di Jonathan Cook
Il governo Netanyahu pronto a reclutare milioni di non Ebrei “ebraici” perché siano d’aiuto nella battaglia dei numeri contro i Palestinesi.
The National, 31 agosto 2017
Il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rivolto una pesante reprimenda ai perenni ottimisti, le cui speranze di una pace imminente si erano ridestate in seguito alla visita in Medio Oriente di Jared Kushner, consigliere e genero di Donald Trump. Lunedì, durante un evento in Cisgiordania per celebrare i cinquant’anni dell’occupazione israeliana, Netanyahu ha di fatto ammesso che gli sforzi statunitensi per far rivivere il processo di pace si riveleranno l’ennesima farsa.
Non ci sarà alcuno smantellamento degli insediamenti né l’espulsione dei loro 600.000 abitanti, condizioni minime per uno stato palestinese appena sostenibile. “Siamo qui per restare per sempre”, Netanyahu ha rassicurato la platea di coloni, “rafforzeremo le nostre radici, costruiremo, diventeremo più forti e ci stabiliremo”.
Se dunque la soluzione dei due stati è defunta, in quale direzione va il conflitto israelo – palestinese? La risposta è: torna alle origini. Questo comporterà un’altra disperata battaglia dei numeri contro i Palestinesi, con Israele pronta a creare nuove categorie di “Ebrei” in modo da poterli buttare nella mischia.
La demografia è sempre stata al centro della politica israeliana. Durante la guerra del 1948, che ha fondato uno stato ebraico sulle rovine della madrepatria palestinese, 750.000 Palestinesi furono espulsi nell’ambito di una campagna che oggi verrebbe definita pulizia etnica. Alla fine, un’ampia maggioranza di Palestinesi indigeni era stata ridotta a meno di un quinto della popolazione del nuovo stato. David Ben Gurion, il padre della patria, restò impassibile. Egli contava di sommergere questo gruppo superstite con Ebrei provenienti dall’Europa e dal mondo arabo.
Ma il progetto naufragò a causa di due errori di calcolo.
In primo luogo, Ben Gurion non aveva preso in considerazione l’assai maggiore tasso di natalità della minoranza palestinese. Nonostante le ondate di immigrati ebrei, i Palestinesi sono rimasti saldi al 20% della cittadinanza di Israele. Israele ha combattuto una battaglia di retroguardia nei loro confronti sin da allora. Alcuni studi evidenziano che l’unico programma israeliano di azioni positive per i cittadini palestinesi riguarda la pianificazione familiare.
La strategia demografica israeliana è stata esibita la settimana scorsa. Un’inchiesta del quotidiano Haaretz ha rilevato che negli ultimi anni Israele ha privato della cittadinanza potenzialmente migliaia di Beduini, la popolazione del paese con il maggior tasso di crescita. Israele sostiene che sarebbero stati commessi “errori” burocratici nella registrazione dei loro genitori o nonni dopo la fondazione dello stato.
Al contempo, un altro Rubicone è stato varcato questo mese, quando un Tribunale ha acconsentito a revocare la cittadinanza ad un Palestinese condannato in relazione ad un attacco mortale a dei soldati. Le associazioni per i diritti umani temono che, rendendolo apolide, il diritto israeliano abbia stabilito un precedente per condizionare la cittadinanza alla “fedeltà”.
Questa settimana, la ministra della giustizia Ayelet Shaked ha sottolineato proprio questo punto, quando ha ammonito i giudici a dare priorità alla demografia e alla ebraicità dello stato a scapito dei diritti umani.
Il secondo errore di calcolo avvenne nel 1967. Conquistando gli ultimi frammenti della Palestina storica ma non riuscendo ad espellere la maggior parte degli abitanti, Israele prese in carico molte centinaia di migliaia di ulteriori Palestinesi, inclusi i rifugiati della guerra precedente.
Il “demone demografico”, come viene spesso chiamato in Israele, per molti decenni fu tenuto a bada solo con affermazioni fantasiose sul fatto che l’occupazione sarebbe presto terminata. Nel 2005, Israele acquisì un po’ più di spazio vitale “disimpegnandosi” dalla minuscola enclave di Gaza e dal suo milione e mezzo di abitanti.
