Un’analisi dell’occupazione oppressiva e su vasta scala che ha lo scopo di dare ai Palestinesi “la sensazione di essere braccati”.
di Ben Ehrenreich
14 Giugno 2016
La notizia suonava familiare, ma non per questo l’orribile déja vu era meno preoccupante: quattro Israeliani uccisi mercoledì notte da Palestinesi armati nel cuore di Tel Aviv. Il governo di Israele, il più a destra nella storia del paese, ha risposto con misure che secondo un immediato avvertimento dell’ONU potrebbero essere considerate una punizione collettiva: inondare la Cisgiordania di truppe, sigillare la Cisgiordania e Gaza e revocare i permessi di ingresso che hanno permesso a 83.000 Palestinesi di entrare in Israele per lavoro, per motivi religiosi o per cure sanitarie.
Il giovedì, il giorno dopo le sparatorie, il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai ha trovato il coraggio per affermare ciò che è ovvio: che la violenza continuerà finché l’occupazione non sarà terminata. Israele “è forse l’unico paese al mondo che tiene un’altra nazione sotto occupazione e nega i diritti civili” ha detto Huldai. Una tale franchezza, di questi giorni, sembra un gesto di coraggio, ma anche Huldai ha sottostimato la realtà. Non è solo l’occupazione militare e la presenza delle truppe israeliane sul territorio palestinese a provocare questi attacchi. Può essere difficile da capire al di là dell’Atlantico, o anche dalla solitamente tranquilla Tel Aviv, ma l’occupazione (come l’ho vista facendo l’inviato in Cisgiordania fin dal 2011), funziona come un gigantesco meccanismo per la creazione di insicurezza, spoliazione e sistematica umiliazione. Non sono solo i soldati e le armi, ma una struttura pervasiva che influenza tutti gli aspetti della vita palestinese: una rete complessa di posti di blocco, limitazioni di movimento, permessi, muri e reticolati, tribunali e prigioni, vincoli senza fine alle possibilità economiche, demolizioni di case, espropriazioni di terre e risorse naturali e, troppo spesso, violenza mortale.
Per quanto grande possa essere, non c’è repressione preventiva o punizione collettiva che possa far terminare i fatti di sangue a Tel Aviv o altrove. Fintanto che questo sistema di oppressione rimane in piedi, e gli Stati Uniti continuano a sostenerlo con miliardi di dollari all’anno in aiuti militari, la disperazione si diffonderà, e con essa la morte.
Una conversazione che ho avuto due estati fa con l’ex soldato israeliano Eran Efrati mi ha aperto una piccola finestra sul funzionamento dell’occupazione. Ci incontrammo a Gerusalemme all’inizio di una guerra su Gaza che avrebbe lasciato più di 2.000 Palestinesi morti. Efrati aveva lasciato l’esercito da tempo ed era divenuto un attivista contro l’occupazione, ma aveva passato la maggior parte degli anni 2006 e 2007 prestando servizio nella città di Hebron nella Cisgiordania meridionale. Aveva 19 anni quando arrivò, e all’epoca non vedeva motivi per mettere in questione la presenza militare di Israele nella città. Alla sua prima sessione di istruzione, ricorda che un ufficiale chiese ai soldati che cosa avrebbero fatto se avessero visto un Palestinese attaccare un colono con un coltello.
“Naturalmente la risposta fu che gli avrebbero sparato addosso” disse Efrati. L’ufficiale allora pose la domanda al contrario: e se fosse il colono ad avere il coltello? “E la risposta fu che non puoi fare nulla. Il più che puoi fare è chiamare la polizia, ma non hai il diritto di toccare i coloni. Dal primo giorno l’ordine fu: «non puoi toccare i coloni»”. Questo mi sembrò sensato, disse Efrati. I Palestinesi erano il nemico. I coloni sembravano un po’ matti, ma erano ebrei.
