Persone che, come i giovani che si oppongono all’occupazione militare dei territori palestinesi e manifestano contro il muro e l’occupazione, sono considerate dalla maggioranza della popolazione israeliana dei traditori mentre sono invece la salvezza di Israele dal totale collasso morale.
Non ritengo si possa mettere in dubbio che la politica di occupazione militare, il furto delle terre, il tentativo di annullare l’identità e di dominare un altro popolo non ferisca solo il popolo oppresso, ma anche la società dominante. Il razzismo praticato contro il popolo palestinese non ha lasciato indenne la società israeliana, basta vedere le discriminazioni praticate nei confronti degli ebrei provenienti dall’Etiopia, le disparità tra ebrei askenaziti e sefarditi, i conflitti tra le diverse comunità religiose ortodosse…
Il melting pot che aveva caratterizzato i primi decenni della fondazione dello Stato d’Israele, le politiche di eguaglianza sociale, i kibbutz, sono stati sostituiti da un’economia e da politiche liberiste, introdotte dai primi governi di Netanyahu (non così diverse da quelle delle nostre società).
Le divisioni sociali vengono però ancora mascherate, tranne in quei momenti di esplosione, come le ribellioni dei falascia, le aggressioni tra diversi gruppi di ebrei ortodossi, le manifestazioni nelle piazze delle donne e i giovani. Netanyahu, con i suoi governi sempre più composti da coloni e ortodossi, è finora riuscito a tenere insieme la stragrande maggioranza della popolazione con la colonizzazione crescente dei territori palestinesi, con un nazionalismo radicale, manifestatosi prepotentemente con l’aggressione alla Striscia di Gaza dell’estate scorsa, ma soprattutto con gli attacchi anche fisici a chi in Israele ha osato opporsi a quel massacro, costato la vita a più di 2mila palestinesi.
Quando Yitzhak Rabin venne assassinato da un ebreo fanatico, Lea, sua moglie, denunciò la responsabilità di Netanyahu e Sharon nell’aver incitato l’assassinio di suo marito con le loro arringhe contro Rabin e quello che consideravano il suo tradimento alla realizzazione della grande Israele. Rabin, malgrado le trappole per i palestinesi insite nell’accordo di Oslo, si era convinto che per la pace nella regione fosse necessario restituire i territori occupati nel 1967. Dal suo assassinio, le politiche israeliane, a partire da quelle di Shimon Peres, sono sempre state più rivolte alla “sicurezza” e all’espansione coloniale che non alla ricerca della pace. I coloni, che erano 150mila nel periodo dell’accordo di Oslo, sono oggi più di 550mila. Nell’esercito sono più del 40%, sono tra i giudici civili e militari, nel governo, in Parlamento. E i giovani delle colonie nel Nord e nel Sud della Cisgiordania, a Nablus, a Hebron, sono sempre più fanatici ed attaccano mascherati e con bastoni contadini, ragazzi, case, greggi per terrorizzare la popolazione palestinese e costringerla a lasciare le terre.
La responsabilità per la crescita del nazionalismo non è solo del governo israeliano. I tragici e illegali attentati suicidi contro la popolazione civile israeliana, praticati da gruppi estremisti palestinesi e da Hamas tra il 1994 e il 2005, hanno indubbiamente aiutato l’affermazione delle destre israeliane che, al governo, hanno sempre più inflitto alla popolazione palestinese punizioni collettive, restrizioni di libertà di movimento ed un vero e proprio sistema di apartheid, come si evince anche dalla costruzione del Muro o Barriera di Separazione, come viene chiamata dal governo israeliano. Muro che oltre a separare i palestinesi dai palestinesi, li relega in ghetti annettendo terra fertile e falde acquifere.
D’altro canto anche la società palestinese vive contraddizioni profonde, con una leadership divisa, la presenza di forti elementi di corruzione, discriminazioni sociali, ed una popolazione martoriata dall’occupazione militare: migliaia di morti, a partire dal 1967 più di 800mila incarcerati, torture, detenzione amministrativa, arresti di minori, accaparramento della terra.
La vittoria della lista di Hamas, “Cambiamenti e riforme”, alle elezioni del 2006 ha sancito il fallimento non solo di Al Fatah, ma di tutta l’Organizzazione di liberazione della Palestina. Oggi nessuno può parlare in nome di tutto il popolo palestinese, quella che viene chiamata Autorità palestinese rappresenta la popolazione di Cisgiordania e Gaza, e non i milioni di palestinesi profughi della diaspora.