Adesso, nell’uccidere le speranze di statualità palestinese, Netanyahu ha reso pubblica la sua intenzione di realizzare la soluzione di un solo stato di coloni. Naftali Bennet, il principale rivale di Netanyahu nel governo, non vede l’ora di ignorare l’opinione internazionale e cominciare ad annettere ampie parti della Cisgiordania.
Tuttavia, c’è un problema. Almeno la metà della popolazione della Grande Israele di Netanyahu è palestinese. E con i tassi i natalità attuali, presto gli Ebrei diverranno innegabilmente una minoranza: una minoranza che domina una maggioranza palestinese.
Questo è il contesto che serve a comprendere il rapporto di una commissione governativa – trapelato lo scorso fine settimana – che propone una rivoluzionaria riconfigurazione di chi conta come Ebreo e pertanto ha diritto di vivere in Israele (e nei territori occupati).
La legge israeliana sul ritorno del 1950 è già una rete a maglie larghe, rivedendo la tradizionale restrizione rabbinica per cui un Ebreo deve essere nato da madre ebrea. Piuttosto, la legge consente a chiunque abbia un nonno ebreo la cittadinanza immediata. Questo ha funzionato bene finché gli Ebrei fuggivano dalla persecuzione o dalle ristrettezze economiche. Ma dopo l’arrivo di un milione di immigrati a seguito della caduta dell’Unione Sovietica nei primi anni Novanta, il pozzo dei nuovi Ebrei si è prosciugato.
Gli Stati Uniti, anche nell’epoca di Trump, si sono rivelati la maggiore attrattiva. Il mese scorso il quotidiano Jerusalem Post scriveva che fino a un milione di Israeliani potrebbe vivere lì. Ancor peggio per Netanyahu, pare che almeno alcuni di loro siano inclusi nei numeri israeliani per rafforzare le pretese demografiche di Israele nei confronti dei Palestinesi.
Le tendenze recenti mostrano che l’esodo degli Israeliani verso gli Stati Uniti è doppio rispetto all’arrivo di Ebrei americani in Israele. Con 150 start-up israeliane conteggiate nella sola Silicon Valley, questo trend non è destinato a finire presto.
Alle prese con una pressante carenza di Ebrei per sconfiggere i Palestinesi sul piano demografico, il governo Netanyahu sta considerando una soluzione disperata. Il rapporto trapelato suggerisce di aprire le porte a una nuova categoria di non Ebrei “ebraici”. Secondo Haaretz, potenzialmente milioni di persone potrebbero essere in possesso dei requisiti. Il nuovo status si applicherebbe ai “cripto Ebrei”, i cui avi si convertirono dal Giudaismo ad altre religioni; alle comunità “ebraiche emergenti”, che hanno adottato pratiche ebraiche; e a coloro che affermano di discendere dalle “tribù perdute” ebree.
Sebbene inizialmente verrà loro offerta soltanto la possibilità di soggiorni prolungati in Israele, l’implicazione è che questo servirà come preludio per ampliare i loro diritti fino ad includere in futuro la cittadinanza. Il vantaggio per Israele è che la maggior parte di questi non Ebrei “ebraici” vive attualmente in zone del mondo remote, povere o piagate dalla guerra, e trarrebbe vantaggio da una nuova vita in Israele – o nei territori occupati.
Questa è la grande attrattiva per gli irriducibili della soluzione di un solo stato come Netanyahu e Bennet. Hanno bisogno di aspiranti soldati sul campo nella loro battaglia per rubare la terra palestinese, calpestando i confini internazionalmente riconosciuti e le speranze di pace.
Riusciranno a farla franca? Potrebbero pensare di sì, specialmente in un periodo in cui il governo americano sostiene che sarebbe “di parte” se si impegnasse a sostenere la soluzione dei due stati. Trump ha dichiarato che le parti devono trovare da sé la soluzione. Netanyahu potrebbe presto avere i numeri per farlo.
Israel gets creative to counter its demographic disadvantage
Traduzione di Dora Rizzardo