di HANAN ASHRAWI
The New York Times, 3 ottobre 2016
RAMALLAH, Cisgiordania — Ora che i funerali di Shimon Peres, già presidente e primo ministro di Israele, sono finiti e si è calmata l’ondata di commossi elogi da parte dei leader mondiali, è il momento per uno sguardo critico a ciò che ci ha lasciato. Mentre molti lo ricordano come un coraggioso e infaticabile paladino della pace, i Palestinesi lo ricordano diversamente, come uno che era molto bravo a parlare di pace, ma meno bravo quando si trattava di passare dalle parole ai fatti.
La fama di Peres è dovuta soprattutto al ruolo che ebbe negli Accordi di Oslo. All’inizio degli anni ’90, aveva partecipato a contatti riservati che portarono alla storica firma di Oslo I, la cosiddetta Dichiarazione dei Princìpi, tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) che si concluse con molta fanfara sui giardini della Casa Bianca. Per questa sua attività, nel 1994 gli fu conferito il Premio Nobel per la Pace insieme a Yitzhak Rabin e Yasser Arafat.
Fu proprio in questo periodo che incontrai Peres per la prima volta, dopo che mi ero dato da fare per stabilire un contatto tra Israele e l’OLP, insieme agli accademici israeliani Ron Pundak e Yair Hirschfeld. Peres, che era ministro degli esteri del governo Rabin, dette séguito a questi incontri segreti che portarono -per la prima volta- all’accettazione da parte di Israele di un negoziato con l’OLP.
A quel tempo i Palestinesi erano ottimisti circa la possibilità di un loro futuro che fosse libero dalla dominazione israeliana. Speravamo tutti che Peres e gli altri leader israeliani facessero seguire alle loro dichiarazioni a favore della pace delle azioni concrete per il raggiungimento di un accordo giusto e durevole che mettesse fine al conflitto. Ma, come poi si vide, non c’era alcun nesso tra la loro ampollosa retorica e le loro azioni concrete.
La promessa di pace della trattativa di Oslo non si realizzò mai, in gran parte per colpa di Peres e del “campo della pace” in Israele, ma anche per gli errori contenuti nella stessa Dichiarazione dei Princìpi. La Dichiarazione infatti permetteva a Israele di mettere in atto impunemente misure unilaterali devastanti come l’espansione delle colonie (visto che gli USA si rifiutavano di chiederne conto a Israele), ed era inevitabile che da ciò nascesse una cultura di odio e di razzismo verso i Palestinesi.
Nel corso delle trattative, la discussione di questioni fondamentali (come i confini, le colonie, il destino dei rifugiati palestinesi e lo status di Gerusalemme) fu rinviata, e si scelse un approccio graduale senza garanzie, senza un meccanismo di arbitraggio o di responsabilizzazione, dando così mano libera a Israele per influenzare il risultato a suo favore. Oslo divenne una trattativa tanto per trattare, piuttosto che uno strumento per mettere fine al conflitto.
Una volta Peres mi disse che ingaggiare colloqui di pace è come essere il pilota di un aereo. La madre del pilota vorrebbe che lui volasse basso e lento, ma questa sarebbe la ricetta per il disastro; per fare la pace devi volare alto e veloce, altrimenti precipiti e muori. Peres purtroppo non seguì il suo stesso consiglio.
La cosa più importante è che Israele continuò a costruire colonie su territori occupati che dovevano far parte dello stato palestinese, e addirittura ampliò questo programma. Nel periodo in cui Peres fu ministro degli esteri, ministro della difesa e primo ministro all’inizio della trattativa di Oslo degli anni ’90, Israele continuò a portare modifiche sul terreno che pregiudicavano la creazione di uno stato palestinese sostenibile a fianco di Israele, mentre i Palestinesi credevano che questo fosse l’obiettivo del processo di pace.
Quanto a Gerusalemme, nel 1993 Peres promise a me e all’esponente palestinese Faisal Husseini che Israele avrebbe rispettato l’integrità delle istituzioni palestinesi nella Gerusalemme Est occupata e che le avrebbe lasciate aperte. Arrivò persino a inviare una lettera al ministro degli esteri norvegese Johan Holst in cui ribadiva le sue assicurazioni. Ma quando nel 2001 Israele chiuse il quartier general dell’OLP, la Orient House di Gerusalemme, e altre importanti istituzioni palestinesi, Peres, che era ancora una volta ministro degli esteri (questa volta sotto il falco Ariel Sharon), non mosse un dito.
Mentre il mondo rivolgeva la sua attenzione ad altri conflitti, pensando che gli accordi di Oslo portassero alla pace, i Palestinesi videro un rafforzamento dell’occupazione israeliana piuttosto che un suo smantellamento. Oltre ad accelerare la crescita delle colonie, sotto la guida di Peres Israele impose nuove restrizioni ai Palestinesi e alla loro libertà di movimento. Dopo sette anni di negoziati, durante i quali la situazione dei Palestinesi continuò a peggiorare, crebbe il disincanto e la disperazione per l’uso che Israele faceva del processo di pace per coprire il furto di altre terre palestinesi e scoppiò la seconda intifada.