Qualche giorno dopo, migliaia di coloni arrivarono da tutta la Cisgiordania per celebrare una festa religiosa. L’esercito impose il coprifuoco per tenere i Palestinesi lontano dalle strade. Il primo compito di Efrati come soldato ad Hebron fu di lanciare granate stordenti in una scuola per annunciare l’inizio del coprifuoco. “Io lo feci, come tutti gli altri” disse, “e in qualche secondo centinaia di bambini corsero fuori. Io stavo in piedi nell’atrio e molti di loro mi guardarono negli occhi: e per la prima volta quello sguardo mi colpì. Tutto ad un tratto capii che cosa stavo facendo. Capii a cosa assomigliavo”.
Quel fine settimana, mi raccontò Efrati, i coloni riempirono il centro della città. A lui fu affidato il compito di scortarne un gruppo alla Tomba dei Patriarchi, un sito sacro sia per l’Islam che per il Giudaismo, dove si crede siano sepolti Abramo, Isacco e Giacobbe e le loro mogli Sara, Rebecca e Lea. Ai coloni fu permesso di entrare nella parte palestinese del sito, nella moschea. Quello che Efrati vide lo sconvolse: i bambini israeliani facevano pipì per terra e bruciavano i tappeti. I loro genitori erano presenti – la moschea era piena di coloni – ma nessuno li fermava. Lui ed un altro soldato presero uno dei bambini e gli tolsero un accendino dalle mani. “Cominciò a gridare contro di noi” disse Efrati. “Noi ridemmo di lui”. Cinque minuti dopo “uno dei nostri più alti ufficiali venne dentro la moschea e ci chiese: “Avete preso qualcosa a questo bambino?” I due provarono a spiegare, ma l’ufficiale continuava a ripetere la domanda. “Dicemmo di sì”. L’ufficiale ordinò loro di restituirlo e di scusarsi. Trovarono il bambino, si scusarono e resero l’accendino. Il ragazzino corse nella stanza accanto, mi raccontò Efrati, e riprese a dar fuoco ai tappeti.
Le cose divennero ancora più strane. Ad Efrati fu affidata la responsabilità di un posto di blocco che separa la zona di Hebron abitata dai coloni dal resto della ben più vasta città palestinese. Efrati me lo descrisse come un lavoro faticoso fisicamente e mentalmente: stare in piedi al freddo fino a 16 ore di fila, spesso affamato e sempre in carenza di sonno. Infliggere umiliazioni era parte del compito. I maestri di scuola arrivavano vestiti in giacca e cravatta. I soldati li facevano spogliare davanti ai loro studenti. “A volte li facevamo aspettare in mutande per ore” disse Efrati.
Il pretesto era di controllare che non fossero armati. “Nessuno pensava veramente che avrebbe potuto accaderci qualcosa”, disse, ma ai soldati veniva continuamente ripetuto dagli ufficiali che tutti i Palestinesi erano potenziali minacce, che chiunque avrebbe potuto pugnalarli se avessero abbassato la guardia per un attimo. Questo concetto, disse Efrati, “ci rese molto, molto aggressivi. Così li spingevamo contro il muro, li spogliavamo, prendevamo la nostra arma e li colpivamo varie volte”.
“Se dice qualcosa, colpiscilo. Se si volta, colpiscilo. Fai in modo di avere sempre il controllo della situazione”.
La coscienza di Efrati cominciò a tormentarlo. Cominciò a portare sacchetti di Bamba – una merendina molto diffusa in Israele, simile ai Cheez Doodles ma con sapore di arachidi e senza quel colore giallo fosforescente – al posto di blocco e ad offrirli ai bambini. Dopo qualche giorno “arrivò il primo ragazzino coraggioso, prese un sacchetto di Bamba e scappò via.” Efrati se ne compiacque. Dopo poco un ragazzino di circa otto anni gli chiese un dolcetto. E questo non scappò via.
