Fieri di essere fuori dal consenso generale, finché l’occupazione non finisce.

Dietro pressione dell’opinione pubblica, l’Università Ben-Gurion ha ritirato un premio dato a Breaking the Silence, un gruppo di soldati israeliani che racconta in pubblico cosa vuol dire fare il militare in un esercito di occupazione. Il gruppo è ‘fuori dal consenso generale,’ ha spiegato il presidente dell’università. Ma se l’occupazione rappresenta il consenso generale, Breaking the Silence dice di essere fiero di starne fuori. Quanto segue è un discorso tenuto dal direttore dell’organizzazione nel corso di una cerimonia alternativa di premiazione.

di Yuli Novak

+972 (quotidiano online), 7 novembre 2016

Il direttore di Breaking the Silence, Yuli Novak (Oren Ziv/Activestills.org)
Il direttore di Breaking the Silence, Yuli Novak (Oren Ziv/Activestills.org)

 

I soldati che hanno rotto il silenzio non lo hanno fatto senza pensarci. L’atto di rompere il silenzio non è fatto per liberarsi la coscienza o per alleviare gli esiti post-traumatici di chi è stato mandato ad applicare un regime militare su dei civili (anche se questo può essere un risultato collaterale).

L’atto di rompere il silenzio non è piacevole. Rompere il silenzio è increscioso, pauroso; ti fa perdere il sonno. Lo scopo di rompere il silenzio è quello di cambiare la situazione politica radicalmente, non in modo cosmetico, ma fondamentale, andando alle radici.

Rompere il silenzio vuol dire prendere una posizione morale e personale contro una situazione che è inaccettabile dall’inizio alla fine, nella sua globalità. Rompere il silenzio vuol dire anche assumersi la responsabilità delle proprie azioni ed esser pronti a pagarne un prezzo personale.

Noi rompiamo il silenzio per protestare contro l’occupazione. Il nostro gesto di rompere il silenzio è un grido per dire che il controllo militare, per decenni, su milioni di Palestinesi è intrinsecamente inaccettabile. Per dire che l’occupazione non è una cosa che può o deve essere normalizzata o “aggiustata”, ma deve solo essere eliminata. Perché, anche se esiste da decenni, non ha il diritto di esistere. E rompere il silenzio vuol dire sfidare una cosa che è diventata parte di noi stessi e parte della nostra identità, ormai da quasi 50 anni.

L’amministrazione dell’Università Ben-Gurion ha detto che la sua decisione di cancellare un premio dato a Breaking he Silence si basava sul fatto che noi siamo un’organizzazione fuori dal consenso politico.

Dal giorno in cui è stata fondata, Breaking the Silence non ha mai fatto parte del consenso nazionale. Al contrario, l’atto di rompere il proprio silenzio è una dichiarazione che si è contro il consenso.

Non c’è dubbio: consenso vuol dire occupazione. I soldati che hanno rotto il silenzio lo hanno fatto proprio come un’azione tesa a porre fine all’occupazione. Loro, insieme a noi, stanno cercando di contestarla, di smontare il suo meccanismo, di bloccarla. Rompono il silenzio per denunciare cosa significa imporre l’occupazione su un altro popolo. E non lo fanno in teoria, come fosse una ricerca storica, non lo fanno da lontano: sono stati sul posto. Ora ci mostrano l’ingiustizia insita nell’applicazione di questa pratica crudele. E sono disposti a pagare di persona per questo gesto.

Rompere il silenzio è un diritto che ogni cittadino ha in democrazia, per poter contestare l’opinione predominante. Per alzarsi in piedi a sfidarla e gridare forte e chiaro che quello che ci hanno fatto credere è un mucchio di cavolate, è una menzogna, è un trucco. È una politica orribile che serve solo a una minima parte della società israeliana: alla destra colonialista e messianica e ai suoi rappresentanti in parlamento.

Quindi, in realtà, i professori Carmi, HaCohen e gli altri membri dell’amministrazione che hanno scelto questo argomento del consenso non ci hanno rivelato niente di nuovo: hanno ragione, noi siamo fuori dal consenso e ne siamo fieri.

I soldati che si avvicinano a Breaking the Silence per offrire la loro testimonianza su ciò che succede nei territori, si liberano –di proposito– dal caldo e confortevole abbraccio del consenso. Uno dopo l’altro, testimonianza dopo testimonianza, si sono traformati in una banca dati fatta di migliaia di testimonianze e di storie che, negli ultimi 12 anni, hanno denunciato i pericoli del consenso.

Vedendo come è stata isterica e violenta la risposta del consenso, la nostra azione, a quanto pare, è altamente efficace.

Breaking the Silence farà parte del consenso il giorno in cui vinceremo, il giorno in cui finirà l’occupazione e inizierà un processo di ricostruzione e riconciliazione.

Fino a quel momento, non abbiamo alcun interesse a far parte del consenso. Non perché vogliamo essere ostinati oppositori, ma perché non abbiamo altra scelta.

