion e dai suoi sostenitori, che gli Arabi in Israele fossero una “quinta colonna”. Si trattava di un’ipotesi semplicistica, disse Sharett, “che necessita di essere esaminata.” Dal suo punto di vista, il destino dei rapporti tra i due popoli dipendeva in modo schiacciante dagli Ebrei. “Continueremo a soffiare sul fuoco?” chiese Sharett, “o proveremo a spegnerlo?” Sebbene non fosse ancora obbligatoria l’istruzione superiore (né lo stato era tenuto a garantirne una), un gran numero di giovani Ebrei nel paese frequentava la scuola superiore, e Sharett pensava che lo Stato avrebbe dovuto istituire scuole superiori anche per gli Arabi. “Israele deve garantire loro un minimo livello culturale”, aggiunse.
Per ragioni politiche, i segregazionisti tendevano a ignorare la differenza tra gli Arabi residenti in Israele e quelli che erano stati lasciati sull’altro lato del confine dopo la guerra, molti dei quali fecero dei tentativi per “infiltrarsi” e tornare nelle loro case. Sharett era dell’opinione opposta: “Occorre fare una distinzione tra un’azione vigorosa contro l’infiltrazione araba” e “la discriminazione contro gli Arabi all’interno del paese”.
Figure eminenti come Sharett e Lavon, che fu Ministro della Difesa nel 1954-55, consideravano positivamente un ulteriore esodo degli Arabi dal paese, ma solo “se avveniva con metodi pacifici”. Sharett si oppose con veemenza alla posizione assunta da Dayan, che non solo desiderava creare una situazione in cui ci fossero meno Arabi in Israele, ma cercava di ottenere questo risultato attraverso l’espulsione attiva. Nell’ottica di Sharett, “Noi non dobbiamo cercare di farlo attraverso una politica di persecuzione e discriminazione”. Sharett parlò di “forme di crudeltà chiaramente inutili, che equivalgono a una profanazione indescrivibile del nome di Dio”.
Dayan, sebbene all’epoca stesse prestando servizio nell’esercito –come capo del Comando meridionale– partecipò agli incontri politici del Mapai e concorse a stabilire le politiche pubbliche. Era uno dei leader della posizione aggressiva contro gli Arabi del paese ed era contrario alla proposta che essi dovessero prestare servizio nell’esercito (un’idea che era emersa ma era stata accantonata). Si opponeva al rilascio di “certificati di cittadinanza permanenti” agli Arabi, era contrario a risarcire coloro che erano stati espropriati della loro terra, e di fatto si opponeva ad ogni azione costruttiva che potesse contribuire a creare dei ponti tra i popoli. “Diciamo che li aiutiamo a vivere nella situazione in cui si trovano oggi e nient’altro”, era la sua proposta.
L’approccio di Dayan rimase costante nel corso degli anni, e in conflitto con la visione di Sharett e della corrente che egli rappresentava all’interno del Mapai. Parlando nella stessa riunione del giugno del 1950, Dayan affermò: “Voglio dire che, a mio parere, la politica di questo partito dovrebbe essere orientata a vedere questa platea, di 170.000 Arabi, come qualcosa il cui destino non è stato ancora determinato. Spero che negli anni a venire possa esserci un’altra possibilità per attuare il trasferimento di questi Arabi dalla Terra di Israele, e finché una possibilità di questo tipo è realizzabile, non dovremmo fare nulla che entri in contrasto con questa possibilità”.
Dayan si oppose anche alle proposte di Sharett per migliorare il livello di istruzione degli Arabi del paese. “Non è nel nostro interesse farlo”, dichiarò. “Questa non è l’unica questione sulla quale non è ancora arrivato il momento di una soluzione finale.”
