di Fadwa Barghouti
Newsweek 25 maggio 2017
Fadwa Barghouti è la moglie del leader e parlamentare palestinese Marwan Barghouti. Condannato perché implicato in cinque omicidi durante la seconda Intifada palestinese, sta scontando cinque ergastoli in un carcere israeliano.
Quaranta giorni fa, mio marito Marwan Barghouti ha iniziato uno sciopero della fame nella sua cella in un carcere israeliano, insieme a più di altri mille prigionieri palestinesi. Il motivo per cui stanno mettendo a rischio le loro vite è molto semplice: vogliono essere trattati con umanità e dignità. Se si tiene conto del fatto che alcuni di questi prigionieri rischiano una morte imminente, viene da chiedersi perché il mondo non sia intervenuto.
Marwan ed io siamo sposati da 32 anni e in tutto questo periodo lui ha passato più tempo in prigione che al mio fianco. Ha combattuto contro l’occupazione israeliana della Palestina per più di 40 anni, e di questi ne ha passati 22 in prigione e 7 in esilio dopo essere stato deportato da Israele. Per molti mesi è stato un ricercato ed è scampato a due tentativi di assassinio.
Lui non era presente quando è nato ognuno dei nostri quattro figli, né quando hanno avuto il diploma di scuola superiore o di università, né quando tre di loro si sono sposati, né quando nostra figlia ha avuto due bei bambini, rendendolo nonno. La sua vita è stata dedicata alla causa della libertà. In questi 32 anni di amore e di lotta, ci sono stati molti giorni difficili -davvero troppi- ma nessuno è stato così duro come gli ultimi quaranta.
Le richieste fatte da mio marito e dagli altri mille e più che stanno digiunando riguardano diritti fondamentali. Chiedono la fine delle punizioni arbitrarie, come essere messi in isolamento carcerario, qualche volta anche per anni. Chiedono la fine di torture e di trattamenti disumani e chiedono condizioni migliori quando vengono trasferiti da una prigione all’altra. Chiedono la fine della detenzione amministrativa, una pratica usata da Israele per carcerare a tempo indefinito migliaia di Palestinesi senza accuse e senza processo. E quelli che ottengono un processo, lo subiscono per lo più nei tribunali militari, con una percentuale di condanne tra il 90 e il 99,7%.
Quanto a Marwan, il suo processo per terrorismo è avvenuto in un tribunale civile di Tel Aviv, un processo che osservatori internazionali hanno definito “politico” e “ingiusto,” screditando ancora di più il sistema giudiziario israeliano. Nessun paese ha riconosciuto la sentenza; anzi circa 130 paesi, oltre a parlamenti internazionali ed europei, hanno chiesto la liberazione di Marwan. Contraddicendo clamorosamente le etichette spregiative che Israele cerca di applicargli, Marwan è stato candidato per sette volte al Premio Nobel per la Pace, anche ad opera di premi Nobel come l’arcivescovo Desmond Tutu e Adolfo Pérez Esquivel.
Dal 1967, Israele ha arrestato circa 800.000 Palestinesi, pari al 40% della nostra popolazione maschile dei territori occupati. Agli occhi del governo israeliano, del suo esercito e della sua giustizia, i Palestinesi sono tutti colpevoli. Rimproverano noi per la loro ininterrotta occupazione militare e coloniale. Vogliono che i colpevoli siamo noi, così che loro possano fingersi innocenti.
I prigionieri che fanno lo sciopero della fame chiedono che sia rispettato il loro diritto alle visite dei familiari. Israele trasferisce i prigionieri al di fuori del territorio occupato -ciò che è di per sé un crimine di guerra- e usa questa azione illegale per poter imporre varie restrizioni al nostro diritto di far visite. Limitano le visite ai familiari più stretti, ciò che impedisce a molti di noi di vedere i nostri cari, a volte per anni, se non indefinitamente.