È certamente vero che i Palestinesi fecero i loro errori, ma Israele che era più forte ed era la potenza occupante, aveva la maggior parte delle carte in mano durante i negoziati di Oslo. Questo squilibrio fu aggravato dai mediatori americani che si comportavano più come “avvocati di Israele” che come arbitri giusti e neutrali, come ebbe a scrivere più tardi uno di loro.
Infine, il negoziato di Oslo fallì perché Peres e gli altri leader israeliani non accettarono mai del tutto il concetto di uno stato veramente indipendente a fianco di Israele. Invece di smantellare l’occupazione e permettere un’evoluzione dell’indipendenza palestinese, come era stato immaginato inizialmente, i successivi governi israeliani finirono per distruggere il concetto di uno stato palestinese e reinventarono l’occupazione come sistema incontrollato di potere e di espansione.
Oslo poteva essere salvato se Peres avesse agito con rapidità e decisione per la pace dopo aver conquistato il potere nel 1995 a seguito dell’assassinio di Rabin da parte di un estremista israeliano che si opponeva la ritiro di Israele dai territori occupati. Peres tentò invece di competere col partito di destra del Likud sul terreno di quest’ultimo. Questo culminò nel massacro di Qana, quando dei civili libanesi ospitati in un complesso delle Nazioni Unite furono bombardati dall’artiglieria israeliana nel corso del sanguinoso attacco al Libano ordinato da Peres poco prima delle elezioni del 1996. Il risultato fu che molti Israeliani che desideravano sinceramente la pace, compresi i Palestinesi cittadini di Israele, persero ogni fiducia in Peres e lui perse le elezioni.
Naturalmente la fiducia dei Palestinesi nei confronti di Peres era stata messa alla prova anche prima. Né i Palestinesi né altri popoli della regione hanno dimenticato il ruolo da lui avuto nell’armare le forze israeliane che esiliarono qualcosa come 750.000 Palestinesi al tempo della fondazione di Israele nel 1948; o la corsa all’armamento nucleare da lui scatenata con l’avvio del programma segreto israeliano di armi atomiche negli anni ’50 e ’60; o la sua responsabilità nella costruzione di alcuni dei primi insediamenti israeliani su territori palestinesi occupati negli anni ’70; o le sue posizioni pubbliche come ministro di governi guidati dal Likud in cui giustificava le violazioni israeliane dei diritti palestinesi e le ideologie estremiste; o il suo ultimo ruolo nella politica israeliana in cui da presidente è servito come foglia di fico per coprire il governo decisamente pro-insediamenti del primo ministro Benjamin Netanyahu.
Ed è stato proprio Netanyahu, divenuto capo del governo nel 1996, a mandare a picco ogni residua speranza di pace. Pochi anni dopo, un video girato a sua insaputa lo mostra mentre si sta vantando con un gruppo di coloni di avere “messo fine nei fatti agli accordi di Oslo”.
Dopo il fallimento degli accordi di Oslo e le successive violenze, in Israele si affermò il duplice mito della “generosa offerta” fatta ad Arafat a Camp David e dell’affermazione che non esistevano interlocutori palestinesi per la pace. Questa narrativa contribuì ad alimentare un’ondata di violenze che continua fino ad oggi da parte della destra estrema. Lo stesso Peres contribuì a perpetuare questi miti quando era ministro degli esteri di Sharon, compromettendo sostanzialmente ogni successivo sforzo per riprendere i negoziati.
Negli ultimi dieci anni, il Labor Party di cui Peres è stato un leader, è diventato una versione diluita del Likud ed è ora quasi irrilevante. Nello stesso tempo, la linea dura di Netanyahu, il Likud isolazionista e partiti ancor più estremi sono arrivati a dominare la politica israeliana, producendo una miscela tossica di razzismo, messianismo religioso e ipernazionalismo.
È vero che, in confronto a Netanyahu e ad altri leader politici israeliani, Peres era una colomba, ma questo vuol dire assai poco. Per misurare veramente la statura dell’uomo, bisogna valutarlo sulla base delle sue azioni, non delle sue parole o della sua reputazione e nemmeno sulla base di un paragone con i pericolosi fanatici di destra che compongono oggi il governo d’Israele.
Malgrado tutti i difetti del negoziato, la ricerca della pace rimane una nobile impresa. Ma l’incapacità di Peres a tradurre alti ideali in azioni effettive continua a minare questa sfuggente ricerca di pace in Palestina e in Israele.
Hanan Ashrawi, legislatore palestinese e membro del comitato esecutivo dell’OLP, era il portavoce della delegazione palestinese alla conferenza di pace di Madrid del 1991.
http://www.nytimes.com/2016/10/03/opinion/shimon-peres-the-peacemaker-who-wasnt.html
traduzione di Donato Cioli