La famiglia palestinese che ha lottato contro un soldato per salvare il proprio figlio

Quando la madre, la sorella e la zia di Mohammad hanno visto che un soldato israeliano aggrediva il ragazzino di 12 anni, lo hanno afferrato da tutte le parti. Poi il padre del ragazzo ha avvisato un ufficiale perché venisse a prendere il soldato.

di Amira Hass,

Haaretz 3 settembre 2015

Sabato pomeriggio Nariman Tamimi ha ripetuto forse per la millesima volta la stessa risposta, dicendo all’ennesimo giornalista che lei ha fatto la cosa più naturale quando il 28 agosto è corsa a salvare suo figlio Mohammad di 12 anni dalla stretta di un soldato dell’esercito israeliano durante la manifestazione nel villaggio di Nabi Saleh in Cisgiordania. Dire che “è corsa” è eccessivo, poiché zoppicava appoggiandosi alle stampelle.

Il 21 novembre dello scorso anno un soldato dell’esercito israeliano le aveva sparato, ferendola alla gamba sinistra, perché stava filmando dei soldati che disperdevano la settimanale manifestazione nel villaggio. La stessa manifestazione ha segnato il secondo anniversario della morte di suo fratello, Rushdie, a cui un soldato ha sparato alla schiena uccidendolo. Un’inchiesta dell’esercito ha rivelato che quel giorno i soldati spararono circa 80 proiettili, senza che ciò fosse giustificato [da una situazione di pericolo], per disperdere una protesta nel villaggio.

Quando Nariman ha sentito le grida di suo figlio ed ha cominciato ad arrancare verso di lui più in fretta che poteva tra le pietre e i cardi, pensava ad una sola cosa: “Che cosa accadrà al suo braccio rotto?” Il mercoledì precedente delle jeep militari erano entrate nel villaggio. I più giovani avevano tirato loro delle pietre per protesta, i soldati avevano sparato gas lacrimogeno e le persone, tra cui Mohammad, che stava facendo spesa al negozio di alimentari, sono fuggite per via del lancio di lacrimogeni. Lui era inciampato rompendosi il braccio sinistro.

A causa della sua difficoltà a camminare, Nariman non può partecipare alle manifestazioni settimanali in cui gli abitanti di Nabi Saleh rivendicano il loro diritto di ritornare ad utilizzare la loro sorgente di acqua potabile, che i coloni di Halamish hanno loro sottratto. Lei stava in cima alla collina da dove vedeva la sorgente, la strada e l’insediamento. Di là stava guardando la manifestazione.

“Circa 25 persone vi partecipavano, tra cui diversi israeliani ed attivisti della solidarietà internazionale. I soldati hanno fermato la loro marcia a metà strada, hanno sparato granate di gas lacrimogeno ed hanno sbarrato il cancello di ferro all’entrata della strada. Hanno guidato le jeep verso la sorgente, i soldati usciti dai veicoli hanno cominciato a risalire la collina e di là hanno continuato a tirare lacrimogeni contro i manifestanti”, ha riferito Bassem Tamimi, marito di Nariman.

I più giovani del villaggio si sono radunati in cima alla collina tirando sassi contro i soldati (Nariman stava ad una certa distanza da loro e filmava con il suo cellulare). “Improvvisamente”, ricorda “sono comparsi più di 20 soldati armati e mascherati vicino ai ragazzi. Erano vestiti in modo leggero, senza giubbotti o elmetti.”

La gente suppone che i soldati si fossero posizionati la notte precedente in una villa vicina sulla collina. “C’era confusione, la gente ha iniziato a disperdersi in ogni direzione. E allora abbiamo visto i soldati aggredire e picchiare un cittadino italiano che stava filmando,” ha raccontato Bassem.

Lui ed altri sono corsi a salvare l’italiano (che è stato agli arresti fino a lunedì scorso). E allora si sono accorti che stavano arrestando anche il cugino di Nariman, Mahmoud Tamimi (che è ancora detenuto). Improvvisamente hanno sentito le urla di un ragazzo e la voce del loro parente Bilal che gridava loro di correre subito.

