Il Segretario di stato Usa ieri ha rivolto un attacco senza precedenti ai coloni e alla destra israeliana. Rabbiosa la reazione del governo Netanyahu e di Donald Trump. Ma è forte anche la delusione verso l’Amministrazione uscente che non ha fatto nulla per cambiare la realtà che oggi denuncia.
Il Manifesto, 29.12.2016
Benyamin Netanyahu ieri aveva provato a confondere le carte ordinando all’amministrazione comunale israeliana di Gerusalemme di sospendere il voto di approvazione di circa 618 nuove case nelle colonie ebraiche edificate nel settore palestinese di Gerusalemme. Una mossa decisa per non aggravare le relazioni con l’Amministrazione Obama prima del discorso di John Kerry sul conflitto in Medio Oriente. Non è servito, troppo veleno è stato sparso negli ultimi giorni in cui Israele, con l’appoggio che sorprende fino ad un certo punto di un giornale israeliano, ha accusato la Casa Bianca di aver messo in piedi un complotto con i palestinesi. Il segretario di stato americano ieri, ritornando sull’astensione decisa dagli Usa sulla risoluzione approvata dall’Onu tra le proteste rabbiose di Israele, ha pronunciato un attacco senza precedenti, netto, alla politica di colonizzazione che il governo Netanyahu porta avanti senza soste dei territori palestinesi occupati nel 1967. Un attacco pesante ai coloni e alla destra religiosa israeliana che non ha avuto lo scopo di difendere i diritti dei palestinesi senza libertà e senza Stato. Piuttosto ha voluto proteggere l’immagine, fondata sul tramontato sionismo di marca laburista, che l’Amministrazione Usa uscente conserva di Israele. Kerry di fatto ha invocato la realizzazione del progetto della corrente del movimento sionista che sollecita la separazione tra ebrei e arabi senza garantire allo stesso tempo sovranità piena e uguaglianza allo Stato palestinese. Ha esaltato la soluzione dei Due Stati, Israele e Palestina, che l’Amministrazione Usa ha visto svanire sotto i suoi occhi senza muovere un passo concreto per invertire la rotta.
«L’agenda dei coloni è quella che sta definendo il futuro di Israele» ha denunciato Kerry, sottolineando che «la coalizione» guidata da Benyamin Netanyahu ha «un’agenda definita dagli elementi più estremisti». Non si può «ignorare la minaccia che gli insediamenti rappresentano per la pace…Se Israele intraprenderà la strada di un soluzione a uno solo Stato, non ci sarà pace», ha insistito. Israele può essere o ebreo o democratico «non può essere tutti e due», ha spiegato Kerry demolendo quanto ripete da anni Netanyahu che reclama il riconoscimento palestinese di Israele come «Stato ebraico e democratico». Il colpo che ha fatto più male è stato quello su Gerusalemme. Kerry ha detto che dovrebbe essere la capitale dei due Stati in un accordo di pace tra Israele e Palestina in cui sia garantito il libero accesso ai luoghi santi. Una bestemmia, anzi molto di più, per il governo Netanyahu e per tutto l’arco politico israeliano, ad eccezione dei partiti arabi. Kerry ha sferrato sciabolate alla destra israeliana negando che la politica di Washington sia cambiata nei confronti dello Stato ebraico. «Respingiamo le critiche di chi dice che con il voto all’Onu abbiamo abbandonato Israele», ha detto sottolineando che nella risoluzione «non c’è nulla di nuovo».
Le parole di Kerry hanno suscitato rabbia ai vertici dell’establishment israeliani – e i commenti ironici dei coloni che sanno di avere lo scettro del comando – ma hanno anche accresciuto la delusione e la frustrazione nei confronti della presidenza Obama del mondo che crede nei diritti dei popoli e nel diritto internazionale. Barack Obama sapeva, era consapevole delle radici del conflitto israelo-palestinese, e non ha agito per ben otto anni, tradendo le promesse che aveva fatto nel 2009 nel suo celebre discorso al Cairo. Il presidente uscente e premio Nobel per la pace avrebbe potuto e dovuto dare la svolta che aveva indicato, invece ha atteso gli ultimi giorni del suo secondo mandato per affermare, attraverso John Kerry, una verità che è davanti agli occhi di tutti da decenni. E lo ha fatto ora mentre l’alleato dei coloni e della destra estrema israeliana, Donald Trump, si prepara tra qualche giorno a prendere il suo posto. A salvare Barack Obama dal fallimento totale in Medio Oriente è solo l’accordo internazionale raggiunto nel 2015 con l’Iran sul nucleare, che rappresenta – con la ripresa delle relazioni con Cuba – l’unico successo della sua Amministrazione in politica estera.
Donald Trump non poteva non farsi sentire in una giornata tanto importante. In un tweet il presidente eletto ha criticato la decisione Usa di astenersi al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. «Non possiamo continuare a permettere che Israele sia trattato con tale disprezzo e mancanza di rispetto totale – ha scritto – Era un grande amico degli Stati Uniti, ma non più. L’inizio della fine è stato l’orribile accordo con l’Iran – riferendosi al nucleare – e ora questo! Israele, resta forte. Il 20 gennaio si avvicina velocemente». Da Israele Netanyahu ha subito espresso gratitudine. «Grazie presidente eletto Trump, grazie per la tua calda amicizia e il tuo netto sostegno a Israele». John Kerry ha replicato che «Starà a lui (Trump) fare quello che crede giusto…sta a Israele e Palestina fare gli sforzi necessari…Speriamo di essere tutti pronti per fare quelle scelte ora». Immediata la reazione di Israele. «Kerry ha fatto un discorso prevenuto verso Israele…Per più di un’ora è stato ossessionato dalla vicenda delle colonie e non ha toccato il problema reale: la resistenza palestinese ad uno Stato ebraico in qualsiasi forma», ha tuonato il portavoce del ministero degli Esteri Emmanuel Nahsoon diffodendo una nota dell’ufficio del primo ministro.
Lo scontro diplomatico è totale ma, come sempre, contano i fatti. È alla conferenza internazionale di Parigi del 15 gennaio, su Israele e palestinesi, che l’Amministrazione Obama ha l’opportunità di lasciare un segno concreto, quindi più importante di questo tardivo (a dir poco) riconoscimento della realtà palestinese.
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