Zalman Aran, futuro Ministro dell’Istruzione, si oppose al regime militare che era stato imposto agli Arabi di Israele al tempo dell’indipendenza e che rimase in vigore fino al 1966. In base alle condizioni imposte, gli Arabi dovevano essere dotati di permessi sia per lavorare che per viaggiare fuori dalle loro città d’origine, alle quali era anche imposto il coprifuoco durante la notte. “Finché li teniamo in un ghetto”, dichiarò Aran, “nessuna azione costruttiva avrà effetto”. Anche Lavon sollecitò lo smantellamento del governo militare. Nel 1955, pochi mesi dopo aver rassegnato le dimissioni da Ministro della Difesa, Lavon attaccò violentemente l’idea stessa di un governo militare nel corso di una riunione a Beit Berl. “Lo Stato di Israele non può risolvere la questione degli Arabi che si trovano nel paese con mezzi nazisti”, affermò; e aggiunse: “Il nazismo è nazismo, anche se portato avanti dagli Ebrei”.
Ancor prima, Lavon aveva criticato aspramente la linea assunta da Dayan e da altri sostenitori del “trasferimento”. Durante una riunione di un altro forum della leadership del Mapai, il 21 maggio 1949, disse seccamente: “È noto che noi socialisti siamo i migliori del mondo anche quando derubiamo gli Arabi”. Alcuni mesi dopo, il 1° gennaio 1950, in un altro incontro, avvertì: “È impossibile lavorare con gli Arabi se la politica è quella del trasferimento. È impossibile lavorare tra di loro se la politica è quella di opprimere gli Arabi, perché questo impedisce ogni azione concreta. Quello che stiamo facendo è una soppressione drammatica e brutale degli Arabi in Israele… L’espulsione non è scritta nel destino. Se non c’è una guerra, loro non andranno via. Duecentomila Arabi saranno cittadini con diritto di voto… In quanto partito di governo, dobbiamo predisporre una politica costruttiva all’interno del mondo arabo”
Già nel dicembre del 1948, durante i dibattiti sulla concessione del diritto al voto per l’Assemblea Costituente –la prima istituzione parlamentare israeliana, che fu eletta nel gennaio 1949, e un mese dopo divenne la “Knesset israeliana”– Ben Gurion accettò di concedere il diritto di voto agli Arabi che erano nel paese al momento del censimento, realizzato un mese prima. Circa 37.000 Arabi furono registrati nel corso di quel censimento. La decisione di accordargli formalmente un diritto derivava probabilmente da considerazioni politiche di partito. L’idea era che la maggior parte di loro avrebbe votato per il Mapai.
Questo giudizio fu espresso durante la discussione per la Legge sulla cittadinanza all’inizio del 1951, quando Ben-Gurion espresse l’opinione più drastica. Si rifiutò di garantire il diritto di voto agli Arabi che vivevano nel paese legalmente (come chiedeva Sharett) ma che si trovavano altrove durante il censimento (perché erano scappati, o perché erano stati espulsi come conseguenza della guerra); o a quegli Arabi che risiedevano nel “Triangolo”, (un’area di città e villaggi arabi sulla Pianura di Sharon), che era stato annesso a Israele solo nell’aprile del 1949, in seguito all’armistizio con la Giordania. “Non c’è un paese al mondo che ha due tipi di cittadini nelle elezioni (intendendo votanti e non votanti)?“ chiese retoricamente Ben-Gurion in una riunione dei parlamentari del Mapai il 20 febbraio 1951.
Secondo Sharett, che sottopose una bozza di delibera conflittuale, non sarebbe stato possibile difendere “questa situazione per quanto riguarda noi stessi e gli Arabi in questione e per quanto riguarda gli Arabi d’Israele nel loro insieme, e anche in termini di opinione pubblica mondiale. Di conseguenza, suggerisco di concedere loro il diritto di voto… Discriminiamo solo gli Arabi che sono entrati in Israele senza permesso. “
Sharett sosteneva che Ben-Gurion non aveva preso in considerazione le radici del problema. “Cose terribili” si stavano facendo nel paese contro gli Arabi, avvertiva. “Finché un Ebreo non verrà impiccato per avere ucciso un Arabo senza motivo, a sangue freddo, gli Ebrei non capiranno che gli Arabi non sono cani ma esseri umani.” L’opinione di Sharett prevalse, e gli Arabi del Triangolo votarono alle elezioni.