Il ragazzo aprì la sua merenda e ne offrì un po’ ad Efrati. Si sedettero e mangiarono patatine insieme. Quando il ragazzino andò via, Efrati si sentiva estasiato. Poteva finalmente essere l’uomo che voleva essere, un soldato amato per la sua gentilezza e che allo stesso tempo, come diceva lui “stava proteggendo il suo paese da un secondo Olocausto”.
Quando tornò in caserma quella notte, gli fu ordinato di mangiare rapidamente e di prepararsi per un’altra missione, non al posto di blocco ma in una spedizione di “ricognizione” nella parte della città controllata dall’Autorità Palestinese. Era ancora così di buon umore per il suo successo con i Bamba che non fu dispiaciuto per il nuovo incarico. Il compito era semplice: “Entri nelle case nel mezzo della notte, porti tutti fuori, fotografi la famiglia e cominci a perlustrare la casa, distruggendo quello che capita.” L’idea era di cercare armi, “ma dovevamo anche mandare un messaggio” disse Efrati, per essere sicuri che i residenti non dimenticassero mai “la sensazione di essere braccati”. (È una frase strana e lunga in altre lingue, ma è una parola sola in israeliano. Gli ufficiali la usavano molto, disse Efrati). Il suo lavoro era di redigere mappe di ciascuna casa, indicando le stanze, le porte e le finestre. “Se mai fosse arrivato un attacco terroristico proprio da quella casa,” l’esercito sarebbe stato pronto.
Quella notte perquisirono, vandalizzarono e mapparono due case nel quartiere di Abu Sneineh. C’era neve e faceva freddo. Quando ebbero finito, il sole non era ancora sorto ed il loro ufficiale scelse un’altra casa, apparentemente a caso. Obbligarono la famiglia ad uscire nella neve, entrarono ed iniziarono a perquisire. Efrati aprì la porta della stanza di un bambino – ricorda di aver visto un disegno di Winnie-the-Pooh ad una parete – ed aveva appena iniziato a mappare che si accorse che c’era qualcuno a letto. Un ragazzino sgusciò fuori da sotto le coperte. Era nudo. Efrati, spaventato, prese il fucile e lo puntò verso il ragazzino. Era il ragazzino del posto di blocco di quel pomeriggio. “Cominciò a farsi pipì addosso”, disse Efrati, “tremavamo entrambi, stavamo in piedi uno di fronte all’altro, tremando, e non dicevamo una parola”. Il padre del ragazzo, scendendo le scale con un ufficiale, vide Efrati che puntava il fucile contro suo figlio, e si precipitò nella stanza. “Ma invece di mandarmi via”, disse Efrati, “gettò a terra il figlio e cominciò a picchiarlo. Lo schiaffeggia davanti a me, mi guarda e dice «Per favore, per favore, non portare via mio figlio. Qualunque cosa abbia fatto, noi lo puniremo»”.
Alla fine l’ufficiale decise che il comportamento dell’uomo era sospetto, che “stava nascondendo qualcosa”. Ordinò ad Efrati di arrestarlo. “Così prendemmo il padre, lo bendammo, lo ammanettammo con le mani dietro la schiena e lo caricammo su di una jeep militare”. Fu scaricato all’ingresso della caserma. “Rimase lì per tre giorni con una maglietta stracciata e in pantaloncini corti. Sedeva lì nella neve”. Alla fine Efrati prese il coraggio per chiedere al suo ufficiale che cosa sarebbe accaduto al padre del ragazzino. “Non sapeva nemmeno di cosa stessi parlando”, disse Efrati. “Diceva «Che padre?»”. Efrati glielo ricordò. “Puoi rilasciarlo”, disse l’ufficiale. “Ha imparato la lezione”.
Dopo aver tagliato le manette di plastica che legavano i polsi dell’uomo, avergli tolto la benda ed averlo guardato correre via scalzo per le strade vestito solo di biancheria intima, Efrati si rese conto che non aveva mai dato al suo comandante le mappe che aveva disegnato. Ritornò di corsa all’ufficio dell’ufficiale. “Ho fatto una cavolata”, gli disse, scusandosi per la sua negligenza.