L’occupazione è un regime distruttivo che per 50 anni ha impedito a Israele di funzionare come una democrazia e sta rapidamente diventando ciò che definisce la nostra stessa identità.

Beaking the Silence guida un gruppo nella città occupata di Hebron, Cisgiordania, 7 marzo 2014. (Ryan Rodrick Beiler/Activestills.org).
Beaking the Silence guida un gruppo nella città occupata di Hebron, Cisgiordania, 7 marzo 2014. (Ryan Rodrick Beiler/Activestills.org).

Questo vuol dire che un numero sempre maggiore di israeliani stanno in realtà diventando servi di questo regime di occupazione. Sempre più persone, di ogni estrazione sociale, sono costrette a prendere parte attiva nel mantenere e sostenere il consenso, soprattutto per coprire le falle che si stanno aprendo. Nel corso dell’ultimo anno, ho visto ripetersi continuamente questo orribile processo.

In questo senso, la prof. Carmi si allinea con una schiera di persone indegne, come Yair Lapid che si è scagliato contro Breaking the Silence allo scopo di accattivarsi il consenso. Accanto a lui stanno i membri del suo partito che lo criticano dietro le quinte, ma tacciono in pubblico. E anche quelli stessi politici che una volta guidavano la lotta contro l’occupazione non dicono una parola di fronte all’ostilità e alla violenza scagliate contro di noi; ci sono dei politici che, con le lacrime agli occhi, mi hanno detto che “se appoggiano Breaking the Silence ne pagheranno il prezzo alle primarie.”

La lista di questi “nobili personaggi” che preferiscono tacere la loro personale opposizione all’occupazione perché il prezzo da pagare sarebbe troppo alto, diventa sempre più lunga.

Ed è vero, nell’Israele del 2016, ospitare una conferenza o assegnare un premio a dei soldati che si sono schierati apertamente contro l’occupazione è un atto di coraggio, non è una cosa scontata. È un gesto che ha un prezzo. Non devono spiegare a me che prezzo si paga a opporsi al consenso. Ma il pericolo sta proprio in questo.

Carmi non ha solo sottratto il premio a Breaking the Silence, ma –forse senza volerlo, forse senza pensarci fino in fondo– ha contribuito a rafforzare il consenso che ci etichetta come traditori e spie. Dopo tutto, se noi non fossimo dei traditori, il premio non sarebbe stato sottratto. La vera tragedia è questa: Carmi non ha ritirato il premio perché lei sostiene l’occupazione (anche se non so proprio cosa sostiene). E non penso che abbia in odio Breaking the Silence (in realtà non sa nemmeno chi siamo). Ha solo avuto paura.

Carmi ha battuto in ritirata di fronte al populismo sensazionalista e violento del governo dell’occupazione e del consenso. Ha accettato le regole anti-democratiche del gioco. Ha introiettato quello che i leader del consenso chiedono a tutti noi: non fate opposizione. Non date la tribuna a chi si oppone alla politica del governo. Non intralciate il potere politico che continua a occupare e a colonizzare. E soprattutto, non guastate il loro straordinario successo nel trasformare l’occupazione nel consenso nazionale.

Ma ora possiamo e dobbiamo dire la verità: quelli che hanno fatto sì che l’occupazione dei territori palestinesi continuasse ormai per quasi 50 anni, e che questo diventasse il consenso nazionale, non sono i coloni, o i deputati che questi ultimi hanno eletto in Parlamento. E non è nemmeno il primo ministro. I veri artefici sono quelli che permettono all’occupazione di prosperare. Sono quelli che, pur non sostenendola, rimangono in silenzio. Quelli che sanno che danneggia il futuro di Israele, ma non si levano a protestare. Quelli che riconoscono che l’occupazione contraddice e mette in pericolo la democrazia di Israele, ma scelgono sempre di rimanere con il consenso.

Detto questo, vorrei ancora ringraziare la prof. Carmi e l’amministrazione dell’università: grazie alla vostra decisione, il premio è diventato ancora più prezioso. Ha acquistato grande valore perché negli ultimi mesi ha denunciato di fronte a tante persone l’immenso degrado morale che ci circonda. La vostra decisione ha mobilitato la gente a schierarsi, coraggiosamente, contro la tirannia del consenso.

Ed è prezioso perché ci è stato assegnato oggi da un gruppo di persone ammirevoli che hanno agito con fedeltà e con coraggio, senza indietreggiare, dando a noi tutti un esempio e un modello di comportamento civico. Guy, Hagai, Iris, Anat, Amit, Yoni, Oren e molti altri, sono orgogliosa di esser qui con voi per questa toccante cerimoinia. A nome di Breaking ghe Silence, sono fiera di ricevere questo premio che è fuori dal consenso, che si oppone al consenso ed è il cruccio del consenso.

Grazie.

Yuli Novak è direttore esecutivo di Breaking the Silence.

http://972mag.com/proud-to-be-outside-the-consensus-until-the-occupation-ends/123033/

Traduzione di Donato Cioli

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