Ahed, la figlia quattordicenne di Bassem e Nariman, è stata la prima a raggiungere il luogo da cui provenivano le urla. Ha visto un soldato mascherato che afferrava suo fratello Mohammad e gli metteva un braccio intorno al collo.

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“Ero là e vedevo i soldati e i ragazzi,” ha detto Mohammad. “All’improvviso ho visto un soldato che veniva a prendermi. Ho cercato di scappare ma mi ha preso. Mi soffocava con un braccio, ha preso la mia testa e l’ ha schiacciata a terra sulle pietre. Ovviamente ero spaventato.”

Sua sorella Ahed ha detto di non aver avuto paura quando è corsa verso il soldato per allontanarlo da suo fratello. “Quando le cose stanno accadendo” ha detto “non hai paura.”

Dopo che Ahed è accorsa sulla scena, sono arrivati sua madre, sua zia e suo padre. “Ho visto il soldato che strangolava mio figlio, schiacciandolo sulle pietre, prendendo la sua testa e sbattendola contro il terreno. Una violenza difficile da descrivere”, ha detto Bassem. Insieme, la madre, la sorella e la zia hanno afferrato il soldato da ogni lato per staccarlo dal ragazzo terrorizzato. Quando il soldato armato ha sollevato il braccio per scacciare Ahed, lei lo ha afferrato e lo ha morso.

Eppure Nariman ha provato pena per il soldato. “E’ una vittima della politica; lui stesso è un ragazzo”, ha osservato, “ma dovrebbe chiedersi perché viene mandato a casa nostra per farci del male.”

Bassem, che ha visto gli altri soldati lontani dal loro compagno, ha avuto paura che alcuni dei giovani palestinesi si avvicinassero, che il soldato tentasse di sparargli, che qualcuno rimanesse ferito e che i ragazzi cercassero di vendicarsi su di lui. “Sono stato combattuto tra la preoccupazione per mio figlio e per quello che avrebbe potuto succedere”, ha detto. Ha urlato ad un ufficiale che si trovava a 70 o 80 metri di distanza di venire lì. “Ho gridato in ebraico, in inglese, in arabo. Se avessi conosciuto altre lingue avrei gridato anche in quelle.” L’ufficiale è arrivato e ha sollevato il soldato che era steso a terra. Quando si è alzato, ha dato un calcio alla donna e alla ragazza, ha colpito Bassem col calcio del fucile ed ha tirato una granata assordante.

I genitori temevano che il braccio rotto di Mohammed fosse stato nuovamente ferito e hanno iniziato a scendere verso il centro del villaggio per trovare un mezzo di trasporto per l’ospedale. “I soldati ci hanno sparato con proiettili di metallo ricoperti di gomma”, ha riferito Bassem. “D’improvviso Salam (il loro figlio più piccolo, di sette anni) si è messo ad urlare. Si è scoperto che era stato ferito alla gamba. Io l’ ho preso in braccio e Yonatan (l’attivista di sinistra Jonathan Pollak) ha aiutato Mohammad e Naji (un altro familiare) ha trasportato Ahed, che non poteva camminare a causa delle percosse del soldato. Abbiamo cercato un’ambulanza.” All’ospedale di Ramallah si è saputo che il piede di Salam era rotto, ma il braccio rotto di Mohammed non era stato ulteriormente ferito. Tutti avevano contusioni varie.

Nei giorni seguenti hanno avuto moltissime visite di giornalisti ed amici. Non è venuto nessun funzionario dell’Autorità Nazionale Palestinese. Tra una visita e l’altra, Bassem ha letto e riletto con stupore gli articoli in ebraico sulle “donne palestinesi che hanno attaccato un combattente della Brigata Golani.” Sua moglie Nariman ha contestato questa versione dei fatti. “Adesso che ci sono i social networks le bugie non servono. I video mostrano chiaramente chi è stato ad attaccare. Noi abbiamo il diritto di difenderci da chi ci aggredisce.”

“Non capisco”, ha aggiunto Ahed, “una pietra è violenza e un fucile non lo è?”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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