I membri meno stretti della famiglia, compresi i nipoti, sono esclusi del tutto dalle visite. I prigionieri chiedono anche accesso a telefoni pubblici per poter parlare con le loro famiglie, per poter almeno sentire le loro voci dal momento che vien loro negato il diritto di avvicinarli fisicamente. Io stessa non ho potuto toccare Marwan da quindici anni e sogno di poterlo abbracciare anche per un secondo, come vorrei specialmente in giorni come questi.
Israele dice di rispettare gli standard internazionali riguardo al modo in cui tratta i nostri prigionieri politici. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa, l’Alto Commissario per i Diritti Umani, esperti delle Nazioni Unite e molti stati del mondo sono di parere totalmente opposto. Per sapere quale sia il “rispetto” di Israele, basta vedere come risponde a questo sciopero della fame.
Da quando è iniziato lo sciopero, Israele ha messo in atto una serie di ritorsioni contro la pacifica protesta dei prigionieri palestinesi. Hanno messo vari prigionieri, tra cui Marwan, in isolamento carcerario e sono ricorsi ad altri trattamenti disumani, tra cui privazioni del sonno, ripetute irruzioni nelle celle, trasferimenti in condizioni penose in altre prigioni, divieto di visita da parte dei familiari e, in molti casi, divieto di visita da parte degli avvocati. Anziché porre fine alle sue violazioni dei diritti dei prigionieri e alle sue offese alla loro dignità, Israele le ha esasperate.
Ha deciso che avrebbe cercato di spezzare con la forza lo sciopero della fame. Importanti esponenti israeliani hanno reclamato l’esecuzione di mio marito, la morte di altri prigionieri e l’adozione da parte di Israele del cosiddetto “metodo di Margaret Thatcher” che portò nel 1981 alla morte di 10 Irlandesi in sciopero della fame. Nel 2011, Israele ha anche approvato una legge che permette l’alimentazione forzata di quelli che fanno lo sciopero della fame, e la legge è stata confermata dalla Corte Suprema israeliana nonostante che l’ONU, associazioni per i diritti umani e organizzazioni mediche di tutto il mondo abbiano dichiarato che l’alimentazione forzata rappresenta una tortura.
I familiari dei prigionieri in sciopero della fame sono stati a malapena capaci di dormire o di mangiare negli ultimi quaranta giorni, vedendo i loro cari, che già soffrono per la carcerazione, sotto feroce attacco da parte delle forze di occupazione. Un giorno dopo l’altro, sentono notizie di aggravamento della salute di dozzine di prigionieri e di timori per la loro vita, e si chiedono se tra questi ci sia un loro figlio, un marito, un fratello. In una tenda della solidarietà, una madre chiede: “Ma allora deve morire perché io possa riabbracciarlo?” E un’altra: “È dunque la morte l’unica loro via per la libertà?”
Ma anche nel caso estremo non c’è niente di garantito, poiché Israele non esita a trattenere per anni le salme delle vittime. Siamo ora a 50 anni dall’occupazione della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e a quasi 70 anni dall’espulsione di massa del nostro popolo, la cosiddetta Nakba: io invito ora il mondo intero a guardare dentro alle prigioni israeliane se vuol trovare le vere radici della nostra lotta: il desiderio di vivere in libertà e dignità invece che in gabbia e sotto umiliazione. Coloro che vogliono fare da pacificatori devono sostenere la libertà dei nostri prigionieri e la libertà del nostro popolo.
Trentadue anni fa, poco prima che ci sposassimo, Marwan mi disse che, finché saremmo stati sotto occupazione, avrebbe dedicato la sua vita alla lotta per la libertà. Ha mantenuto la sua promessa al popolo palestinese e questo è il motivo per cui il popolo crede in lui. Ma mi promise anche che, appena fosse cessata l’occupazione, avremmo goduto di ciò che ognuno desidera e merita: una vita normale.
Trentadue anni dopo, ancora aspetto quella vita normale, mentre Marwan è in isolamento carcerario, digiunando per la libertà e la dignità.
http://www.newsweek.com/fadwa-barghouti-my-husband-starving-palestinian-freedom-and-dignity-615315