L’ufficiale non era arrabbiato. “Va bene”, disse, “Puoi buttarle via”.
Efrati era confuso. Fece le sue rimostranze: redigere le mappe non era un compito essenziale che poteva salvare le vite di altri soldati?
L’ufficiale si infastidì. “Disse «Via Efrati, smetti di fare lo scemo. Vai via».” Ma Efrati continuò a protestare, perché non capiva.
Quando fu chiaro che non riusciva a spiegarsi, l’ufficiale gli disse: “Abbiamo fatto mappe e perlustrazioni ogni notte, tre o quattro case per notte, per quarant’anni”. Lui stesso aveva perquisito e fatto mappe della casa in questione altre due volte con altre unità.
Efrati era sempre più confuso.
L’ufficiale ebbe compassione e spiegò: “Se entriamo in continuazione nelle loro case, se facciamo arresti ogni volta, se ogni volta sono terrorizzati, non ci attaccheranno mai. Si sentiranno solo braccati”.
Quella, disse Efrati, “fu la prima volta che capii che tutto quello che mi era stato detto erano solo stronzate”. Da allora, disse, “non ho smesso di fare le cose che facevo, ho solo smesso di pensare”.
Naturalmente l’ufficiale di Efrati si sbagliava. Se terrorizzi la gente abbastanza a lungo, alla fine essi perdono la loro paura. Si aggrappano alla rabbia. L’ottobre scorso, dopo un anno di relativa calma, giovani palestinesi hanno iniziato ad attaccare soldati israeliani, polizia e civili, qualche volta con le armi oppure con le auto, ma il più delle volte con strumenti casalinghi: coltelli, forbici, cacciaviti. Gli attacchi non erano coordinati ed erano al fuori dal controllo della dirigenza palestinese e delle tradizionali fazioni armate. Molti attacchi sono avvenuti a Hebron o nelle vicinanze, spesso ai posti di blocco o in altri punti di frizione tra i civili palestinesi ed i militari israeliani, ma anche su autobus e treni a Gerusalemme, nei supermercati e nelle strade.
In novembre, il Maggior Generale Herzl Halev, l’ufficiale di più alto grado dei servizi di sicurezza israeliani, ha spiegato al governo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu che gli attacchi non si fondavano su motivi ideologici. Erano motivati, ha detto, dalla rabbia e dalla frustrazione dei giovani – per lo più adolescenti – che “sentivano di non aver niente da perdere.” In realtà avevano moltissimo da perdere, come tutti gli altri, innanzi tutto le loro stesse vite. Ma il fatto che siano così numerosi coloro che sono disposti a gettare via la propria vita, e portare via altre vite, testimonia quanto sia profonda la disperazione causata dall’occupazione israeliana.
Quando sono tornato in Israele e in Cisgiordania all’inizio del mese, sembrava che la violenza stesse diminuendo. Dal 18 febbraio fino alle sparatorie di mercoledì, nessun Israeliano era stato ucciso da Palestinesi. Nello stesso periodo le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso 34 Palestinesi, compresa una bambina di sei anni e suo fratello di dieci, che sono morti per un attacco aereo contro la loro casa nella striscia di Gaza. I loro nomi erano Israa e Yasin Abu Khussa. Queste morti arrivano raramente ai titoli dei nostri giornali, ma i Palestinesi le conoscono bene. Fintanto che le morti continuano, e l’occupazione si trascina, possiamo aspettarci molte altre occasioni di lutto.
Ben Ehrenreich è un giornalista indipendente ed uno scrittore. Questo articolo è stato adattato dal suo ultimo libro, The Way to the Spring: Life and Death in Palestine, che è stato pubblicato il 14 giugno da Penguin Press.
http://www.politico.com/magazine/story/2016/06/israel-palestine-occupation-violence-213957
Traduzione di Maurizio Bellotto