Nella riunione del 9 luglio 1950, il parlamentare David Hacohen contestò l’argomento secondo cui la discriminazione contro gli Arabi e l’istituzione del governo militare erano essenziali per la sicurezza del paese. Attaccando violentemente la legge sulle proprietà degli assenti –una serie di misure che permettevano allo stato di espropriare la terra e le case abbandonate dai Palestinesi sfollati durante la guerra, anche se successivamente erano tornati nel paese– disse: “Non so se fosse chiaro a tutti noi, quando votammo, quanto era grave quella legge.” Egli sottolineò che, “secondo la legge, quando un Arabo muore, la sua proprietà non va a sua moglie ma al Custode delle proprietà degli assenti. È inconcepibile che noi dichiariamo l’uguaglianza di tutti i cittadini, e allo stesso tempo abbiamo una legge del genere nei nostri codici.”
A quanto pare, nessuno sollevò obiezioni al confronto che Hacohen fece poi: “Queste leggi che stiamo producendo riguardo agli Arabi che risiedono in Israele non possono neppure essere paragonate alle leggi promulgate contro gli Ebrei nel Medio Evo, quando erano privati di tutti i diritti. Dopo tutto, c’è un totale contrasto fra le nostre dichiarazioni e le nostre azioni.”
Un approccio simile fu sostenuto durante lo stesso incontro da Zalman Aran, che vedeva la gestione degli Arabi da parte del Mapai come una “prassi della disperazione” che doveva essere rifiutata invece di cercar delle scuse per giustificarla.
“Moralmente, se siamo un movimento che non mente, e noi non vogliamo mentire, qui stiamo vivendo in una totale bugia”, disse. “Tutti i libri e gli articoli che sono stati scritti, e i discorsi fatti all’interno e ad uso esterno, sono privi di fondamento quando si tratta di realizzarli. Non mi riferisco all’atteggiamento dei singoli individui nel paese nei confronti degli Arabi. Sto parlando di una linea politica. Rifiuto questa linea, che è emersa all’interno della società e che ha mille e una manifestazioni. Non accetto tutte le scuse che sono state accampate.”
Dissentendo dall’approccio di Dayan, Aran paragonava la situazione degli Arabi in Israele con la situazione degli Ebrei in altri paesi. “Sulla base di ciò che stiamo facendo qui agli Arabi, non abbiamo il diritto di chiedere un atteggiamento diverso nei confronti delle minoranze ebraiche negli altri paesi. Proverei disdegno nei confronti degli Arabi che volessero creare legami con noi sulla base di questa politica. Noi mentiremmo all’Internazionale socialista, stiamo mentendo a noi stessi e stiamo mentendo alle nazioni del mondo.”
Dayan –ancora un ufficiale in uniforme, occorre ricordare– obiettò alle opinioni espresse da Hacohen e Aran, e disse che non vedeva alcuna ragione per fare una distinzione fra il popolo arabo in Israele e gli Arabi nei paesi nemici. “Sono molto più pessimista rispetto alla possibilità di vedere questi Arabi come leali”, replicò.
Democrazia imperfetta
Nel corso dello stesso periodo di oltre un decennio durante il quale Ben-Gurion fu premier, nel Mapai infuriò una battaglia politica se mantenere o meno il governo militare. Ben-Gurion difendeva ostinatamente il governo militare, che vedeva come un deterrente contro gli Arabi in Israele. Durante un incontro della Segreteria del Mapai il primo gennaio 1962, egli imprecò contro “l’ingenuità dominante” di coloro che, come Sharett and Aran, non capiscono gli Arabi, e mise in guardia sulle possibili conseguenze: “Ci sono persone che vivono con l’illusione che siamo come tutte le altre nazioni, che gli Arabi sono fedeli a Israele e che ciò che è successo in Algeria non può accadere qui.”
E aggiunse: ”Li vediamo come asini. A loro non importa. Lo accettano con amore…” Allentare le briglie agli Arabi sarebbe un grande pericolo, e aggiunse: “Voi e quella gente” –quelli che vorrebbero l’abolizione del governo militare o un suo minor rigore– “sarete responsabili per la perdizione di Israele.” Un decennio prima, il 15 gennaio 1951, Shmuel Dayan, il padre di Moshe Dayan, leader del Mapai e a lungo membro della Knesset, aveva sostenuto opinioni simili in un incontro dei parlamentari del Mapai. Gli Arabi, aveva detto, “potrebbero essere buoni cittadini, ma è chiaro che al momento rappresentano un ostacolo, dando luogo a un terribile pericolo.”