I tentativi di riunire Cisgiordania e Gaza con un governo di unità nazionale, vede le due maggior parti implicate, Fatah ed Hamas, non impegnate seriamente nell’effettiva realizzazione di un governo unitario. E le conseguenze sono pagate dalla popolazione palestinese che a Gaza continua ad essere rinchiusa, senza poter respirare e pagando non solo per il tallone di ferro israeliano, ma anche per i conflitti e le diverse alleanze dei Paesi arabi (e non solo) della regione.
Ma per i palestinesi è resistenza anche il solo respirare ed i Comitati Popolari per la resistenza nonviolenta di diversi villaggi – che a partire dalla costruzione del Muro nel 2002 manifestano in modo nonviolento insieme a israeliani e internazionali, malgrado la forte repressione israeliana – continuano ad agire e dire al mondo che si rifiutano di morire in silenzio. Una resistenza organizzata taciuta dai media, che tende a mostrarci i palestinesi o come vittime o come terroristi, così come non ci fa conoscere la società palestinese con la sua ricchezza culturale, la musica, l’arte, la cultura.
In Palestina e Israele ogni momento sembra cruciale e invece non si arriva mai ad una soluzione che possa porre fine all’ingiustizia sofferta dalla popolazione palestinese e che consenta ai due popoli di vivere in pace e sicurezza. Se questo non avviene la responsabilità è dell’intera Comunità internazionale, dell’Onu, dei Paesi arabi, dell’Unione Europea che non decide di imporre ad Israele la fine dell’occupazione militare e il rispetto della legalità internazionale.
In questi giorni stanno avvenendo fatti importanti che paiono sgretolare il monolitismo delle alleanze israeliane, come il voto per il riconoscimento dello Stato di Palestina in alcuni parlamenti europei, il depennamento di Hamas dalla lista nera dei terroristi da parte dell’Unione Europea, la condanna delle politiche di colonizzazione – con la minaccia di portare Israele di fronte a corte penali – da parte della IV Convenzione di Ginevra convocata dalla Svizzera malgrado le pressioni israeliane, la presentazione all’Onu e al Consiglio di Sicurezza, da parte della Giordania e a nome dei Paesi arabi, della richiesta di definire entro 12 mesi la fine dell’occupazione militare israeliana, l’autodeterminazione per il popolo palestinese e i confini dei due Stati vigenti il 4 giugno del 1967.
Tutti avvenimenti che hanno fatto infuriare il primo ministro israeliano (che un noto dirigente dello Shin Bet, il servizio segreto israeliano, chiama “egomaniaco”), il quale ha attaccato l’Unione Europea giocando la carta dell’Olocausto (e con questo non intendo ovviamente sminuire i crimini della Shoah) ma soprattutto trasformando nello stesso giorno due basi militari al fine di ampliare le colonie israeliane nei territori occupati.
Gli Usa con Kerry hanno fatto intendere che applicheranno il veto sulla risoluzione della Giordania, così come hanno fatto e stanno facendo pressioni e ricatti su altri Paesi facenti parte del Consiglio di Sicurezza affinché non votino la risoluzione. Ma crepe sembrano apparire nel Dipartimento di Stato, irritato dalla tracotanza della leadership israeliana. Usa e Ue continuano a sostenere che l’accordo deve essere raggiunto tra le due parti, manifestando così una totale ipocrisia: non c’è simmetria tra un Paese occupato e un Paese occupante, e lo mostrano i fatti.
Le dichiarazioni dei leader israeliani e le loro politiche sul territorio rendono manifeste le loro intenzioni: nessuno Stato palestinese e certamente non un ritorno ai territori del 1967, ma annessione della Valle del Giordano e della maggioranza dei territori in area C (secondo gli Accordi di Oslo sotto controllo e amministrazione israeliana, ndr) e cioè il 62% del territorio dove dovrebbe esserci lo Stato palestinese che comunque sarebbe soltanto sul 22% della Palestina storica.
La partita è aperta, noi società civile organizzata abbiamo la responsabilità di far cambiare posizione ai nostri governi e far sì che la legalità internazionale venga rispettata da tutti e di contribuire alla fine della impunità di cui Israele ha usufruito fino ad ora. Non c’è pace senza giustizia.
Luisa Morgantini, già vicepresidente del Parlamento europeo, è presidente dell’associazione Assopace Palestina