Un decennio più tardi Aran espresse un giudizio opposto sulla situazione. Parlando ad un incontro della segreteria del Mapai nel gennaio del 1962, sostenne che era il governo militare a “esacerbare la situazione”. Rifiutò anche il paragone con l’Algeria. Al contrario, egli pensava, l’esistenza del governo militare non avrebbe ritardato una rivolta araba ma anzi l’avrebbe spronata. Ripeté la sua critica dei primi anni ’50 a un decennio di distanza. Era contrario ad una situazione in cui gli Arabi sono cittadini “di seconda classe” che non godono degli stessi diritti degli Ebrei, ed era critico sia nei confronti di se stesso che dei colleghi: “Abbiamo accettato questa cosa, ci abbiamo fatto l’abitudine… L’abbiamo presa tranquillamente… Ma è difficile da mandar giù… Nessun Arabo nello stato di Israele può, deve o riesce ad accettare che lui è un cittadino di seconda classe in questo paese –qualunque cosa gli si dia dal punto di vista economico o dell’istruzione. Credo che il mondo non conosca la reale situazione. Se la conoscesse, non ci lascerebbe andare avanti in questo modo”.
Già allora il Ministro delle finanze Levi Eshkol, sotto il cui mandato come Primo Ministro venne abolito il governo militare, previde le catastrofiche conseguenze: “Non mi sorprenderebbe se improvvisamente venisse fuori un nuovo atteggiamento, cioè che la gente non volesse affittare una stalla o una stanza ad un Arabo da qualche parte, cosa che sarebbe la logica conseguenza di questa situazione. Riusciremo a tollerare una cosa simile?”
Una persona che non fu colpita da tali argomenti fu il Vice Ministro della Difesa Shimon Peres. In un incontro della Segreteria del Mapai il 5 gennaio 1962, sostenne che in pratica il governo militare “non è una forzatura sugli Arabi”. Il governo militare, egli aggiunse, era stato di fatto creato dagli Arabi, “che mettono in pericolo Israele, e fintanto che quel pericolo esiste dobbiamo affrontarlo consapevolmente”. Al contrario, Isser Harel, capo del servizio di sicurezza Shin Bet (1948-1952) e del Mossad (1952-1963), affermò nel 1966, poco dopo essersi dimesso da consulente di Eshkol per l’intelligence e la sicurezza, che “il governo militare non è necessario per la sicurezza, e perciò non c’è alcun bisogno della sua esistenza. L’esercito non dovrebbe occuparsi dei cittadini arabi. Questa è una pecca per la nostra democrazia” (citato dal quotidiano Maariv, 10 luglio 1966). Questa era stata l’opinione dei falchi della sicurezza, compreso Yigal Allon, fin dall’inizio degli anni ’50.
Nel corso degli anni, si disse che il governo militare era servito come strumento nelle mani del Mapai per rafforzare il suo dominio, sia assegnando posti di lavoro e distribuendo sussidi, sia intervenendo nelle campagne elettorali con la creazione di fazioni arabe all’interno dei partiti esistenti, ciò che era conveniente per il partito al governo (e d’altro lato eliminava gli oppositori). Non è questa la sede per discutere quell’affermazione –per la quale esistono prove– ma vale la pena notare uno dei motivi della politica della mano pesante, che ha mantenuto la separazione fra Arabi ed Ebrei, come ammesso candidamente da Ben-Gurion durante l’incontro della Segreteria del Mapai il 5 gennaio 1962: “Nel momento in cui la differenza fra Arabi ed Ebrei venisse eliminata, e si trovassero tutti e due sullo stesso piano, a meno che in quel momento non esistesse un mondo senza guerre, non ho l’ombra di un dubbio che Israele verrebbe sradicato e non rimarrebbe traccia del popolo ebraico.”
Collaboratore di Haaretz
https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-1.834355
Traduzione di Daniela Marrapese e Rossella Rossetto